«Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!»
I. Pubblicato nel 1894, I Viceré è il capolavoro di Federico De Roberto, a dispetto della scarsa notorietà uno dei vertici massimi dell’intera narrativa italiana. Frutto di una vocazione critica negativa, disperatamente pessimistica, di ascendenza leopardiana, il romanzo si configura come una grandiosa operazione di svelamento, di denuncia applicata a un’illustre famiglia aristocratica di origine spagnola, gli Uzeda. De Roberto squarcia, con scientifica spietatezza, il velo di apparenza che protegge e ammanta di splendore la nobile schiatta, rivelando la trama di malvagità, di crudeltà che, ancor più dei legami di sangue, muove, aziona e lega i componenti della famiglia Uzeda, tutti, incapaci di provare sentimenti positivi (affetto, amore, solidarietà, pietà), e dominati al contrario, esclusivamente, da sentimenti negativi, tra i quali spicca, su tutti, uno «scettico egoismo». Ogni singolo componente dell’illustre casata pone il «proprio comodo», «l’interesse individuale» davanti a tutto, dichiarando guerra a chiunque osi frapporsi tra sé e quell’atavica brama di potere che sola, nell’universo dei Viceré, «move il sole e l’altre stelle».
II. Il romanzo si apre con la morte della principessa di Francalanza Teresa Uzeda e il suo sfarzoso funerale, estrema, suprema prova di ricchezza e di potenza. Nonostante il grave lutto, tra i componenti della famiglia, salvo rare eccezioni femminili, non c’è commozione, non c’è cordoglio, ma una curiosità smisurata relativa al testamento della defunta. In questo senso, si diffonde con insistenza la voce che la capostipite, nelle sue ultime volontà, abbia favorito clamorosamente, scandalosamente Raimondo, il quartogenito, diseredando Giacomo, l’erede naturale, il primo maschio venuto al mondo dopo la nascita della sfortunatissima Angiolina. In attesa della lettura del testamento, gli sguardi dei familiari e dei conoscenti riuniti nel palazzo Francalanza si concentrano tutti sui due contendenti, il cui contegno è opposto: mentre Raimondo ostenta noncuranza, quasi non lo avesse colpito nessun lutto, Giacomo, superstizioso fino alla stupidità (seppur nobili di antichissima data e ricchissimi, gli Uzeda si contraddistinguono per un’ignoranza da contadini), appare più grave del solito:
«E tutti gli sguardi si volgevano naturalmente a Giacomo ed a Raimondo. Questi chiacchierava ancora con donna Isabella, e pareva che il testamento materno fosse l’ultimo dei suoi pensieri, anzi che egli ignorasse perfino la morte della madre; il principe invece aveva un aspetto più grave del consueto, quale conveniva alla tristezza di quei giorni; egli riceveva con espressioni di gratitudine le reiterate condoglianze delle persone che si congedavano. Alcune di queste però non riuscivano a trovarlo, andavano via senza poterlo salutare; e i familiari si guardavano con la coda dell’occhio, comprendendo. Egli aveva una folle paura della iettatura, attribuiva a una gran quantità d’individui il funesto potere; stava sulle spine in loro presenza, evitava di salutarli, con le mani in tasca» [1].
Il pettegolezzo si rivela vero in parte: donna Teresa nomina eredi universali Giacomo e Raimondo. Per il principe Giacomo dover dividere il patrimonio con un coerede è comunque un’umiliazione, acuita dall’infimo rango della famiglia della consorte di Raimondo, donna Matilde, schiacciata da sguardi «irosi», isolata, emarginata dagli Uzeda: dopo la lettura del testamento, ogni volta che Baldassarre, il maggiordomo di palazzo Francalanza, si avvicina a lei per servirla, qualcuno gli fa cenno di servire un altro ospite. Da questo momento in poi la vita di Matilde Palmi si trasforma in un inferno, in una lenta e inesorabile agonia, rappresentando il principale fronte drammatico dei Viceré.
III. Donna Teresa, con la sua dote ingente e la sua amministrazione lungimirante, ha salvato gli Uzeda, in condizioni economiche disastrose, quasi disperate, ma esercitando in famiglia un «potere tirannico» al quale si sono dovuti piegare tutti i sette figli.
