«Nessuna cosa credo sia più manifesta e palpabile, che l’infelicità necessaria di tutti i viventi. Se questa infelicità non è vera, tutto è falso, e lasciamo pur questo e qualunque altro discorso. Se è vera, perché non mi ha da essere né pur lecito di dolermene apertamente e liberamente, e dire, io patisco?»
I. Partiamo dalla fine, dal testo che conclude l’edizione delle Operette morali del 1827 (la prima edizione, pubblicata a Milano da Antonio Fortunato Stella), il Dialogo di Timandro e di Eleandro, perché, come spiega lo stesso Leopardi nella lettera all’editore del 16 giugno 1826, il brano, «apologia dell’opera contro i filosofi moderni», compendia lo «spirito» delle Operette morali, rappresentandone «una specie di prefazione» [1]. È in questo testo che Leopardi riassume il significato del libro e, più in generale, dell’intera sua produzione filosofico-letteraria, esponendone di fatto i principali punti programmatici.
In apertura del dialogo Leopardi sottolinea l’inattualità del proprio pensiero, in controtendenza rispetto all’umano trionfalismo caratteristico della filosofia moderna: «Quel continuo biasimare e derider che fate la specie umana, primieramente è fuori di moda», accusa Timandro, “colui che ha stima dell’uomo”. «Anche il mio cervello è fuori di moda» [2], replica Eleandro, “colui che commisera l’uomo”. Timandro ricorda poi all’interlocutore l’obbligo, comune a tutti gli uomini, di giovare alla specie umana. «Se la mia specie procura di fare il contrario a me, non veggo come mi corra cotesto obbligo che voi dite» (ibidem), ribatte Eleandro. Timandro, in questo rapido scambio di battute, rimprovera ad Eleandro che i suoi libri «mordono continuamente l’uomo», nuocendo così alla specie umana, mentre la letteratura dovrebbe giovarle. In questa operetta Leopardi mette in scena un vero e proprio processo preventivo alla propria opera e, più in generale, alla propria filosofia. Così Timandro continua ad accusare Eleandro, incolpandolo di essere mosso da «un’ambizione insolita e misera di acquistar fama dalla misantropia, come Timone: desiderio abbominevole in se, alieno poi specialmente da questo secolo, dedito soprattutto alla filantropia» (582). Eleandro si difende, dichiarandosi «inabile e impenetrabile all’odio», perché ogni vizio e ogni reato altrui riguardano anche se stesso, come ogni altro uomo, li ritrova almeno potenzialmente in sé; inoltre in lui la consapevolezza della vanità delle cose umane è così profondamente radicata da impedirgli di condannare, di mettersi in battaglia per qualunque malvagità: un atto di resa alla meschinità dell’uomo, necessaria, naturale.
E allora, domanda Timandro, se non è il risentimento, non è l’odio, non è l’ambizione a generare i tuoi testi, che cos’è? Innanzitutto, risponde Eleandro, «l’intolleranza di ogni simulazione e dissimulazione» (583). Il trionfalismo e la filantropia della filosofia moderna non corrispondono alla natura umana e Leopardi invita a togliersi finalmente la maschera e rimanere con i propri vestiti: è questa la sua missione di poeta, scrittore e filosofo morale e civile, smascherare i miti, le illusioni, le speranze edulcoranti e false, mostrando l’effettiva realtà delle cose, l’effettiva natura miserevole degli uomini, In secondo luogo, scopo dell’attività filosofico-letteraria di Eleandro-Leopardi non è tanto «mordere» il genere umano, «quanto dolermi del fato»:
«Nessuna cosa credo sia più manifesta e palpabile, che l’infelicità necessaria di tutti i viventi. Se questa infelicità non è vera, tutto è falso, e lasciamo pur questo e qualunque altro discorso. Se è vera, perché non mi ha da essere né pur lecito di dolermene apertamente e liberamente, e dire, io patisco?» (ibidem).
