I. La terza e ultima parte dei Viceré è dominata dalla figura di Consalvo Uzeda, il principino. Dal lungo viaggio in Italia e in Europa, il rampollo torna mutato, profondamente. Abbandonati i bagordi, le risse, il gioco, le donne, si dedica allo studio dell’economia politica, del diritto costituzionale, della scienza dell’amministrazione, chiuso nella sua stanza. Il fatto è che Consalvo, nel continente, è costretto a fare i conti con la sua inferiorità, con la sua insignificanza rispetto agli aristocratici di Roma, di Firenze, di Milano, e ciò sviluppa in lui un grande desiderio di rivalsa, alimentando a dismisura la sua ambizione. È forse la prima volta nel romanzo che l’interesse personale di un Uzeda trova una profonda ragione psicologica. Consapevole della propria inferiorità, Consalvo vuole essere il primo tra i primi, e, ben sapendo che il patrimonio degli Uzeda, per quanto ingente, non potrebbe bastare a questo scopo, decide di intraprendere la carriera politica: «Deputato, ministro – Eccellenza! – presidente del Consiglio. Viceré per davvero; che cosa occorreva per ottenere quei posti? Nulla, o ben poco» [1]. Grazie a don Gaspare Consalvo può contare su una vasta clientela bell’e pronta, inoltre egli possiede quell’eloquenza e quella capacità di dominare e orientare la massa del tutto sconosciute al prozio: «Alla cultura, alla competenza, egli non pensava: se aveva potuto fare il deputato un ignorante come suo zio, egli si credeva capace di reggere i destini della nazione. La forza della memoria, la facilità della parola, la sicurezza dinanzi alla folla che erano mancate al duca e lo avevano tormentato per tutta la vita accrescendo la sua miseria intellettuale, Consalvo le possedeva: a San Nicola, dinanzi ai monaci che s’empivano il buzzo di cibo o al cospetto della folla che veniva ad ascoltar le prediche di Natale; più tardi nelle vie della città, nelle taverne, attorniato da gente d’ogni risma, egli aveva fatto sfoggio d’eloquenza: gli sguardi fissi su lui, il silenzio dell’uditorio aspettante non lo avevano mai sgomentato. Che altro occorreva?» (381).
Dai borbonici reazionari, tra i quali ha trascorso l’adolescenza, Consalvo passa ai liberali mangiapreti, il partito in quel momento più conveniente. In lui, a sua insaputa, si mescolano la «nativa spagnolesca albagia della razza ignorante e prepotente, e la necessità d’adattarsi ai tempi democratici» (400). Consalvo rappresenta una sorta di evoluzione del prozio Gaspare, con la sua grande capacità persuasiva e la sua grande erudizione, che alimenta ogni giorno, lasciando a bocca aperta la «massa ignorante della nobiltà paesana». Inoltre il principino ha appreso dal padre, con il quale intanto ha rotto i rapporti, e che lo crede iettatore, l’arte di un colpo al cerchio e uno alla botte, celando o manifestando i propri sentimenti a seconda della convenienza: «Sentiva di dover fare in politica come aveva visto fare a suo padre, in casa, quando si teneva bene con tutti e assecondava le pazzie di tutti quanti, salvo a dare un calcio a chi non poteva più nuocergli. Adesso adoperava anch’egli quel metodo, piaggiando tutti i partiti» (402). Consalvo è cresciuto circondato da esempi negativi, in realtà neppure definibili tali dal punto di vista straniante degli Uzeda:
«Né credeva alla sincerità della fede altrui. Monarchia o repubblica, religione o ateismo, tutto era per lui quistione di tornaconto materiale o morale, immediato o avvenire. Al Noviziato aveva avuto l’esempio della sfrenata licenza dei monaci che avevano fatto voto dinanzi al loro Dio di rinunziare a tutto; in casa, nel mondo, aveva visto che ciascuno tirava a fare il proprio comodo sopra ogni cosa. Non c’era dunque nient’altro fuorché l’interesse individuale; per soddisfare il suo amor proprio egli era disposto a giovarsi di tutto. Del resto, il sentimento ereditario della propria superiorità non gli permetteva di riconoscere il male di questo scettico egoismo: gli Uzeda potevano fare ciò che loro piaceva. Il conte Raimondo aveva distrutto due famiglie; il duca d’Oragua s’era arricchito a spese del pubblico, il principe Giacomo spogliando i propri parenti; le donne avevano fatto stravaganze che confinavano con la pazzia: se egli dunque s’accorgeva talvolta d’essere in fallo, secondo la morale dei più, pensava che in fin dei conti faceva meno male di tutti costoro» (403).