III. I. Lodovico, terzogenito, secondo tra i maschi, è costretto dalla madre a farsi monaco (in realtà, per ragione e tradizione, sarebbe spettato al terzo maschio, Raimondo, di entrare in convento). Donna Teresa educa Lodovico alla vocazione sin dall’infanzia, adottando una sottilissima strategia psicologica, facendogli credere che la famiglia navighi nella miseria più nera. Del gioco cui è stato vittima Lodovico si accorge troppo tardi, ed egli, nonostante lo sdegno e l’odio, si mostra riverente e sommesso con la madre, come se niente fosse, e affettuoso con il fratello Raimondo, suo usurpatore. Lodovico intende prendersi la sua rivincita scalando le gerarchie dei Benedettini: «Ai Benedettini, infatti, c’era un regno da conquistare: l’Abate era una potenza, aveva non so quanti titoli feudali, un patrimonio favoloso da amministrare: le antiche Costituzioni di Sicilia gli davano il diritto di sedere tra i Pari del Regno!» (64). Così, Lodovico, «appartato, quasi sempre chiuso in biblioteca, si guadagnava simpatie con l’umiltà del contegno, con l’obbedienza prestata ai maggiori ed anche agli eguali, con la stretta osservanza della Regola, con la fama di dottrina in brev’ora acquistata» (65). A soli ventisette anni viene eletto Decano, carica raggiunta a quaranta dallo zio don Blasco, con il quale entra in competizione per la carica di Priore. Don Blasco del monaco ha solamente l’abito: ha seminato figli in tutto il quartiere, mantiene tre o quattro «ganze», è ignorante, prepotente, bestemmiatore cronico, e quando viene a sapere che il nipote gli contende l’illustre carica di Priore, non sa fare altro che insultarlo: «Ciò che gli uscì di bocca contro Lodovico fu cosa da attirare i fulmini sulla cupola di San Nicola e da incenerire il convento con tutti i suoi abitanti» (ibidem). Don Blasco è una sorta di Fëdor Pàvlovič Karamazov travestito da monaco [2], e naturalmente la carica di Priore va all’integerrimo nipote, quel «gesuita porco», come lo definisce furioso lo zio. Sia in Lodovico che in don Blasco non c’è il benché minimo interesse per la spiritualità, tutte le loro attenzioni si concentrano sul potere, l’egoismo è il loro dio, ma nello zio la natura bestiale finisce per prevalere sull’interesse, schiacciandolo, costringendolo a restare in basso. Nell’universo dei Viceré il cielo è vuoto: Dio non c’è, e non perché sia morto, quanto, piuttosto, perché qui non sembra essere mai nato, nonostante le chiese e i monasteri.
III. II. La vita di donna Teresa è costellata d’ingiustizie nei confronti dei figli, e lo stesso destino di monacazione forzata riservato a Lodovico, spetta ad Angiolina, la primogenita, colpevole, imperdonabilmente, di essere nata femmina:
«Angiolina, la maggiore, era stata condannata alla vita claustrale fin dalla nascita, per una colpa imperdonabile commessa nel venire al mondo. Dopo un anno di matrimonio, donna Teresa era vicina a partorire: aspettava un maschio, il primogenito, il principino di Mirabella, il futuro principe di Francalanza: ella non solo l’aspettava, ma non ammetteva che non venisse. Nacque invece una femmina: la madre non le perdonò più. Fin da quando la tolse dalle fasce la vestì da monachella: la bambina non parlava ancora che fu portata ogni giorno alla badìa di San Placido: a sei anni fu chiusa lì dentro “per educazione”, a sedici la mite e semplice creatura, ignara del mondo, soggiogata dalla volontà materna e dagli stessi impenetrabili muri del monastero, si sentì realmente chiamata a Dio: in tal modo morì Angiolina Uzeda e restò Suor Maria Crocifissa» (66-67).
Tra i sette fratelli Uzeda, il personaggio di Angiolina è il più debole, perché evanescente, sfumato fino alla dissolvenza, e resta poco più di un’ombra. Del resto, rinchiusa in monastero dall’età di sei anni, resta una sorta di aborto, privata di tutte le possibilità offerte dalla vita umana, e la sua non-esistenza non è altro che un cammino lento e inesorabile verso la demenza.
III. III. Con Chiara, la quintogenita, donna Teresa adotta una strategia diversa – la principessa, salvo se stessa, nutre un profondo disprezzo nei confronti del genere femminile, perché le donne «non sapevano far altro che mangiare a ufo e portar via parte della roba di casa, se andavano a marito» -, lasciandola in casa «per esercitare ella stessa sulla ragazza una vigilanza e un’autorità più severa e più forte di quella che la Badessa esercita in una badìa» (67). Donna Teresa ordina alla figlia di sposare il marchese di Villardita, così innamorato della fanciulla, tutt’altro che bella, da accettare di sposarla senza ricevere dote, ma lei si rifiuta, ostinatamente, perché il marchese è troppo grasso per i suoi gusti. La madre la punisce:
«La principessa dapprima le aveva tolto la parola, poi l’aveva strapazzata come una serva, poi l’aveva chiusa a chiave in un camerino buio, senza vesti, con poco cibo; poi l’aveva cominciata a picchiare con le mani nocchiute che facevano male, giurando di lasciarla morir etica, se non si piegava. E al marchese il quale, preso dagli scrupoli, veniva a restituirle la sua parola: “Nossignore,” diceva: “ha da sposarti, perché così voglio. Se lei è degli Uzeda, io sono dei Risà! E vedrai che cangerà!…” Ella sapeva com’eran fatti, tutti quegli Uzeda: quando s’incaponivano in un’idea, neanche a spaccargli la testa li potevan rimuovere; erano dei Viceré, la loro volontà doveva far legge! Ma da un giorno all’altro, quando uno meno se l’aspettava, senza perché, cangiavano di botto; dove prima dicevano bianco, affermavano poi nero; mentre prima volevano ammazzare una persona, questa diventava poi il loro migliore amico…» (68).
