Fëdor Dostoevskij, «Bobòk» ovvero la «depravazione delle ultime speranze»

Pubblicato nel Diario di uno scrittore – 1873, il racconto Bobòk, ovvero le Memorie di un tale, rappresenta, secondo Michaìl Bachtìn, un tipico esempio di satira menippea, genere letterario nato in epoca ellenistica, che prende il nome dal filosofo cinico Menippo di Gadara e ha in Luciano di Samosata il suo maggiore rappresentante. Caratteristica del genere è l’analisi dei problemi ultimi, fondamentali dell’uomo «in un’atmosfera di gaia, irrispettosa e scettica relatività, all’interno di una visione del mondo che Bachtìn definisce “carnevalesca”» [1], conseguenza del crollo della fede negli antichi dèi.

Il tale autore di queste bizzarre memorie è Ivàn Ivànovič, scrittore fallito, timido e malaticcio, secondo gli altri vicino alla follia, la fronte segnata da due «verruche simmetriche», un vero e proprio «fenomeno» impresso sulla tela da un pittore realista. Ivàn Ivànovič ha scritto un racconto lungo, ma non è stato stampato, ha scritto parecchi feuilletons, tutti rifiutati, cestinati. Dicono che le sue opere siano prive di sale. «Che sale vuoi mai […] di quello attico?», domanda Ivàn Ivànovič, prendendosi gioco dei suoi giudici. Tira avanti traducendo dal francese, scrivendo annunci per i negozianti, panegirici, trattatelli sul genere L’arte piace alle signore, su richiesta dei librai. Vorrebbe raccogliere in un volume i motti di Voltaire, ma sa che neanche questa fatica avrebbe fortuna. Oltre a ciò invia lettere alle redazioni dei giornali, esortando, consigliando, criticando, mostrando la strada, e senza chiedere un rublo: «Alla direzione di un giornale la settimana scorsa ho mandato la quarantesima lettera nello spazio di due anni; soltanto in francobolli ho speso quattro rubli. Ho un cattivo carattere, ecco tutto» [2].

Ivàn Ivànovič è un uomo orgoglioso, altero, autoreferenziale, esasperato ed esasperante, frustrato dai continui fallimenti letterari, possiede cioè tutte le componenti psicologiche e caratteriali tipiche dell’uomo del sottosuolo [3]. In quanto tale, egli, nel suo stato di marginalizzazione sociale, si contraddistingue per un approccio ferocemente critico nei confronti del proprio tempo, di cui vede, e si sforza di mostrare, ma senza che nessuno gli dia ascolto, tutte le contraddizioni e le storture: «Il più savio di tutti, secondo me, è quello che almeno una volta al mese si dà dello stupido da sé; capacità che ora è inaudita! Prima, al massimo, lo stupido almeno una volta all’anno sapeva di essere stupido; mentre adesso mai; non c’è pericolo» (60).

Ivàn Ivànovič si trova in una condizione psicologica delicata, piuttosto precaria, percepisce che gli sta accadendo qualcosa di insolito, che il suo carattere si sta mutando ed egli inizia a vedere e sentire cose strane, non proprio voci, ma suoni bisbigliati come «bobòk, bobòk!». Esce per distrarsi, per allontanare da sé questi suoni bizzarri e inquietanti, e capita a un funerale, peraltro di un suo lontano parente, in casa del quale è sempre stato accolto poco cordialmente. Ivàn Ivànovič si siede su una tomba, riflette sul tema della «meraviglia», perde il filo e infine si assopisce, sdraiato sulla lunga pietra funebre. È in questo momento che inizia a sentire «ogni sorta di cose», «suoni sordi, come di bocche chiuse da cuscini; eppure comprensibili e vicinissimi». Ivàn Ivànovič torna in sé, si siede e si mette in ascolto. Sono i morti a parlare.

Il momento di svolta, all’interno di questo surreale dialogo tra defunti, è rappresentato dall’ingresso in scena del barone Klinevič, che irrompe screditando senza ritegno se stesso, la propria famiglia e i nuovi compagni. Klinevič si smaschera, rivelando tutta la sua depravazione, tutta la sua immoralità, e la depravazione e l’immoralità altrui: definisce se stesso e i componenti della sua famiglia «piccoli baroni tignosi, d’origine servile», si descrive come «un mascalzone della pseudo-alta società», confessa di aver messo in circolazione, con l’ebreo Siefel, cinquantamila rubli in biglietti falsi e poi di aver denunciato il complice, rivela come il consigliere segreto Tarasevič, anch’egli tra i defunti, abbia sottratto ben quattrocentomila rubli allo Stato, somma destinata alle vedove e agli orfani, per assecondare la propria dissolutezza (perfino sottoterra il grand-père Tarasevič trema di libidine semplicemente sentendo pronunciare il nome di una «canaglietta» adolescente, Catiche Berèstova, anch’ella neo-defunta).

Dopo questa dirompente incursione nel dialogo, Klinevič domanda come sia possibile che, nonostante la morte, essi parlino e si muovano, pur senza parlare e senza muoversi. Gli risponde l’untuoso consigliere di corte Lebezjàtnikov, che riporta la teoria di Platòn Nikolàevič, «il nostro filosofo casareccio, naturalista e professore»:

«Lui spiega tutto questo con un fatto semplicissimo, e precisamente dice che lassù, quando eravamo ancora in vita, consideravamo erroneamente la morte di lassù come la morte. Il corpo qui sembra rianimarsi ancora una volta, i resti della vita si concentrano, ma soltanto nella coscienza. È (non so come dirvelo) la vita che continua come per inerzia. Tutto, secondo lui, è concentrato in non so che parte della coscienza, e continua ancora per due o tre mesi… qualche volta perfino per sei mesi. Per esempio, c’è qui un tale che è già quasi tutto decomposto, ma una volta ogni sei settimane, press’a poco, all’improvviso borbotta una parola, naturalmente senza senso, a proposito di non so che bobòk: “Bobòk, bobòk”; ma vuol dire che anche in lui la vita arde ancor sempre come una scintilla impercettibile…» (72-73).