In questo passo fondamentale è racchiuso il senso ultimo e più profondo della dimensione esistenziale rappresentata dagli Uzeda, dunque dell’intero romanzo: «il proprio comodo», «l’interesse individuale», lo «scettico egoismo», è questo e nessun altro il motore di tutti i componenti dell’illustre famiglia, e, più in generale, del loro mondo, di cui Consalvo s’impone come una sorta di sintesi ideale, definitiva, nel suo sfacciato, perché pubblico, doppiogiochismo, che gli permette di adattarsi perfettamente al momento storico, di cui ha compreso, grazie alla sua notevole scaltrezza, tutta – l’apparente, formale più che sostanziale – portata innovativa. Nonostante l’apostasia e l’adesione al partito liberale, Consalvo resta profondamente legato alle proprie origini, dentro di sé non le rinnega, anzi, è proprio a causa della sua atavica, dunque irriducibile, superbia signorile, nella quale affondano le radici delle sue grandiose ambizioni politiche, che egli ammicca alla corrente democratica allora dominante:
«Tranne che nel grande principio aristocratico, nel profondo sentimento di sprezzo verso la ciurmaglia, nella ferma opinione d’esser fatto veramente d’un’altra pasta, nell’ardente bisogno di comandare al gregge umano come avevano comandato i suoi maggiori, egli era disposto a concedere tutto. Non aveva neppure scrupolo di sostenere a parole il contrario di quel che pensava, se era necessario nascondere il proprio pensiero ed esprimerne un altro: Le parole “repubblica” e “rivoluzione” gli facevano passare brividi di paura per la schiena; ma, per secondare la corrente democratica, per farsi perdonare la sua nascita, s’ingraziava il partito estremo» (402-403).
Comandare il «gregge umano» è per Consalvo una necessità quasi fisiologica. In lui scorre il sangue dei Viceré, e pazienza se la conquista del posto di comando che gli compete richiede un pubblico tradimento, una clamorosa conversione alla democrazia, perché quello che conta davvero è invisibile agli altri. Consalvo, di fatto, organizza una grandiosa messinscena, in cui tutto ciò che appare non rappresenta ciò che effettivamente è, in cui la parola pubblica si svuota di significato, mera e vacua rettorica finalizzata al «proprio comodo».
La prima tappa dell’ascesa politica di Consalvo è il consiglio comunale, cui viene eletto come secondo, alle spalle del prozio Gaspare, sempre primo. La seconda tappa è l’assessorato, che non tarda ad arrivare. A ventisei anni, alle spalle già un anno da assessore, Consalvo smette di studiare, «accorgendosi […] che nella scienza principale, quella di gettar polvere agli occhi, era già maestro» (415). Subito dopo egli diviene sindaco della città. Consalvo la mette sottosopra, dando avvio a un poderoso piano di opere pubbliche («polvere agli occhi», ma concretamente ora, non solo a parole): le strade vengono sistemate, vengono costruiti un grande mercato, un grande teatro, un grande macello, una grande caserma e un grande cimitero. Al cugino Giovannino, che gli rimprovera d’indebitare il comune, risponde così: «Mio caro, ho da farmi popolare; mi servo dei mezzi che trovo. Credi tu che questo gregge m’apprezzi per quel che valgo? S’ha da buttargli la polvere agli occhi!» (450). Alla sorella Teresa, che gli rimprovera la mancanza di carattere: «Il carattere, tienlo bene a mente, è ciò che torna conto…». Nonostante la giovane età, Consalvo è un maestro dell’affabulazione, della suggestione, della manipolazione del «gregge», cui cela sapientemente la realtà, creandone di fatto una nuova, del tutto fittizia. Consalvo si sdoppia: fuori si avvicina sempre di più alla corrente democratica, definendo la repubblica «regime ideale», «sogno sublime», mentre dentro la semplice parola «rivoluzione» lo fa rabbrividire, «e il desiderio intimo, sincero, ardente dell’animo suo era che vi fosse un numero di carabinieri doppio di quello dei cittadini» (434). Eppure ha la straordinaria abilità di non tradirsi mai, di marciare a spron battuto verso il suo proposito di comando: il vento soffia in direzione opposta rispetto all’intimo e irriducibile credo aristocratico di Consalvo, ed egli pubblicamente si volta, adattandosi, ma con una naturalezza, con una facilità che hanno quasi del diabolico.