Donna Teresa costringe Chiara a sposare il marchese, puntandole affianco, sull’altare, «due campieri […], due facce brigantesche scovate apposta dalla madre per incuterle spavento». Eppure, il giorno successivo alle nozze armate, la famiglia trova gli sposi abbracciati che si tengono per mano. Perché gli Uzeda sono così, testardi e al tempo stesso volubili come banderuole – «pazzi», in una sola parola, pronunciata innumerevoli volte dai personaggi, affibbiata ora ad uno, ora ad un altro componente della famiglia.
III. IV. Il più originale dei fratelli Uzeda è senza dubbio Ferdinando, l’ultimo maschio, soprannominato «Babbeo» dalla madre, per la sua selvatichezza e le sue manie agricole, che coltiva personalmente, come un contadino qualunque, alla Pietra dell’Ovo, dove si è rintanato, isolato da tutto e da tutti, auto-escluso:
«Da bambino era stato così, Ferdinando: taciturno, timido, mezzo selvaggio per la mala grazia con cui lo aveva trattato sua madre, costretto a svagarsi da solo, come meglio poteva, poiché non gli toccava il regalo del più povero balocco. Era cresciuto quasi da sé, ingegnandosi a procacciarsi quel che gli bisognava, a cavarsi d’impiccio. Quando gli altri andavano a spasso, egli restava in casa, a sfasciar scatole di legno o di cartone per farne teatrini o altarini o casucce che regalava poi a chi glieli chiedeva, a Lucrezia specialmente, per la quale, come per una compagna di destino, sentiva molta affezione; e se talvolta lo cercavano perché c’eran visite, perché qualche parente voleva vederlo, egli scappava, si rintanava in certi pertugi dove nessuno riusciva a trovarlo, o si rifugiava nella bottega dell’orologiaio, suo grande amico, dal quale facevasi insegnar l’arte. Un giorno, per San Ferdinando, don Cono Canalà gli regalò il Robinson Crusoe; egli lo divorò da cima a fondo e restò sbalordito dalla lettura come da una rivelazione. Da quel momento la sua selvatichezza s’accrebbe; il suo unico e costante desiderio fu quello di naufragare in un’isola deserta e di provveder da sé al proprio sostentamento. Cominciò allora a fare esperimenti di coltura nel giardino e nella terrazza del palazzo, e gli venne il gusto della campagna, che la principessa assecondò. Gli aveva messo il soprannome di Babbeo per quelle sue sciocche manìe; ma comprendendo che favorivano i propri piani gli abbandonò, alla Pietra dell’Ovo, prima la brulla chiusa delle ginestre e dei fichi d’India, poi col tempo, maturando il suo piano di spogliazione a favore del primogenito e di Raimondo, tutto il podere, stipulando però un contratto in piena regola, col quale il figliuolo obbligavasi di pagarle cinquecent’onze l’anno sui frutti del fondo, restando a lui tutto il di più» (72).
Ferdinando non conduce una vita da Uzeda, da Viceré: spende pochissimo per sé, giusto il denaro necessario all’acquisto di uno strumento o di un libro, mangia frugalmente i prodotti dell’orto, della caccia, e le rare volte che compare a palazzo scandalizza persino i servi, tanto è stracciato, unto, goffo nei suoi panni vecchi di anni e anni. Donna Teresa approfitta dell’ingenuità del «Babbeo» stipulando con lui un contratto capestro, stabilendo un canone superiore al frutto del podere. Infatti Ferdinando si trova presto in passivo, ma la madre nel testamento gli condona il debito, assegnandogli inoltre un altro podere, quello delle Ghiande: il «colpo maestro» di donna Teresa, che si libera così di un altro erede in favore di Raimondo. Nella sua ingenuità il «Babbeo» è soddisfattissimo.