È un residuo di vita, concentrato nella coscienza, ad animare ancora per qualche mese i defunti, un residuo che si esaurisce a poco a poco, fino al conclusivo «bobòk», quel suono senza senso già familiare a Ivàn Ivànovič. Dopo questa spiegazione, Klinevič domanda inoltre come sia possibile che, nonostante privi dell’olfatto, come di ogni altro senso, essi sentano il fetore della putrefazione, propria e altrui. Anche in questo caso Lebezjàtnikov riporta, ma con un certo imbarazzo, la teoria morale di Platòn Nikolàevič:

«Questo… eh-eh… Be’, qui poi il nostro filosofo è diventato molto nebuloso. Proprio a proposito dell’odorato ha osservato che qui si sente un puzzo, per così dire, morale, eh-eh! Come un puzzo dell’anima, che dia tempo, in questi due o tre mesi, di ricredersi… e che è, per così dire, l’ultima misericordia… Soltanto che a me pare, barone, che tutto questo sia ormai un delirio mistico, molto scusabile nel suo stato…» (73).

In questi due, tre mesi supplementari al morto è data la possibilità di «ricredersi», ovvero di redimersi, di risorgere moralmente, almeno secondo il «delirio mistico» di Platòn Nikolàevič, al quale Klinevič si ribella, proponendo al contrario di trascorrere queste ultime settimane prima del «bobòk» nel modo più piacevole possibile, senza vergognarsi più di nulla. Il barone consiglia di spingersi oltre il comune senso del pudore, di superarlo finalmente e di lasciarsi andare, a ruota libera, come del resto egli ha già fatto irrompendo nella conversazione. La proposta di Klinevič raccoglie immediatamente il consenso di numerosissimi defunti: «Ah, mettiamoci, mettiamoci a non vergognarci di niente!», esclamano entusiasticamente molte voci.

«”[…] Ma intanto io voglio che non si dicano falsità. Io non voglio altro che questo, perché è la cosa principale. Sulla terra, vivere e non dire falsità è impossibile, perché vita e falsità sono sinonimi; ma qui, per ridere, non diremo falsità. Che diavolo, la tomba vuol ben dire qualcosa! Ci racconteremo tutti ad alta voce le nostre storie e non avremo più vergogna di nulla. Io racconterò di me per primo. Io, sapete, sono un libidinoso. Tutto questo lassù era legato con delle corde marce. Via le corde, e viviamo questi due mesi nella verità più svergognata! Scopriamo e denudiamoci!”
“Denudiamoci, denudiamoci” gridarono tutti a gran voce.
“Io ho una voglia tremenda, tremenda di denudarmi!” strillava Avdot’ja Ignàt’evna» (74).

In questo delirio di depravazione, un solo defunto esprime dissenso, il generale Pervoedov, contro il quale Klinevič si scaglia con veemenza e ferocia, alimentando l’entusiasmo generale: «Là era generale, ma qui è una carogna!», «Qui marcirete nella bara, e non resteranno di voi che sei bottoni di bronzo», «La vostra spada è buona per ammazzare i topi, e per di più non l’avete mai tirata fuori» (75).

Ivàn Ivànovič starnutisce e tutto tace. «La depravazione in un luogo simile, la depravazione delle ultime speranze, la depravazione di flaccidi cadaveri in putrefazione, che non risparmia nemmeno gli ultimi istanti della coscienza! Questi istanti sono dati, regalati loro, e… Ma soprattutto, soprattutto in un luogo simile! No, questo non posso ammetterlo…» (76), commenta sdegnato il narratore. La depravazione è così radicata nella società da resistere persino alla morte, e non solo resistere, ma trionfare. Invece di sfruttare questi due, tre mesi supplementari per redimersi, per risorgere moralmente, spiritualmente, dopo una vita costellata di vizi, i defunti, sobillati da un personaggio, Klinevič, che ha molto in comune con i due più grandi depravati dostoevskiani, Svidrigàjlov e Stavrògin [4], «ne approfittano […] per abbandonarsi, senza più remore né freni, alle loro inveterate e peggiori tendenze e abitudini» [5]. Questo dimostra quanto la depravazione, vera e propria malattia mortale dal punto di vista morale e psicologico, si radichi in profondità nell’uomo, allontanandolo per sempre da Cristo, l’«ideale dell’uomo incarnato», come lo definisce Dostoevskij stesso nei Pensieri sulla morte e sull’immortalità [6].

NOTE

[1] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 58.

[2] Fëdor Dostoevskij, Bobòk, in Id., Diario di uno scrittore, traduzione di Ettore Lo Gatto, Bompiani, Milano 2010, p. 59. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[3] Per un approfondimento sull’opera di Dostoevskij che formalizza ufficialmente, diciamo così, questo tipo di personaggio rimando al contributo Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parte, Seconda parte. Per un approfondimento invece sulla valenza filosofica del sottosuolo all’interno della Weltanschauung dostoevskiana rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.

[4] Per un approfondimento sul protagonista dei Demòni rimando al contributo Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parte, Seconda parte.

[5] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, cit., p. 58.

[6] Fëdor Dostoevskij, Pensieri sulla morte e sull’immortalità, citato in Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, cit., p. 154.

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