II. Nella terza e ultima parte dei Viceré, accanto alla figura di Consalvo si colloca, per importanza, la figura della sorella Teresa, ennesima vittima dell’egoismo degli Uzeda, costretta a sposare Michele Radalì, mentre ama il fratello Giovannino (questo risvolto porta alle dimissioni dello storico maggiordomo di palazzo Francalanza, Baldassarre, uno dei tanti Uzeda illegittimi, screditato dinanzi alla servitù a causa dell’ennesima, crudele ingiustizia). Naturalmente predisposta al sacrificio, Teresa si contraddistingue per una bontà e una sincera cura dell’armonia generale sconosciute in famiglia. Ella, al contrario di tutti i suoi parenti, non persegue l’interesse individuale, non pone «il proprio comodo sopra ogni cosa», ma anela alla felicità collettiva, alla concordia familiare. Da questo suo impegno, destinato naturalmente al fallimento, scaturisce in lei la consapevolezza della vanità della ricchezza e del potere degli Uzeda. In particolar modo, la malattia del padre, vittima di un tumore asportato più volte inutilmente, le recide le palpebre, rivelandole tutta la miseria, l’insignificanza, l’insensatezza dell’esistenza del principe Giacomo, così avido e così ricco eppure così debole, così fragile, in balia della malattia, e di lei stessa, votata a una serie di sacrifici tanto dolorosi quanto inutili, e del mondo intero:
«Ella pensava: “Quanti dolori! quante miserie!” Che valevano al padre le ricchezze, l’impero ai quali aveva tanto tenuto? Non avrebbe dato tutto per la salute?… Ed era condannato! Quell’operazione era quasi inutile: l’ascesso sarebbe riapparso altrove… E contro quella povera vita ròsa dal male, un giorno, un momento, in cuor suo – non a parole, Signore, col solo pensiero; ma con un pensiero egualmente colpevole – contro quella povera vita ella s’era ribellata… Perché?… Come era stato possibile?… Se egli aveva torti, adesso li pagava, con un supplizio atroce. E se aveva torti, toccava a lei giudicarlo? Egli non aveva posto opera a farla felice: poteva giudicarlo per ciò?… E dov’era la felicità? Sarebbe ella stata felice altrimenti? Chi sa quali altri dolori! Quante miserie!… E sempre il gesto del chirurgo che incideva la viva carne le stava dinanzi agli occhi… Pensava suo padre a queste cose? Riconosceva d’essersi ingannato?… Ella non doveva giudicarlo; ma perché dunque le tornavano a mente tutte le accuse che aveva udito ripeter contro di lui: che era stato duro, falso, violento; che aveva spogliato le sorelle e i fratelli, e falsificato il testamento del monaco [2], e lasciato morire accattando lo zio, e amareggiato la vita e affrettato la morte della moglie, della madre di lei?… Erano vere queste cose? Era egli così tristo?… Se l’invidia, la malignità lo avevano calunniato, quanto più tristo era il mondo? Che tristo e orribile mondo, quello dove l’odio tra padre e figlio poteva allignare!… Egli non voleva veder Consalvo; il sacrifizio di lei era stato dunque inutile! Sarebbe morto senza vederlo, bestemmiando e piangendo… Che mondo di tristezza, che mondo di miseria!… Allora, rapidamente, quasi i cavalli che la trascinavano la trasportassero indietro nel tempo, ella pensò alla badìa, dove, fanciulla, s’era sentita opprimere, come ad un sicuro rifugio, a un porto riparato dalle tempeste. Beata, sì, la zia monaca che passava i suoi giorni, tutti eguali, tra le preghiere e le semplici cure della santa casa, fuor della vista del male, al sicuro dalle tentazioni, dagli errori e dalle colpe. Ella pensava: “Perché ho avuto paura del monastero?… Così vi fossi entrata per sempre!…” L’imaginazione dolente riconosceva adesso che la verità era lì, in quel silenzio, in quella solitudine, in quella rinunzia. “Vi entrerei ora?” chiedeva a se stessa; e rispondeva: “Ora, all’istante!” Che era la vita se non l’aspettazione della morte? Perché avrebbe provato repugnanza per la solitudine, la rinunzia, il silenzio della vita claustrale, se ella sentivasi sola, spaventosamente sola, se aveva rinunziato a tante cose che le erano state a cuore, se le voci del mondo erano tristi e dolorose? “Se io non fossi nata?…”» (456-457).