In questo passo è racchiuso il senso più profondo dell’esperienza filosofico-letteraria ed esistenziale di Leopardi. La sua è la filosofia della sofferenza, o della souffrance, come scrive nel pensiero del giardino [3], quella sofferenza necessaria, naturale, immanente a ogni essere, dall’uomo al più piccolo e invisibile degli organismi. Ma Eleandro-Leopardi lo fa con il sorriso e ne spiega le ragioni (nelle seguenti righe è compendiato il significato della celeberrima ironia leopardiana):
«Ma se mi dolessi piangendo (e questo si è la terza causa che mi muove), darei noia non piccola agli altri, e a me stesso, senza alcun frutto. Ridendo dei nostri mali, trovo qualche conforto; e procuro di recarne altrui nello stesso modo. Se questo non mi vien fatto, tengo pure per fermo che il ridere dei nostri mali sia l’unico profitto che se ne possa cavare, e l’unico rimedio che vi si trovi. Dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella bocca un sorriso. Non dovete pensare che io non compatisca all’infelicità umana. Ma non potendovisi riparare con nessuna forza, nessuna arte, nessuna industria, nessun patto; stimo assai più degno dell’uomo, e di una disperazione magnanima, il ridere dei mali comuni; che il mettermene a sospirare, lagrimare e stridere insieme cogli altri, o incitandoli a fare altrettanto» (583-584).
Come Timandro, anche Eleandro desidera il bene dell’uomo, certo, ma senza sperarlo in «nessun modo», perché incapace di dilettarsi e nutrirsi «di certe buone aspettative, come veggo fare a molti filosofi in questo secolo», e perché la sua disperazione, «intera», «continua», «fondata in un giudizio fermo e in una certezza», lo priva di «sogni e immaginazioni liete circa il futuro, né animo d’intraprendere cosa alcuna per vedere di ridurle ad effetto» (584). Consapevole del destino di infelicità, di dolore e di distruzione dell’uomo e di ogni altro essere, Eleandro-Leopardi è costretto a vedere tutto con le palpebre recise, incapace di chiudere gli occhi e abbandonarsi a «sogni e immaginazioni liete».
Timandro naturalmente è portavoce dell’assurdo mito del progresso e dell’altrettanto assurda illusione della perfettibilità dell’uomo. Per lui, filosofo alla moda, perfettamente radicato nel proprio secolo, è «dannosissimo e abbominevole l’ostentare cotesta vostra disperazione, e l’inculcare agli uomini la necessità della loro miseria, la vanità della vita, l’imbecillità e piccolezza della loro specie, e la malvagità della loro natura: il che non può fare altro frutto che prostrarli d’animo; spogliargli della stima di se medesimi, primo fondamento della vita onesta, della utile, della gloriosa; e distorli dal procurare il proprio bene» (ibidem). Timandro insomma, come dichiara subito dopo, preferisce l’illusione e la menzogna alla verità, perché «non ogni verità è da predicare a tutti, né in ogni tempo» (ibidem). Bisogna dunque occultare, nascondere, mascherare, simulare e dissimulare, nel nome del progresso e della perfettibilità dell’uomo. Questo è quello che fa la filosofia moderna, la filosofia alla moda, del XIX secolo, alla quale Leopardi oppone la sua filosofia della sofferenza, «dolorosa, ma vera».