III. V. Come Chiara e Ferdinando, neanche Lucrezia, l’ultima nata, ricorda una carezza della madre. Oltreché d’essere donna, la più piccola dei fratelli Uzeda ha la colpa di essere venuta al mondo quando donna Teresa non aspettava più altri figli: «Sotto la sferza di donna Teresa, trattata con particolare durezza per esser nata quando costei non aspettava più altri figli, considerata come un’intrusa venuta a rubare parte della roba già destinata ai due maschi, Lucrezia era cresciuta come “una marmotta” […]: tarda, taciturna, selvatica come Ferdinando, e sempre così distratta che le sue risposte erano oggetto di risa per tutti […]» (76). L’obiettivo della madre è «lasciarla zitellona in casa», e a questo scopo donna Teresa dimostra quotidianamente a Lucrezia che il matrimonio non è fatto per lei: innanzitutto a causa della sua cattiva salute, mentre la ragazza sta benissimo, è sana come un pesce, poi perché, senza il becco d’un quattrino, non potrebbe trovare un partito conveniente, infine perché è brutta, tra questi motivi l’unico reale: «Quando la vedeva allo specchio, o le rare volte che la ragazza assisteva alle visite che venivano per la madre, costei esclamava: “Ma come sei brutta, figlia mia!… Che disgrazia avere una figlia così brutta, è vero?”» (ibidem). Donna Teresa, durante la sua vita e oltre, con il testamento e le ultime volontà, è stata molto più che una madre per i suoi figli, è stata un destino, spietato, implacabile, incontrovertibile.
Così cresce Lucrezia, «costantemente mortificata e umiliata, segregata dal mondo più che nella badìa, invisa ai fratelli maggiori ed agli stessi zii, tiranneggiata un poco anche da Chiara che per avere cinque anni più di lei faceva la grande; unicamente voluta bene e protetta da Ferdinando, col carattere del quale s’accordava molto il suo» (77). Ma la ragazza, nonostante la ferrea volontà materna, s’innamora di Benedetto Giulente, membro di una famiglia appartenente a una «casta equivoca», non borghesia, ma neppure nobiltà vera e propria. Per di più Benedetto è un liberale e studia da avvocato. L’amore di Lucrezia suscita naturalmente l’ira dei familiari, e soprattutto di don Blasco, che ronza attorno ai cinque nipoti diseredati incitandoli alla lotta contro i due eredi, ma senza cavarne un ragno dal buco.
III. VI. Alla nascita di Giacomo, che peraltro ha messo in pericolo la sua vita, donna Teresa resta «indifferente e crucciata». È con Raimondo che le sue «viscere materne» si commuovono improvvisamente: «Così, mentre tutti gli altri parenti che non eran “pazzi” come lei, o che eran pazzi altrimenti, avevano dato a Giacomo l’idea che egli fosse da più di tutti come primogenito, come erede del titolo, la principessa aveva riposto tutto il suo affetto, un affetto cieco, esclusivo, irragionevole, sopra Raimondo. E la protezione della madre era molto più efficace di quella del padre e degli zii; perché, mentre costoro davano a Giacomo, avido di quattrini, ingordo d’autorità, soltanto vane parole, Raimondo era colmato di regali, otteneva ragione su tutti, faceva legge dei propri capricci» (80-81). Chiuso a San Nicola Lodovico, donna Teresa dà a Raimondo il titolo di conte; «avara, anzi spilorcia», largheggia solo con il «beniamino», e mentre Giacomo non vede un soldo e i suoi abiti sono ridotti a brandelli, «l’altro pareva un figurino». Raimondo viene sempre assecondato, mentre Giacomo non dispone di nulla. Eppure, paradossalmente, è proprio Giacomo il più simile alla madre, «autoritario, cupido, duro, almanacchista», mentre Raimondo non conosce il valore del denaro, sperpera tutto quello che ha, non s’intende d’affari, ama e cerca esclusivamente svaghi e piaceri. Anche fisicamente i due fratelli sono agli antipodi: «bellissimo» Raimondo, «più che brutto» Giacomo: «Raimondo rassomigliava al più puro tipo antico. Ridevano gli occhi alla principessa, quando lo vedeva, grazioso ed elegante, guidare, montare a cavallo, tirare di scherma; al primogenito invece dava altrettanti soprannomi quanti difetti trovava nella sua persona: l’Orso che balla, per la goffaggine; Pulcinella, per il lungo naso; il Nano, per la corta statura» (82).