La morte, suprema forma di smascheramento, come nella Roba [3] e in Mastro-don Gesualdo [4] di Verga rivela tutta l’insensatezza dell’accumulo indefesso di roba, svuotando completamente di significato l’esistenza di colui che a questo scopo ha consacrato la propria vita, in questo caso il principe Giacomo. Veicolo di questa conclusione disperata e disperante, Teresa rappresenta il fronte critico-negativo interno alla famiglia Uzeda. Differente da tutti i suoi familiari, ella vede perfettamente la vanità, l’inutilità dei loro egoistici sforzi, distinguendosi per una coscienza critica che erompe in seguito alla malattia del padre. Nelle sue riflessioni riecheggiano verità negative di stampo leopardiano, che suggellano I Viceré all’insegna di un pessimismo cupo, terribile, senza via di scampo.
III. Oramai spacciato, il principe Giacomo, vittima della superstizione oltreché del tumore, prova a sfuggire alla morte, e garantire la progenie, tentando di convincere quello iettatore di suo figlio Consalvo a sposarsi: «Voleva fare un ultimo tentativo per indurlo a prender moglie; la paura della iettatura cedeva dinanzi alla suprema necessità di assicurare la discendenza. Nella mente superstiziosa, indebolita ancor più dal male, il matrimonio del figlio era d’altronde l’unico mezzo di togliergli quel funesto potere. Ammogliato, stabilito in una casa propria, padrone d’un assegno e della dote della moglie, non avrebbe avuto ragione di augurare corta vita al padre» (458-459). Ma Consalvo rifiuta, per l’ennesima volta, di sposarsi, e il principe lo disereda, nominando erede universale di tutto il suo patrimonio Teresa, «con l’obbligo che faccia precedere il cognome dei suoi figli dal mio casato, chiamandoli Uzeda-Radalì di Francalanza… e così per tutta la discendenza, sino alla fine…» (460). La voce della clamorosa diseredazione si diffonde presto e va a vantaggio di Consalvo, come prova definitiva del suo disinteresse, della sua autentica democraticità.
Il principe Giacomo muore nello stesso istante in cui muore Giovannino Radalì, suicida con una pistolettata, a causa del suo amore impossibile per Teresa. Consalvo interviene immediatamente: lascia il palazzo Francalanza e nasconde il suicidio del cugino, facendolo passare per un incidente, innanzitutto per proteggere la sorella da chissà quali spietate dicerie. E l’azione, proprio nel momento della morte del padre, che lo stava colmando di dubbi, d’incertezze in merito al suo destino, alla sua salute mentale, da sempre piuttosto fragile negli Uzeda, ha un effetto benefico su Consalvo: «Quel “signor principe” che il magistrato gli dava prima d’ogni altro gli rammentava che una nuova èra s’apriva per lui. La fermezza di cui aveva dato prova, la prontezza con cui aveva visto quel che doveva fare lo rassicuravano: egli non aveva paura di cadere nelle pazzie degli Uzeda; dei suoi aveva soltanto la ricchezza e la potenza» (466).
