Giacomo Leopardi, «Canti»: la tragedia della nascita, la distruzione del mito, la resistenza

I. La tragedia della nascita

La consapevolezza del naturale, necessario dunque incontrovertibile destino di infelicità, di dolore, di distruzione del genere umano – e di ogni altro essere vivente [1] – e del nulla – quel «solido nulla» percepito fisicamente [2] – sta alla base del pensiero, doloroso ma vero, e dell’intera attività filosofico-letteraria di Leopardi. Scopo primario e inderogabile dell’opera leopardiana è rivelare, smascherare lo stato miserevole, caduco e vano dell’uomo, secondo una concezione radicalmente negativa dell’essere (esposta con spaventosa chiarezza in una delle pagine più terribili dello Zibaldone [3]) che conferisce alla nascita il carattere di irrimediabile tragedia e che, nei Canti, raggiunge il culmine d’intensità e di severità nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (nelle Operette morali, da questo punto di vista, il picco è rappresentato dal Cantico del gallo silvestre [4]):

«Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male» (vv. 100-104) [5].

E ancora, nella indimenticabile conclusione del Canto:

«Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero;
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale» (vv. 133-143) [6].

La nascita è una tragedia comune a tutti noi, a tutti gli esseri viventi, destinati naturalmente, necessariamente all’infelicità, al dolore e infine alla distruzione. Fatto il danno, ai genitori non resta che consolare il bambino:

«Così tosto come il bambino è nato, convien che la madre che in quel punto lo mette al mondo, lo consoli, accheti il suo pianto, e gli alleggerisca il peso di quell’esistenza che gli dà. E l’uno de’ principali uffizi de’ buoni genitori nella fanciullezza e nella prima gioventù de’ loro figliuoli, si è quello di consolarli, d’incoraggiarli alla vita; perciocché i dolori e i mali e le passioni riescono in quell’età molto più gravi, che non a quelli che per lunga esperienza, o solamente per esser più lungo tempo vissuti, sono assuefatti a patire. E in verità conviene che il buon padre e la buona madre studiandosi di racconsolare i loro figliuoli, emendino alla meglio, ed alleggeriscano il danno che loro hanno fatto procreandoli. Per Dio! perché dunque nasce l’uomo? e perché genera? per poi racconsolar quelli che ha generati del medesimo essere stati generati?» [7].

L’uomo nasce per essere infelice, per soffrire e infine morire. Non c’è altro, è tutto qui. Semplice. Terribile.

II. La distruzione del mito

Nella poesia di Leopardi, accanto a questa fondante opera di smascheramento dell’umana miseria, vera e propria missione civile oltreché filosofica, si colloca la distruzione di tutti quei miti concepiti nel goffo e ridicolo tentativo di occultare o edulcorare la condizione disperata e disperante del genere umano. Nei Canti Leopardi demolisce il mito della conoscenza, che annienta l’immaginazione, l’unico conforto a nostra disposizione, e si ricordino le strofe di Ad Angelo Mai dedicate a Cristoforo Colombo: «Ahi ahi, ma conosciuto il mondo / non cresce, anzi si scema, e assai più vasto / l’etra sonante e l’alma terra e il mare / al fanciullin, che non al saggio, appare» (vv. 87-90), «e discoprendo, / solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta / il vero appena è giunto, / o caro immaginar; da te s’apparta / nostra mente in eterno; allo stupendo / poter tuo primo ne sottraggon gli anni; / e il conforto perì de’ nostri affanni» (vv. 99-105) [8]; il mito della virtù, nel Bruto minore, dove l’eroe, sconfitto e insanguinato, leva «feroci note» agli «inesorandi / numi», bestemmia la virtù, si uccide «e maligno alle nere ombre sorride» (v. 45) [9]; il mito dell’amore, nell’Ultimo canto di Saffo, dove il permanente stato d’infelicità è aggravato dalla bruttezza dell’eroina: «Arcano è tutto, / fuor che il nostro dolor. Negletta prole / nascemmo al pianto» (vv. 46-48), «vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal» (vv. 61-62) [10]; il mito della bellezza, in Sopra il ritratto di una bella donna: «Tal fosti: or qui sotterra / polve e scheletro sei. Su l’ossa e il fango / immobilmente collocato invano, / muto, mirando dell’etadi il volo, / sta, di memoria solo / e di dolor custode, il simulacro / della scorsa beltà. […] / or fango / ed ossa sei: la vista / vituperosa e trista un sasso asconde» (vv. 1-19) [11]; il mito della politica, soprattutto nella variante liberale e progressista, nella causticamente ironica Palinodia al marchese Gino Capponi, «candido» amico di Toscana, storico e pedagogista di indirizzo liberal-moderato che reagisce alla provocazione letteraria definendo Leopardi, in una lettera a Vieusseux, «maledetto gobbo», Leopardi che ridicolizza la pretesa politica di generare la felicità e il benessere collettivi: «Ma novo e quasi / divin consiglio ritrovàr gli eccelsi / spirti del secol mio: che, non potendo / felice in terra far persona alcuna, / l’uomo obbliando, a ricercar si diero / una comun felicitade; e quella / trovata agevolmente, essi di molti / tristi e miseri tutti, un popol fanno / lieto e felice» (vv. 197-205) [12]; il mito della natura, madre tutt’altro che generosa e benigna, ma «empia», colpevole del nostro permanente e irrimediabile stato di infelicità:

«La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbono esser chiamati nè creduti misantropi, portano però cordialmente a’ loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi» [13].

La distruzione dei singoli miti si colloca all’interno di una generale distruzione del macro-mito della vita, a livello filosofico, e del macro-mito della poesia, a livello letterario: «Constatato il nulla universale, abbandonate le “favole antiche”, perché irrevocabili, la poesia di Leopardi nasce sotto il segno della precarietà, come paradosso, scommessa, tentazione: nasce quando il poeta ha decretato la morte della poesia. Anche in ciò la cifra della sua straordinaria modernità» [14]. Giacomo Leopardi è il primo poeta, scrittore e filosofo italiano autenticamente moderno, ed è proprio la sistematica distruzione del mito, la dimensione di risveglio della sua opera, ricorrendo a Curi, a sancire la sua modernità [15].

III. La resistenza

I Canti, e in generale l’intera attività-filosofico letteraria di Leopardi, si concludono con un messaggio di resistenza: alla pars destruens segue la pars costruens. Mi riferisco naturalmente alla Ginestra, che rappresenta il testamento di Leopardi e si impone come una grandiosa allegoria della resistenza. Il paesaggio desertico e improduttivo, nel senso naturale non industriale del termine, i «campi cosparsi / di ceneri infeconde, e ricoperti / dellimpietrata lava» (vv. 17-19) [16] sono la rappresentazione fisica, materiale, tangibile del destino di infelicità, di dolore e qui soprattutto di distruzione del genere umano:

«A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
ancor estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive» (vv. 37-51) [17].

Compare anche nella Ginestra la polemica politica contro gli spiritualisti, i liberali, i progressisti: l’uomo è «nato a perir, nutrito in pene» (v. 100) ed è per di più «stolto» colui che si dichiara nato per godere, «e di fetido orgoglio / empie le carte, eccelsi fate e nove / felicità» (vv. 102-104) [18]. Nobile è colui «che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato, e che con franca lingua, / nulla al ver detraendo, / confessa il mal che ci fu dato in sorte, / e il basso stato e frale; / quella che grande e forte / mostra se ne soffrir, né gli odii e l’ire / fraterne, ancor più gravi / d’ogni altro danno, accresce / alle miserie sue, l’uomo incolpando / del suo dolor, ma dà la colpa a quella / che veramente è rea, che de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna» (vv. 112-125) [19]. In questi versi Leopardi compendia il senso più profondo della propria attività filosofico-letteraria, ed è proprio da qui che scaturisce il suo programma civile, il messaggio di resistenza, consistente in una «grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura» [20]:

«Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra se confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune» (vv. 126-135) [21].

Leopardi torna indietro, al destino di infelicità, di dolore e di distruzione del genere umano testimoniato dal luogo aspro e arido – «E rimembrando / il tuo stato quaggiù, di cui fa segno / il suol ch’io premo» (vv. 185-187) [22] -, alla critica del mito antropocentrico, dell’uomo come centro e padrone del «Tutto», mito pensando al quale «Non so se il riso o la pietà prevale» (v. 201) [23], alla ferocia della natura, che non ha «seme / dell’uom più stima o cura / ch’alla formica» (vv. 231-233) [24], alla caducità e alla vanità di ogni impresa umana: «Caggiono i regni intanto, / passan genti e linguaggi: ella nol vede: / e l’uom d’eternità s’arroga il vanto» (vv. 294-296) [25], versi in cui riecheggiano il Petrarca dei Trionfi e Tasso, altri due grandi maestri dell’inutilità, il primo soprattutto [26]. È nell’ultima strofa del componimento che si concretizza definitivamente l’allegoria ginestra-resistenza, con il fiore che s’impone quale supremo esempio di coraggio, di consapevolezza – della propria condizione miserevole e caduca -, di saggezza e di salute:

«E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l’avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali» (vv. 297-317) [27].