Il risentimento di Giacomo nei confronti della madre e del fratello erompe con il matrimonio. Innanzitutto donna Teresa, decidendo di far sposare Raimondo, rompe la tradizione, secondo la quale solamente il primogenito doveva prendere moglie, creando così, nell’albero genealogico degli Uzeda, «un ramo storto che avrebbe fatto concorrenza al diritto»; inoltre la principessa destina al primogenito la figlia del marchese Grazzeri e non la cugina Graziella, da lui amata. Giacomo prova a ribellarsi all’autorità materna, ma deve cedere dinanzi alla minaccia della diseredazione. Allora muta atteggiamento, sfogandosi sulla moglie, Margherita:
«[…] dopo quest’ultimo e violento contrasto le s’inchinò, rassegnato e devoto, le prestò una obbedienza scrupolosa e cieca anche nelle cose inutili e ridicole, non parlò più se non d’amor fraterno, d’unione, di rispetto ai maggiori. Dentro, si rodeva; ed aspettando di cogliere il frutto di quella condotta, esercitava il proprio tirannico impero e faceva pesare il suo cruccio unicamente sulla moglie. Dal primo giorno del matrimonio questa fu tratta peggio d’una serva; non che volontà, non poté esprimere neppure opinioni; il principe l’addestrò ad obbedirgli a un semplice muover di sguardi; quando ella ebbe bisogno di comperare una matassa di cotone o un palmo di nastro, le convenne chiedere a lui i baiocchi occorrenti – e in dote gli aveva portato centomila onze. La sua missione fu quella di dare un erede al marito, di perpetuare la razza dei Viceré; compitala, ella fu considerata come una bocca inutile, peggio d’un lavapiatti; perché i lavapiatti facevano almeno la corte alla famiglia, all’occorrenza davano una mano al maestro di casa; mentre donna Margherita non sapeva far nulla e non pensava ad altro fuorché ad evitar contatti e vicinanze, con la manìa della nettezza e l’incubo dei contagi. Era del resto una creatura mite, senza volontà, cera molle che il principe plasmò a suo talento. In odio al figlio, non per amore che le portasse, la principessa suocera pigliò più d’una volta le sue difese; allora ella sofferse maggiormente, perché Giacomo, arrendendosi in apparenza, le faceva poi scontare più duramente quella protezione» (84).
Se il matrimonio di Giacomo va male, quello di Raimondo va molto peggio. Perché se Giacomo non voleva la Grazzeri, innamorato della cugina, Raimondo non voleva nessuna: «Le moine e le preferenze usategli dalla madre avevano destato in lui appetiti insaziabili di piaceri e di libertà» (ibidem). Ma il dispotismo di donna Teresa si abbatte anche sul «beniamino», capace di gettare al vento in una sola notte, a causa della passione del gioco, il denaro che la principessa gli dà in un anno, e così, nonostante la disparità di trattamento, i due fratelli desiderano con la medesima impazienza la morte della madre: «Giacomo per esercitare la propria autorità di capo della casa, per vendicarsi dei maltrattamenti sofferti, per afferrare la roba; Raimondo per saldare i debiti nascostamente contratti, per buttar via i quattrini nella soddisfazione delle proprie voglie, per appagare il più grande desiderio che lo struggeva: andar via dalla Sicilia, veder Milano e Torino, vivere a Firenze o a Parigi» (85). Raimondo rifiuta recisamente la possibilità di sposarsi, perché il matrimonio, nella sua smania di libertà e di bagordi, rappresenta «la catena al collo, la schiavitù, la rinunzia alla vita che egli sognava». Donna Teresa non si impone violentemente, come con gli altri figli, ma ricorre all’arma della persuasione: la dote della moglie permetterebbe a Raimondo di fare quello che vuole, e poi potrebbe piantare in asso la povera disgraziata in ogni momento. A questi argomenti il «beniamino» cede, vedendo la possibilità di usufruire di una ricchezza immediata e, soprattutto, la liberazione dal giogo materno.
I fratelli Uzeda sono dei piccoli fratelli Karamazov (non manca neppure il figlio illegittimo, e anche in questo caso si tratta di un servo, il maggiordomo Baldassarre) [3]. Certo, nei personaggi di De Roberto manca la profondità psicologica e l’incidenza filosofico-morale caratteristica dei personaggi di Dostoevskij (abbracciando il naturalismo, l’autore siciliano rinuncia, di fatto, a queste grandiose componenti), ma in essi è possibile ritrovare quell’ansia disperata di affermazione individuale, in chiave egoistica, oserei dire stirneriana [4], propria dei Karamazov.