II. Generale preludio alle Operette morali, la Storia del genere umano [4] rappresenta un grandioso apologo sull’infelicità umana, «misero genere» cui non può bastare, «come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in qualunque stato l’impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da se medesimi, quando meno sono afflitti dagli altri mali» (495). Incapace di accontentarsi, l’uomo anela all’«impossibile», desiderando quella «felicità ignota ed aliena dalla natura dell’universo» (496) e aggravando così il suo stato naturalmente miserevole. Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio, Amore, Sapienza non sono altro che «fantasmi», «meravigliose larve», illusioni. La Sapienza promette e giura ai suoi seguaci di voler mostrare loro la Verità, promessa di una felicità paragonabile a quella divina, «Ma come poteva una pura ombra ed una sembianza vota mandare ad effetto le sue promesse, non che menare in terra la Verità?» (ibidem). Gli uomini dimenticano tutte le altre «larve», che pure hanno reso le loro esistenze meno povere e meschine, e si concentrano solo sulla Verità, mostrando di nuovo la loro «inquieta, insaziabile, immoderata natura». Giove questa volta reagisce duramente, decidendo di punire in eterno il genere umano inviandogli proprio la Verità, facendola «perpetua moderatrice e signora della gente umana» (497). L’«imperio della Verità» produce effetti devastanti:
«E maravigliandosi gli altri Dei di questo consiglio, come quelli ai quali pareva che egli avesse a ridondare in troppo innalzamento dello stato nostro e in pregiudizio della loro maggioranza, Giove li rimosse da questo concetto mostrando loro, oltre che non tutti i geni, eziandio grandi, sono di proprietà benefici, non essere tale l’ingegno della Verità, che ella dovesse fare gli stessi effetti negli uomini che negli Dei. Perocché laddove agl’immortali ella dimostrava la loro beatitudine, discoprirebbe agli uomini interamente e proporrebbe ai medesimi del continuo dinanzi agli occhi la loro infelicità; rappresentandola oltre a questo, non come opera solamente della fortuna, ma come tale che per niuno accidente e niuno rimedio non la possano campare, né mai, vivendo, interrompere. Ed avendo la più parte dei loro mali questa natura, che in tanto sieno mali in quanto sono creduti essere da chi li sostiene, e più o meno gravi secondo che esso gli stima; si può giudicare di quanto grandissimo nocumento sia per essere agli uomini la presenza di questo genio. Ai quali niuna cosa apparirà maggiormente vera che la falsità di tutti i beni mortali; e niuna solida, se non la vanità di ogni cosa fuorché dei propri dolori. Per queste cagioni saranno eziandio privati della speranza; colla quale dal principio insino al presente, più che con altro diletto o conforto alcuno, sostentarono la vita. E nulla sperando, né veggendo alle imprese e fatiche loro alcun degno fine, verranno in tale negligenza ed abborrimento da ogni opera industriosa, non che magnanima, che la comune usanza dei vivi sarà poco dissomigliante da quella dei sepolti. Ma in questa disperazione e lentezza non potranno fuggire che il desiderio di un’immensa felicità, congenito agli animi loro, non li punga e cruci tanto più che in addietro, quanto sarà meno ingombro e distratto dalla varietà delle cure e dall’impeto delle azioni. E nel medesimo tempo si troveranno essere destituiti della naturale virtù immaginativa, che sola poteva per alcuna parte soddisf arli di questa felicità non possibile e non intesa, né da me, né da loro stessi che la sospirano. E tutte quelle somiglianze dell’infinito che io studiosamente aveva poste nel mondo, per ingannarli e pascerli, conforme alla loro inclinazione, di pensieri vasti e indeterminati, riusciranno insufficienti a quest’effetto per la dottrina e per gli abiti che eglino apprenderanno dalla Verità. Di maniera che la terra e le altre parti dell’universo, se per addietro parvero loro piccole, parranno da ora innanzi menome: perché essi saranno instrutti e chiariti degli arcani della natura; e perché quelle, contro la presente aspettazione degli uomini, appaiono tanto più strette a ciascuno, quanto egli ne ha più notizia. Finalmente, perciocché saranno stati ritolti alla terra i suoi fantasmi, e per gl’insegnamenti della Verità, per li quali gli uomini avranno piena contezza dell’essere di quelli, mancherà dalla vita umana ogni valore, ogni rettitudine, così di pensieri come di fatti; e non pure lo studio e la carità, ma il nome stesso delle nazioni e delle patrie sarà spento per ogni dove; recandosi tutti gli uomini, secondo che essi saranno usati di dire, in una sola nazione e patria, come fu da principio, e facendo professione di amore universale verso tutta la loro specie; ma veramente dissipandosi la stirpe umana in tanti popoli quanti saranno uomini. Perciocché non si proponendo né patria da dovere particolarmente amare, né strani da odiare; ciascheduno odierà tutti gli altri, amando solo, di tutto il suo genere, se medesimo. Dalla qual cosa quanti e quali incomodi sieno per nascere, sarebbe infinito a raccontare. Né per tanta e sì disperata infelicità si ardiranno i mortali di abbandonare la luce spontaneamente: perocché l’imperio di questo genio li farà non meno vili che miseri; ed aggiungendo oltremodo alle acerbità della loro vita, li priverà del valore di rifiutarla» (497-498).