Teresa rivede le ultime volontà del padre: divide a metà con il fratello il patrimonio destinato a lei sola e cede a Consalvo anche il palazzo Francalanza, assegnato da Giacomo alla consorte Graziella. Quest’opera di giustizia accresce a dismisura la stima generale nei confronti di Teresa, che dimostra ancora una volta, l’ennesima, di essere immune all’egoismo, la malattia mortale degli Uzeda.
IV. Consalvo dà le dimissioni da sindaco, consapevole che il gravissimo deficit causato dalla sua politica d’investimenti rappresenterebbe un durissimo colpo alla sua ascesa, e si colloca politicamente tra i progressisti e i liberali, il posto più vantaggioso in quel momento. Inizia a girare per le campagne, stringendo mani ruvide e callose, professandosi socialista e via dicendo, facendo buon viso a cattivo gioco insomma, perché egli, come abbiamo già visto, nonostante l’apparenza, nonostante le dichiarazioni pubbliche, resta un aristocratico fino al midollo, ostile alla libertà e all’eguaglianza, che pure professa con ardore: «La quistione, dicevano alcuni, era che questi posti eminenti, queste situazioni privilegiate non dovevano più esistere: ma allora Consalvo sorrideva di pietà. Quasiché, ammessa pure la possibilità d’abolire con un tratto di penna tutte le disuguaglianze sociali, esse non si sarebbero di nuovo formate il domani, essendo gli uomini naturalmente diversi, e il furbo dovendo sempre, in ogni tempo, sotto qualunque regime, mettere in mezzo il semplice, e l’audace prevenire il timido, e il forte soggiogare il debole!» (482). Qualunque ambizione di cambiamento, nella pessimistica prospettiva dei Viceré, si rivela una mera velleità, un esercizio ideologico fine a se stesso: è la stessa natura degli uomini a stabilire differenze e gerarchie, a imporle, «sotto qualunque regime». Può cambiare la forma, ma non la sostanza delle cose: l’uomo fu, è e resterà un lupo per gli altri uomini, non c’è mutamento politico che tenga. Di questa naturale cristallizzazione del genere umano Consalvo rappresenta l’esempio ideale: socialista nella forma, solo ed esclusivamente per convenienza politica, nella sostanza resta un signore superbo, elitario, che vede nell’umanità nient’altro che un «gregge» da comandare, di cui servirsi per il proprio tornaconto personale. Secondo una visione pessimistica che ritroviamo già in Foscolo, nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, e in Manzoni, nell’Adelchi, Consalvo Uzeda è la politica [5].
Consalvo non si accontenta di riuscire: «voleva stravincere, essere il primo degli eletti, assicurarsi stabilmente il collegio con una votazione unanime, plebiscitaria» (483). Teresa va in tutt’altra direzione, verso una dimensione esistenziale cenobitica, rinunciando completamente, dopo i lutti, alle occupazioni e ai piaceri mondani. In realtà la donna si lascia soggiogare dalla Chiesa, trasformando la sua casa in una sacrestia, appoggiando le idee politiche della curia, affidando l’educazione dei figli a un gesuita. Insomma, Teresa perde la forza critica di cui ha dato prova durante la malattia del padre. In ogni caso, fratello e sorella si trovano agli antipodi, ateo l’uno, cattolicissima l’altra. Anche in Teresa, un tempo «graziosa, gentile, poetica, pietosa ma non bigotta, credente ma non accecata», Consalvo, da parte sua, trova quella pazzia tipica degli Uzeda, sotto forma di un «misticismo isterico», ed egli solo si ritiene «savio, forte, prudente, immune dal vizio ereditario, padrone e giudice di se stesso e degli altri» (487). La gelida razionalità distingue effettivamente Consalvo da tutti i suoi familiari, di cui, anche in questo senso, rappresenta una evoluzione, l’evoluzione ultima, definitiva, più estrema. Egli conosce i limiti e li rispetta, sacrificando tutto alla propria ambizione di successo, o meglio, di trionfo, istinti e formalità.