IV. Ogni Uzeda ha uno o più nemici all’interno della propria famiglia, tra i parenti. I rivali più acerrimi di donna Teresa sono stati i cognati don Blasco e donna Ferdinanda. Del primo abbiamo già parlato, concentriamoci dunque sulla seconda. Donna Ferdinanda, la «zitellona», mai parsa donna, «né di corpo né d’anima», neppure da bambina, è ossessionata dalla roba, e, partita da zero, grazie a una spietata attività di speculazione, d’usura di fatto, riesce a crearsi una sostanza importante, acquistando persino una casa, e non una casa qualunque, piccola, sì, ma dal valore simbolico enorme, appartenente da generazioni ai Calasaro, signori della «mastra antica», e situata nel vecchio quartiere della nobiltà cittadina. Perché donna Ferdinanda, oltre all’ossessione della roba, ha l’ossessione della «vanità nobiliare». Dalla libreria di famiglia, venduta per necessità, salva solamente un testo, il Teatro genologico di Sicilia di Mugnòs: «era la sua lettura prediletta, l’unico pascolo della sua immaginazione; il suo romanzo, il vangelo che le serviva a riconoscere gli eletti tra la turba, i veri nobili tra la plebe degli ignobili e la “gramigna” dei nobili falsi» (90). Ora, della famiglia Palmi, dalla quale proviene Matilde, la promessa sposa di Raimondo, non c’è traccia nel Mugnòs, e questo porta a un violento dissidio tra donna Teresa e donna Ferdinanda. Il matrimonio è osteggiato anche da don Blasco, perché i Palmi sono i candidati del suo acerrimo rivale in monastero, Padre Dilenna, liberale. Ma donna Teresa, che alla cocciutaggine degli Uzeda abbina quella dei Risà, non si lascia condizionare dai pareri ferocemente negativi del monaco e della «zitellona» e va per la sua strada. Gli altri due cognati, il cavaliere don Eugenio, bizzarro archeologo, numismatico, collezionista d’arte dopo la fallimentare carriera militare, e don Gaspare, duca d’Oragua, mezzo borbonico e mezzo liberale secondo la camaleontica filosofia politica di un colpo al cerchio e uno alla botte, che permette di mantenersi sempre a galla, non hanno mai dato problemi alla principessa.
V. Ad appena sei anni il principino Consalvo, figlio di Giacomo, è più curioso di don Blasco. Comprende già tutto, le rivalità e i dissapori che attraversano la famiglia, ma tace, già perfettamente accorto e prudente, «per non incorrere nella collera di nessuno». Giacomo, severissimo con il figlio, diventa intrattabile dopo la lettura del testamento, e gran parte del suo rancore si riversa su Matilde, la moglie di Raimondo, l’esclusa di casa Uzeda, la vittima per eccellenza, contro la quale l’odio familiare si riversa unanime, senza eccezioni (in questo senso la povera Palmi riesce nell’impresa di unire e accordare gli Uzeda, lacerati dagli interessi personali):
«Allora ella aveva cominciato a comprendere le particolari passioni che, oltre all’orgoglio, animavano ciascuno di quegli Uzeda duri e violenti… La madre di Raimondo, per idolatria del figlio, era gelosa di lei: riuscita ad ammogliarlo, ad assicurargli la dote, aveva umiliato la nuora, facendole sentire fin dal primo giorno la sua mano di ferro perché, più d’ogni altro, ella stessa sommessa dinanzi al beniamino; ma la sommessione idolatra, il cieco affetto della sposa, togliendole ogni pretesto d’incrudelire su lei, mettendo nuova esca al fuoco della sorda gelosia materna, l’aveva resa implacabile. Il fratello maggiore, non perdonando a Raimondo i suoi privilegi, non potendo rassegnarsi alla concorrenza che la famiglia di lui faceva alla propria, rovesciava il suo rancore sulla cognata. Tutti gli altri erano stati senza pietà per l’intrusa, o in odio alla principessa che l’aveva voluta in quella casa o in odio a Raimondo che la madre proteggeva. Così ella s’era vista bersaglio di quei parenti ai quali era venuta con animo confidente e cuore affezionato; e lo scoprire che il loro astio era tanto acre contro di lei quanto contro Raimondo, invece di attenuare aveva inacerbito la sua pena; poiché perduta d’amore pel marito, ella soffriva e gioiva in lui e per lui…» (104).