Noi tutti dobbiamo morire – per fortuna -, ma c’è modo e modo di morire. Meglio morire consapevoli, mantenendo intatta la nostra dignità di «esseri intelligenti», che rappresenta forse l’unico vero imperativo categorico imposto dalla condizione umana, che incoscienti; meglio morire nella verità che nella menzogna. Perché consapevolezza e verità, per quanto dolorose, permettono di stimare la morte per quella che effettivamente è: non una disgrazia senza rimedio, da esorcizzare in ogni modo, più o meno goffo, ridicolo, stupido, ma la liberazione dal male, perché non «v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose».

NOTE

[1] «Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri essere al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi» (Giacomo Leopardi, Zibaldone, 4175, edizione integrale diretta da Lucio Felici, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 898).

[2] «Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla» (Ivi, 85, p. 90). Commenta Luporini: «[…] qui è uno spavento totale, improvviso sembra, e schiacciante, come è espresso dalla fisicità di quel “soffocare”: il soggetto è assediato e stretto dal nulla che appare perciò come cosa solida, e di conseguenza si sente egli stesso “un nulla”. Tutta la sua realtà individuale è racchiusa in quell’articolo indeterminato (un nulla in mezzo al nulla), nel punto in cui essa vien meno» (Cesare Luporini, Assiologia e ontologia nel nichilismo di Leopardi, in AA.VV., Leopardi e il pensiero moderno, a cura di Carlo Ferrucci, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 238-239). Per un approfondimento sul nulla all’interno del pensiero leopardiano rimando al contributo Giacomo Leopardi, il nulla.

[3] «Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondo che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perchè tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti nè di numero nè di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla» (Giacomo Leopardi, Zibaldone, 4174, cit., p. 898).

[4] Per un approfondimento sull’operetta rimando al contributo Giacomo Leopardi, «Cantico del gallo silvestre»: dell’infelicità permanente e della distruzione.

[5] Giacomo Leopardi, Canti, in Id., Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici ed Emanuele Trevi, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 163. Per la lettura integrale e un’analisi approfondita del componimento rimando al contributo Giacomo Leopardi, «Canto notturno» ovvero l’inconveniente di essere nati.

[6] Ivi, p. 164.

[7] Giacomo Leopardi, Zibaldone, 2607, cit., pp. 567-568.

[8] Giacomo Leopardi, Canti, cit., pp. 82-83.

[9] Ivi, p. 95.

[10] Ivi, pp. 111-112.

[11] Ivi, p. 188.

[12] Ivi, pp. 197-198. A questi versi si colleghi il passo tratto dalla lettera a Fanny Targioni Tozzetti del 5 dicembre 1831: «Sapete ch’io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gl’individui sono infelici sotto ogni forma di governo; colpa della natura che ha fatti gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici» (Giacomo Leopardi, Epistolario, in Id., Tutte le poesie e tutte le prose, cit., p. 1406). Il momento culminante della polemica leopardiana contro la politica e l’ideologia liberale è rappresentato senza dubbio dai Paralipomeni. Per un approfondimento sul poemetto rimando al contributo Giacomo Leopardi, «Paralipomeni della Batracomiomachia»: il «libro terribile».

[13] Giacomo Leopardi, Zibaldone, 4428, cit., p. 975.

[14] Lucio Felici, Un canto dal nulla, in Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, cit., p. 48.

[15] Fausto Curi, Struttura del risveglio, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2013. A Leopardi è dedicata una porzione rilevante del capitolo quinto della prima parte del saggio, La ‘funzione Sade’ e la modernità letteraria italiana, pp. 140-151.

[16] Giacomo Leopardi, Canti, cit., pp. 200-201.

[17] Ivi, p. 201.

[18] Ivi, p. 203.

[19] Ibidem.

[20] Giacomo Leopardi, Zibaldone, 4280, cit., p. 934.

[21] Giacomo Leopardi, Canti, cit., p. 203.

[22] Ivi, p. 205.

[23] Ibidem.

[24] Ivi, p. 206.

[25] Ivi, p. 207.

[26] «Passan vostre grandezze e vostre pompe, / passan le signorie, passano i regni: / ogni cosa mortal Tempo interrompe» (Francesco Petrarca, Trionfo del Tempo, vv. 112-114, in Id., Trionfi, a cura di Guido Bezzola, Rizzoli, Milano 1997; per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Trionfalmente Francesco Petrarca). «Muoiono le città, muoiono i regni, / copre i fasti e le pompe arena ed erba; / e l’uom d’esser mortal par che si sdegni; / oh nostra mente cupida e superba!» (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, XV, 20, a cura di Marta Savini, Newton Compton editori, Roma 2015, p. 340; per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Torquato Tasso, «Gerusalemme liberata»: Tancredi e Rinaldo, eroi insufficienti).

[27] Giacomo Leopardi, Canti, cit., pp. 207-208.

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