V. Chiusa la sessione, Consalvo si getta a capofitto nella lotta, stringendo alleanze con i candidati più forti, tradendoli, facendo della sua casa una piazza, un mercato, aprendo l’antico tempio dell’aristocrazia siciliana a «individui di tutte le classi, bottegai, scrivani, uscieri, trattori, barbieri, gente più umile ancora, servi, guatteri, tutte le infime persone che per aver messo una firma dinanzi al notaro tenevano nelle loro mani una frazione della sovranità» (ibidem). È tutta una gigantesca messinscena, perché Consalvo non riesce proprio ad assuefarsi all’«ideale democratico contro il quale protestavano la sua educazione e il suo stesso sangue» (490). Per quanto nascosta sotto uno spesso strato di apparenze, di formalità, di dichiarazioni pubbliche, la sua «superbia signorile» è più viva che mai.
Sono passati ventotto anni dalla morte di donna Teresa e i tempi sono cambiati, radicalmente, come mostra l’evoluzione sociale di Baldassarre, da maggiordomo di casa Francalanza a uomo libero, presidente di una società operaia di mutuo soccorso e non più servo, ma luogotenente del principe Consalvo. Se all’inizio del romanzo Baldassarre si affanna nell’organizzazione dell’aristocratico cerimoniale funerario della vecchia principessa, in conclusione del romanzo si affanna negli ultimi preparativi del grandioso comizio elettorale di Consalvo, organizzato nell’ex monastero di San Nicola, cui assiste una folla sterminata, in cui si mescolano la migliore società e il popolo. Dopo aver esposto brevemente il proprio programma elettorale, compendiato in tre semplici parole: libertà, progresso, democrazia, Consalvo l’apostata rinnega pubblicamente le proprie origini: è la fine, almeno a livello formale, di un’era:
«Cittadini! Io non voglio turbare la solennità di questa adunanza portando dinanzi a voi le piccole gare in cui si affannano le anime piccole; ma poi sapete che un0’accusa mi fu lanciata; voi sapete che mi dissero… aristocratico… […] Quest’accusa è fondata sui miei natali. Io non sono responsabile della mia nascita… (No! no!) né voi della vostra, né alcuno della propria, visto e considerato che quando veniamo al mondo non ci chiedono il nostro parere… (Ilarità fragorosa.) Io sono responsabile della mia vita; e la mia vita è stata tutta spesa in un’opera di redenzione: redenzione dai pregiudizi sociali e politici, redenzione morale e intellettuale; e nulla è valso ad arrestar quest’opera; né le facili seduzioni, né le derisioni ironiche, né i sospetti ingiuriosi; né, più gravi al mio cuore, le opposizioni incontrate nello stesso focolare domestico… (Bene! Bravo! Applausi.) Voi vedete che io non posso più rinunziare a questa fede; essa mi è tanto più cara e preziosa, quanto più mi costa… (Scoppio di battimani fragorosi e prolungati. Grida di: Viva Francalanza!… Viva la democrazia!… Viva la libertà… L’oratore è costretto a tacere per qualche minuto.)» (496)
Il discorso di Consalvo dura due ore, alla fine delle quali egli è sfiancato, esausto, distrutto: «da due ore faceva ridere il pubblico come un brillante, lo commoveva come un attor tragico, si sgolava come un ciarlatano per vendere la sua pomata» (501). Il mutamento storico in atto cambia la condizione dell’aristocrazia, minandone la sicurezza e i privilegi. Consalvo lo comprende e si adatta alla nuova situazione, redimendosi pubblicamente, accogliendo il popolo tra le proprie braccia, nella propria casa, restando in realtà, dentro di sé signorilmente superbo. Egli mostra una capacità di adattamento ignota a tutti gli Uzeda che lo hanno preceduto, perché nessuno di questi ha dovuto fare i conti con un momento storico così complesso. A livello morale il contegno di Consalvo è quanto di più abietto e disgustoso, ma egli è al di là del bene e del male, come tutti gli Uzeda. Gli Uzeda non conoscono morale, non distinguono tra bene e male, tra giustizia e ingiustizia, si orientano esclusivamente in base all’interesse personale, che muove tutte le loro azioni, tutti i loro gesti e le loro parole. Privi di scrupoli, assecondano il proprio egoismo, la sola forza che li anima e li orienta. Le elezioni, naturalmente, sono per Consalvo un trionfo, quel trionfo desiderato con tutto se stesso: viene eletto al primo posto con 6043 voti.