Tra tutti i familiari riuniti nel palazzo Francalanza, la posizione di Matilde è la più scomoda e drammatica. A tavola vede tutte le tensioni, ipocritamente celate, che attraversano gli Uzeda e rimpiange l’armonia ideale della casa paterna. Ella appare da subito destinata a una vita di dolore, da martire, anche a causa delle enormi differenze esistenti tra lei e quel marito che non la voleva affatto: «Avevano un modo radicalmente diverso d’intendere la vita: mentre ella metteva innanzi tutto l’affetto di suo marito e le gioie della famiglia, e non desiderava se non prolungare al fianco di Raimondo, sia pure in altri luoghi, l’ineffabile felicità domestica provata da fanciulla; il giovane viziato dalle preferenze della madre e finalmente uscito dalla sua ferrea tutela, aspirava unicamente ai liberi piaceri mondani» (106). La maternità la risolleva, ma i suoi propositi di riconciliazione con la famiglia del marito si rivelano presto mere illusioni: l’odio di donna Teresa si abbatte anche sulla nipotina, chiamata come lei, colpevole d’essere nata da Matilde Palmi oltreché d’essere nata femmina. Il contegno del marito nei suoi confronti non muta neppure dopo la gravidanza: Raimondo vive come se fosse ancora scapolo, senza orari, lasciandola sola a lungo, e come se la figlia non esistesse: «Quella figlia che doveva ancora più stringerli insieme, che per lo meno doveva essere, nel dolore, il gran rifugio della madre, non solo pareva non dir nulla al cuore di Raimondo, ma non bastava neppure a confortare lei stessa, poiché ella non poteva più scusare come nei primi tempi la condotta sempre più sfrenata del marito, poiché non ignorava più che egli la trascurava per altre donne, e poiché questa scoperta le faceva a un tratto sentire il coltello della gelosia…» (108). Eppure, più Raimondo la respinge, la disprezza, più Matilde s’innamora di lui. Direttamente proporzionale all’amore aumenta a dismisura la sua angoscia, placata neppure da una nuova gravidanza, della quale non sa gioire, come non gioisce Raimondo, infastidito piuttosto, e per di più irritato dal ritorno forzato in Sicilia a causa della morte di donna Teresa: «l’implacata avversione dei parenti l’affliggeva ancora una volta come prova della insospettata malvagità umana; e adesso che Raimondo, senza rispetto per la memoria della madre, faceva ciarlare tutta la città con la sua vita sbrigliata, ella domandava tra sé, con lungo sconforto: “Quando, dove avrò pace?…”» (109). Domanda terribile, di cui è facile presagire la terribile risposta: mai, da nessuna parte, in vita; sempre, dappertutto, dopo la morte. Sì, la morte appare l’unica soluzione possibile alle sofferenze di Matilde. Il dolore è il destino di Matilde, colpevole di una sottomissione cieca, incondizionata, da «cane fedele» a colui che ama, ma che non la ama, e che pure giustifica, ritiene innocente, fatto così perché così lo hanno fatto, non perché così è: «ella addebitava quel che trovava in lui di men bello alla soverchia indulgenza, al cieco amore della madre» (132). Matilde, annebbiata, o meglio, annichilita dalla sottomissione, non si accorge di comportarsi proprio come la fu donna Teresa, e di lasciare campo libero, con la sua sconfinata indulgenza, a tutte le peggiori inclinazioni del marito. Nel suo atteggiamento colpevolmente remissivo, autodistruttivo, Matilde ricorda Gervaise Macquart, la protagonista dello Scannatoio di Zola [5].
VI. Il leopardiano ardore critico di De Roberto si esalta quando aggredisce la sfera pubblica, la politica e la religione. In questo senso, il primo bersaglio della spietata critica derobertiana sono i monaci benedettini, tra i quali spiccano don Blasco e Lodovico, e nel cui monastero, il sontuoso complesso di San Nicola, è entrato anche il principino Consalvo, ma come semplice studente: «I monaci […] facevano l’arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso» (151). La regola resta pura e vuota teoria, monotono sottofondo al lauto pasto, necessario solo a evidenziare la vita contraddittoria dei monaci, che mangiano e bevono più e meglio che in qualunque casa aristocratica: «… 34° comandamento: non esser superbo; 35°: non dedito al vino; 36°: non gran mangiatore; 37°: non dormiglione; 38°: non pigro…» (152). Tutte le indicazioni alimentari della regola vengono bollate come «antichità», e non solo queste: «San Benedetto non distingueva Padri nobili e fratelli plebei, voleva che tutti facessero qualche lavoro manuale, comminava penitenze, scomuniche ed anche battiture ai monaci ed ai novizi che non adempissero il dover loro, diceva insomma un’altra quantità di coglionerie, come le chiamava più precisamente don Blasco» (ibidem). Al contrario di quanto stabilito dalla regola, il monastero si basa su una rigida distinzione sociale, su un inflessibile sistema di casta. Altro che luogo di fervida spiritualità, di penitenza e di preghiera… il monastero di San Nicola è un tempio del gioco d’azzardo, della gozzoviglia, popolato di «ganze» e di bastardi infilati nel convento in qualità di fratelli. Il solo don Blasco ha tre amanti nel quartiere di San Nicola, donna Concetta, donna Rosa e donna Lucia la Sigaraia, con una mezza dozzina di figli. Oltreché dei vizi, i monaci sono preda del fervore ideologico, politico, dividendosi in liberali e in borbonici, discutendo animatamente, rischiando persino di venire alle mani: il loro regno è di questo mondo, un mondo completamente privo di valori, immorale, dominato dalla brama di potere, di denaro, dagli stinti più bassi e beceri dell’animale uomo.