La Verità sprofonda l’uomo in uno stato di «suprema miseria», peggiore dell’originaria, che non avrà mai risoluzione. Resta intatto solamente il mito dell’Amore, esaltato da Leopardi, ma da un punto di vista morale, come unico conforto riservato esclusivamente ai meritevoli.
III. Nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo il primo annuncia al secondo l’estinzione del genere umano, citando la tragicommedia Rutzvanscald il Giovane di Valaresso: «Voi gli aspettate invan, son tutti morti» (508). Sulla terra è calata finalmente la calma: «non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo» (ibidem). Lo Gnomo domanda all’ironico Folletto, spirito aereo, funambolico dentro e fuori, le ragioni dell’estinzione del genere umano: «Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male» (ibidem). Il Folletto sottolinea lo stato innaturale del genere umano e la sua innata propensione all’autodistruzione, che si manifesta in molti modi e, in generale, nel suo stile di vita contronatura. L’uomo è illuso che il mondo e l’intero universo siano stati creati per lui, e che egli ne sia il centro, ma le cose «ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli» (509). Leopardi demolisce ironicamente il mito dell’antropocentrismo:
FOLLETTO Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.
GNOMO E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.
FOLLETTO E il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo» (509-510).
L’uomo scompare e non solo il mondo non smette di girare, di vivere, ma torna finalmente a respirare, ritrova la pace e la salute: più che il signore, del mondo l’uomo ne è la patologia.
IV. Il Dialogo di Malambruno e di Farfarello è incentrato sul grande tema dell’infelicità. Malambruno, mago del Don Chisciotte, attraverso l’arte della negromanzia invoca gli «spirti d’abisso» e compare Farfarello, demone dantesco (uno dei dodici Malebranche, dallo sguardo stralunato [5]). Malambruno non desidera «nobiltà maggiore di quella degli Atridi», né «più ricchezze di quelle che si troveranno nella città di Manoa quando sarà scoperta», né un «impero grande come quello che dicono che Carlo quinto si sognasse una notte», né «una donna più salvatica di Penelope», né «onori e buona fortuna» (511). Malambruno desidera semplicemente di essere «felice per un momento di tempo», appena «un momento di tempo». Lapidaria e terribile, come il suo sguardo stralunato, la risposta di Farfarello: «Non posso». Irritato dal rifiuto, Malambruno minaccia il demone e chiede l’intervento di Belzebù in persona, ma neppure costui potrebbe esaudire il desiderio del mago. «Né anche per un momento solo?», domanda Malambruno, non più irato, ma supplichevole, dolorosamente sorpreso dalle parole di Farfarello, che risponde: «Tanto è possibile per un momento, anzi per la metà di un momento, e per la millesima parte; quanto per tutta la vita» (ibidem). Malambruno cambia la sua richiesta: nell’impossibilità di essere felice anche per un solo momento, chiede di essere liberato dall’infelicità. Sarebbe possibile, spiega Farfarello, se egli la smettesse di amarsi «supremamente». «Cotesto lo potrò dopo morto», replica il mago. Dunque anche questa via è sbarrata: «amandoti necessariamente del maggiore amore che tu sei capace, necessariamente desideri il più che puoi la felicità propria; e non potendo mai di gran lunga essere soddisfatto di questo tuo desiderio, che è sommo, resta che tu non possi fuggire per nessun verso di non essere infelice» (512). L’infelicità è qui legata all’amor proprio, all’egoismo, e vengono in mente le riflessioni di Dostoevskij e Baudelaire sulla concentrazione e la dissoluzione dell’io [6]. L’essere umano è cosi condannato, per sua stessa natura, irrimediabilmente (per Leopardi non è possibile annientare l’amor proprio) all’infelicità, «tanto che dalla nascita insino alla morte». Ergo, «il non vivere è sempre meglio del vivere», conclude Malambruno. «Se la privazione dell’infelicità è semplicemente meglio dell’infelicità», gli fa eco Farfarello. «Dunque?», domanda il mago. «Dunque se ti pare di darmi l’anima prima del tempo, io sono qui pronto per portarmela», risponde il demone (ibidem). Dall’iniziale richiesta di felicità di Malambruno si giunge così, attraverso un rapido e incalzante scambio di battute, alla constatazione della verità di Sileno, ovvero che la cosa migliore per un uomo è non nascere e la migliore dopo questa è morire presto [7]. L’infelicità è per l’uomo un destino dal quale solamente la morte può liberarlo.