VI. I Viceré si conclude con la visita di Consalvo alla prozia Ferdinanda, la «zitellona», ed è una conclusione straordinaria, degna di un romanzo straordinario, purtroppo sminuito dalla veste naturalistica (l’approfondimento psicologico lo avrebbe reso un capolavoro della letteratura universale, d’ogni tempo e luogo). Indignata con il nipote per la sua pubblica apostasia, donna Ferdinanda giudica con disprezzo i tempi «obbrobriosi» e la razza «degenere» incarnata da Consalvo, che si giustifica, spiegando le proprie ragioni:
«Forse Vostra Eccellenza l’ha anche con me… Se ho fatto qualcosa che le è dispiaciuta, gliene chiedo perdono… Ma la mia coscienza non mi rimprovera nulla… Vostra Eccellenza non può dolersi che uno del suo nome sia di nuovo tra i primi del paese… Forse le duole il mezzo col quale questo risultato s’è raggiunto… Creda che duole a me prima che a lei… Ma noi non scegliamo il tempo nel quale veniamo al mondo; lo troviamo com’è, e com’è dobbiamo accettarlo. Del resto, se è vero che oggi non si sta molto bene, forse che prima si stava d’incanto?
[…] Vostra Eccellenza giudica obbrobriosa l’età nostra, né io le dirò che tutto vada per il meglio; ma è certo che il passato per molte volte bello solo perché è passato… L’importante è non lasciarsi sopraffare… Io mi rammento che nel Sessantuno, quando lo zio duca fu eletto la prima volta deputato, mio padre mi disse: “Vedi? Quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento.” Vostra Eccellenza sa che io non andai molto d’accordo con la felice memoria; ma egli disse allora una cosa che m’è parsa e mi pare molto giusta… Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo… La differenze è più di nome che di fatto… Certo, dipendere dalla canaglia non è piacevole; ma neppure molti di quei sovrani erano stinchi di santo. E un uomo solo che tiene nelle proprie mani le redini del mondo e si considera investito d’un potere divino e d’ogni suo capriccio fa legge è più difficile da guadagnare e da serbar propizio che non il gregge umano, numeroso ma per natura servile… E poi, e poi il mutamento è più apparente che reale. Anche i Viceré d’un tempo dovevano propiziarsi la folla; se no, erano ambasciatori che andavano a reclamare a Madrid, che ne ottenevano dalla Corte il richiamo… o anche la testa!… Le avranno forse detto che un’elezione adesso costa quattrini; ma si rammenti quel che dice il Mugnòs del Viceré Lopez Ximenes, che dovette offrire trentamila scudi al Re Ferdinando per restare al proprio posto… e ci rimise i quattrini! In verità, aveva ragione Salomone quando diceva che non c’è niente di nuovo sotto il sole! Tutti si lagnano della corruzione presente e negano fiducia al sistema elettorale, perché i voti si comprano. Ma Vostra Eccellenza che cosa narra Svetonio, celebre scrittore dell’antichità? Narra che Augusto, nei giorni dei comizi, distribuiva mille sesterzi a testa alle tribù di cui faceva parte, perché non prendessero nulla dai candidati!…» (506-507).