Nei Viceré De Roberto fornisce un ritratto dell’umanità davvero desolante, disperante, generalmente pessimistico, in alcuni casi persino nichilistico, come nel personaggio di don Blasco, la figura più nera, diabolica del romanzo, alla quale si adatta perfettamente il motto del vecchio Karamazov: après moi le déluge. Non a caso don Blasco non redigerà nessun testamento, lasciando che i familiari si sbranino tra di loro come lupi per il suo ingente patrimonio (a proposito di lupi e di motti, homo homini lupus è il proverbio che forse, meglio di ogni altro, racchiude il senso del mondo rappresentato da De Roberto nei Viceré).
VII. Raimondo non pensa ad altro che al gioco e all’avvenente Isabella Fersa, che in realtà non vorrebbe neppure sedurre: sono gli ostacoli a risvegliare in lui l’«istinto sanguinario dei vecchi Uzeda». Impegnato a sperperare denaro e a corteggiare la donna, Raimondo lascia che sia solamente il fratello, Giacomo, ad amministrare il patrimonio. L’unico pensiero di Chiara è dare un figlio al marito, ma la prole non vuole proprio venire al mondo, quasi presagisca cosa la attenderebbe se nascesse. Ferdinando, in breve tempo, manda in rovina il podere delle Ghiande con le sue follie colturali: «appurato, per esempio, che in ogni albero i rami possono fare da radici e le radici da rami, aveva preso a sperimentar la verità, schiantando gli aranci alti e rigogliosi per ripiantarli capovolti: ad uno ad uno tutti gli alberi erano morti» (170). Lucrezia è tutta intenta ad amoreggiare epistolarmente con un semplice studente di giurisprudenza. Eccoli qui i discendenti dei Viceré. Solo Giacomo, l’unico che conti davvero, in fondo, sembra essere all’altezza del suo illustre cognome, quantomeno in fatto di avidità e di brama di potere.
VIII. Un colpo al cerchio e uno alla botte: è questo il detto che racchiude esemplarmente il contegno degli Uzeda dinanzi alla Storia, alle vicende risorgimentali nella fattispecie. Mutare colore come camaleonti, a seconda delle circostanze, delle necessità, e così preservarsi, trovare il proprio posto, sempre e comunque. Emblematico in tal senso l’esempio di don Gaspare, il duca d’Oragua, che naviga, fluttua tra borbonici e liberali, senza esporsi troppo, senza prendere una posizione definitiva, e divenendo infine un eroe risorgimentale, a forza di donazioni, nonostante la viltà (durante gli scontri armati si nasconde nel monastero di San Nicola) e la paura, quasi superstiziosa, della folla, con la quale non sa comunicare: «all’idea di dover rispondere, si sentì a un tratto serrar la gola, vide a un tratto la piazza trasformata in un mare terribile, vorticoso e ululante, le cui ondate saettavano sguardi; e lo spasimo della paura fu tale ch’egli dovette afferrarsi alla balaustrata» (203).
L’istinto di adattamento alla Storia degli Uzeda è sintetizzato emblematicamente in una battuta di Giacomo, la battuta per eccellenza del romanzo, rivolta al figlio Consalvo, dopo l’elezione di Don Gaspare al neonato Parlamento italiano: «Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!…» (222). Parole fondamentali, che si imprimono nella mente del giovane Consalvo, alimentandone l’egoismo e orientandone le scelte future. La prima parte del romanzo si conclude proprio con l’elezione del duca d’Oragua, e con il parto spaventoso di Chiara, che mette al mondo un mostro, morto, eppure conservato in una fiala per la macabra volontà dei genitori: un lupo di meno.
NOTE
[1] Federico De Roberto, I Viceré, a cura di Sergio Campailla, Newton Compton editori, Roma 2014, pp. 46-47. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[2] Per un approfondimento sul vecchio Karamazov rimando al capitolo primo dello studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso: Fëdor Pàvlovič, un padre del nostro tempo.
[3] Per un approfondimento sull’ultimo romanzo di Dostoevskij rimando al già citato studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso.
[4] Per un approfondimento sulla filosofia dell’egoismo del pensatore tedesco rimando al contributo Max Stirner – L’unico e la sua proprietà.
[5] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Émile Zola, «Lo scannatoio»: la tragica parabola di Gervaise Macquart.