V. Il grande tema dell’infelicità, che percorre tutte le Operette morali, dalla prima all’ultima, senza interruzioni, viene affrontato apertamente anche nel Dialogo della Natura e di un’Anima, con la prima che dichiara alla seconda: «tutti gli uomini per necessità nascono e vivono infelici» (513). Il destino di infelicità, comune a ogni uomo, si aggrava nell’anima sensibile, capace di percepire con maggiore intensità la vita (potremmo definirla un’anima artistico-filosofica), «la qual cosa importa maggior sentimento dell’infelicità propria; che è come se io dicessi maggiore infelicità» (ibidem). Gli uomini sono infelici tutti allo stesso modo, nel medesimo grado, ma l’anima sensibile percepisce la propria infelicità in modo più vivido, intenso e per questo è ancor più infelice di tutte le altre. Inoltre nelle anime sensibili è sviluppato ancor più che in tutte le altre l’amor proprio, principale fonte di infelicità, come abbiamo visto nell’operetta precedente: la «maggioranza di amor proprio importa maggior desiderio di beatitudine, e però maggiore scontento e affanno di esserne privi, e maggior dolore delle avversità che sopravvengono» (ibidem). Insomma, l’eccessivo amor proprio rende incontentabili e ancor più vulnerabili. La grande anima sarà ricompensata dalla fama, dalle lodi, dagli onori e dalla «durabilità della ricordanza», ma postume. Così, ascoltati i moniti della Natura, l’Anima rinuncia alla propria grandezza e all’immortalità, chiedendo al contrario di essere posta nell’essere più imperfetto, o almeno nel «più stupido e insensato spirito umano» mai creato, e di accelerare il prima possibile la sua morte. Appena concepita e non ancora intrappolata nella forma, ricordando Pirandello [8], l’Anima apprende subito la verità di Sileno: il non essere è meglio dell’essere, pregando la Natura di abbreviare quell’insensata agonia chiamata vita.
NOTE
[1] Giacomo Leopardi, Epistolario, in Id., Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici ed Emanuele Trevi, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 1321.
[2] Giacomo Leopardi, Operette morali, in Id., Tutte le poesie e tutte le prose, cit., p. 581. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[3] «Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno» (Giacomo Leopardi, Zibaldone, edizione integrale diretta da Lucio Felici, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 898).
[4] Per un approfondimento sull’operetta rimando al contributo Storia del genere umano, dalle origini all’imperio della Verità – Parte I, Parte II, Parte III, Parte IV.
[5] «E ‘l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: “Fatti ‘n costà, malvagio uccello!”» (Inferno, Canto XXII, vv. 94-96).
[6] Per un approfondimento su questo tema rimando al contributo Dostoevskij e Baudelaire, vaporizzazione e centralizzazione dell’io.
[7] «L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”» (Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, traduzione di Sossio Giametta, Adelphi, Milano 2018, pp. 31-32).
[8] Riferimento alla novella La trappola. Per un approfondimento sul testo rimando al contributo Luigi Pirandello: siamo tutti in trappola.