Al contrario di quanto giudica donna Ferdinanda, ultimo e agonizzante baluardo dell’antica nobiltà, follemente orgogliosa della propria purezza, la razza degli Uzeda non è degenerata, si è semplicemente adattata ed evoluta. La differenza, poi, «è più di nome che di fatto», il cambiamento «più apparente che reale», esclusivamente formale, non sostanziale. Inoltre dipendere dal popolo, dalla «canaglia», dal «gregge», seppur sgradevole, è più semplice che dipendere da un sovrano esaltato, convinto della trascendenza del proprio potere e della giustizia di ogni suo singolo capriccio, perché «numeroso ma per natura servile». È come se, in conclusione del romanzo, attraverso il colloquio con donna Ferdinanda, Consalvo rendesse conto, spiegasse le proprie ragioni dinanzi ad un consiglio ideale formato dagli Uzeda più illustri, indignati dalla sua conversione democratica. In particolar modo, Consalvo insiste sulla necessità dell’adattamento, tutto il suo discorso è un’esaltazione della propria capacità di adattarsi all’attuale situazione storica: «Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gl’interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile l’ha travolta… Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? Il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!…» (508).
Al cospetto di donna Ferdinanda, fino a pochi minuti prima infuriata con il nipote, ora invece soggiogata e divertita dalla sua spiegazione, di cui comprende perfettamente il senso e l’esattezza, Consalvo «improvvisava un altro discorso, il vero, la confutazione di quello tenuto dinanzi alla canaglia». Alla fine dei Viceré Consalvo si smaschera, mostra il suo vero volto, concludendo il romanzo con queste parole: «No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa» (509). Come scrive De Meijer, è come se I promessi sposi terminassero con un commento di don Rodrigo [6], tale è la portata moralmente negativa del personaggio di Consalvo Uzeda, traghettatore della tradizione familiare da una fase storica all’altra, dai Borboni ai Savoia, dal Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia. Egli è davvero l’uomo nuovo, l’uomo moderno, capace di adattarsi come nessun altro, come nessun altro capace di mascherare la propria superbia signorile, sacrificandola pubblicamente pur di ottenere il potere. Consalvo Uzeda, pastore di lupi.
VII. De Roberto nei Viceré rappresenta un mondo cupo, desolante, disperante, in cui gli uomini si distinguono esclusivamente tra schiavi e tiranni, in cui non esiste altra possibilità che fare o subire il male. Il punto di vista fortemente straniante degli Uzeda non ammette ulteriori distinzioni, né ulteriori possibilità. Eccezion fatta per il personaggio di Teresa, che tuttavia alla fine naufraga in un «misticismo isterico», vanificando così la sua carica positiva, essi non conoscono affetto, amore, compassione, non conoscono morale, ma solo ed esclusivamente il proprio «interesse individuale», perseguono «il proprio comodo sopra ogni cosa». Ogni singolo Uzeda è la massima autorità di se stesso, il Dio di se stesso, il primo e l’ultimo: après moi le déluge.
I Viceré si impone così come uno dei romanzi più neri dell’intera storia della letteratura italiana, così spaventosamente privo anche solo di un barlume di speranza, dunque come uno dei più fedeli alla realtà, dei più realistici. Perché il mondo è sempre stato, è e sarà dei Consalvo Uzeda, non dei Renzo e delle Lucia. Lo insegna la Storia.
NOTE
[1] Federico De Roberto, I Viceré, a cura di Sergio Campailla, Newton Compton editori, Roma 2014, p. 380. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[2] Don Blasco, coerente con se stesso, con la sua natura nichilistica, che non prevede l’esistenza di un domani, ma solo quella di un presente da godere senza scrupoli, non lascia un testamento, e così Giacomo, per accaparrarsi il patrimonio dello zio, ne commissiona uno falso a proprio vantaggio, dando il via a una violenta lite che, dall’ambito familiare, si estende a quello giudiziario.
[3] Per un approfondimento sulla novella rimando al contributo Giovanni Verga, «La roba»: l’insensatezza dell’accumulo.
[4] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Giovanni Verga, «Mastro-don Gesualdo»: ascesa e rovina del self-made man.
[5] Per un approfondimento sul tema, sul carattere immanente della negatività della politica, rimando al contributo Da Foscolo a Tolstoj, considerazioni sulla politica e la storia.
[6] Pieter De Meijer, La prosa narrativa moderna, in Pieter De Meijer, Achille Tartaro, Alberto Asor Rosa, La narrativa italiana dalle origini ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1997.