«Non posso più, non devo più – come può vivere un sacerdote quando il suo dio non esiste più? O genio del mio popolo, o anima della Grecia! devo scendere a cercarti nel regno dei morti».
I. Frutto di ben sette anni di lavoro e più, dal 1792 al 1799 e oltre, il romanzo Iperione di Friedrich Hölderlin (il primo volume pubblicato nel 1792, il secondo nel 1799) rappresenta un unicum nella letteratura tedesca dell’epoca. Differente dal Werther [1], al quale lo accomuna il genere epistolare e poco altro, non è un Bildungsroman tradizionale come i Meister di Goethe o l’Enrico di Ofterdingen di Novalis [2]. Come rileva giustamente Amoretti, la vita non matura né forma il protagonista, ma lo colpisce e abbatte: Iperione è uno sconfitto, dolorosamente costretto a fare i conti con la propria inattualità, con la propria postumità, aspetto caratteristico e invincibile della sua figura. Insomma, all’interno del panorama letterario tedesco a cavallo dei due secoli il romanzo sta a sé, al pari del suo autore, Hölderlin, estraneo alle tendenze dominanti del proprio tempo, classicismo, Sturm und Drang e romanticismo. Una condizione di autonomia, indipendenza, originalità e isolamento che ricorda quella di un altro grande protagonista della letteratura tedesca dell’epoca, Heinrich von Kleist [3], come Hölderlin incompreso e scarsamente considerato dai contemporanei.

Hölderlin in un disegno di Franz Karl Hiemer del 1792
II. Hölderlin è perfettamente consapevole della novità, dell’originalità della propria opera e dunque del destino di incomprensione, di scarsa considerazione cui essa è attesa, come emerge dalla scettica e polemicamente arresa Prefazione:
«Vorrei poter promettere a questo libro l’amore per i Tedeschi. Ma temo che alcuni lo leggeranno come un trattato, preoccupandosi anche troppo del fabula docet in esso, mentre altri lo considereranno con troppa leggerezza; non lo comprenderanno né gli uni, né gli altri.
Chi si limita a percepire solamente il profumo di un fiore, non lo può conoscere, e non lo conosce nemmeno chi lo coglie soltanto per ricavarne nuove cognizioni.
Il risolversi delle dissonanze in un determinato carattere non si addice né alla semplice riflessione, né al vuoto diletto.
Il palcoscenico sul quale si svolge quanto segue non è nuovo e io confesso di essere stato un tempo abbastanza ingenuo da pensare possibile un mutamento per mezzo di questo libro, ma mi persuasi che esso era l’unico adatto al carattere elegiaco di Iperione e mi vergognai che il probabile giudizio dei lettori mi avesse reso così esageratamente docile» [4].
Dalle parole di Hölderlin, come già dall’epigrafe del primo volume del romanzo («Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est», ovvero «Non essere limitato da ciò che è più grande, essere contenuto da ciò che è minimo, questo è divino»; citazione tratta dall’epitaffio impresso sulla tomba di Ignazio di Loyola e liberamente interpretata, risemantizzata in chiave laica dall’autore), emerge l’anelito alla sintesi, al «risolversi delle dissonanze», frutto di una Weltanschauung di stampo neo-platonico nata in reazione al gelido e distaccato razionalismo, estesa dall’ambito esclusivamente filosofico alla sfera vitale dell’individuo nel suo complesso. La perfetta unità tra dimensione fisica, spirituale e natura diviene così per Hölderlin una norma di vita da seguire e perseguire quotidianamente, praticamente, e lo stesso vale per Iperione, che vi approderà infine, più o meno, ma a caro prezzo, auto-escludendosi da quel consorzio umano che ha tentato con tutto se stesso di mutare, di liberare, di migliorare, ma senza successo. Anche Hölderlin, alla fine della propria parabola esistenziale, conoscerà una forma di esclusione definitiva, ma ben più dolce di quella riservata al suo protagonista: la follia.
III. Iperione torna in Grecia, la sua amata e amara patria, dopo aver soggiornato per qualche tempo in Germania, successivamente alla fallita rivoluzione del 1770 – la cosiddetta rivolta Orlov -. Da qui scrive a Bellarmino, caro amico tedesco, che lo esorta a raccontargli la sua vita e le sue gesta. Il carattere postumo del protagonista, che rimpiange l’antica Grecia che fu, la sua vera Grecia, e che oggi non è più, schiava e barbara, emerge sin dalla prima lettera, imponendosi come il tratto dominante di Iperione:
«Uno dei due golfi avrebbe dovuto rallegrarmi in modo particolare, se fossi stato qui un migliaio d’anni fa.
[…] Ma oggi a che mi giova? Il grido dello sciacallo che scioglie fra le macerie dell’antichità il suo selvaggio canto funebre mi strappa, spaventandomi, ai miei sogni.
[…] Mi pare di essere stato gettato in un pantano, come se si inchiodasse su di me il coperchio di una bara; quando qualcuno mi ricorda la mia patria e quando qualcuno mi chiama greco, mi pare sempre che mi serri la gola con il collare di un cane» (27).
Iperione è affetto da una delusione profonda e irriducibile, che può essere mitigata solamente recuperando un rapporto diretto, originario con la natura: «Oh, non avessi mai agito! di quante speranze sarei oggi più ricco! Oh, dimentica soltanto che esistono uomini e, o cuore misero, combattuto e mille volte indignato, ritorna là donde venisti, là fra le braccia dell’immutabile, serena e bella natura» (28). Iperione è uno sconfitto e non lo nasconde né a se stesso né all’interlocutore:
«La mia attività su questa terra è finita. Mi sono messo al lavoro pieno di volontà, ho versato il mio sangue per esso e non ho arricchito il mondo nemmeno di un centesimo.
Ritorno solo e senza gloria e mi aggiro per la mia patria che giace ampia intorno a me come un cimitero […]» (28-29).
Iperione ha tentato, ma ha fallito – era destinato a fallire -, e questa sua condizione di profonda e inconsolabile delusione, di cupa insoddisfazione nei confronti di se stesso e degli altri, ricorda la condizione in cui troviamo Faust all’inizio dell’omonima opera di Goethe [5]. Faust risorgerà grazie a Mefistofele, mentre Iperione trova conforto nella natura, in una sorta di estasi panteistica: «Il gioioso canto della primavera placa nel sonno i miei mortali pensieri. La pienezza di un mondo che dà vita al tutto nutre e sazia con ebbrezza il mio misero essere» (29). Iperione torna nel grembo della natura, in perfetta sintesi con essa: «Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia, è la sacra cima del monte, è il luogo dell’eterna calma, dove il meriggio perde la sua afa, il tuono la sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia all’onde di un campo di grano» (ibidem). Iperione è portavoce di una dimensione esistenziale ricondotta all’autenticità, all’essenzialità – l’uomo nudo perfettamente integrato nella natura, in perfetto accordo e armonia con la natura, suo figlio e non sovrano, libero dalle catene oppressive, coercitive e svalutative della riflessione, che non fanno altro che immiserirlo:
«Oh, un dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando riflette e, quando l’estasi si è dileguata, si ritrova come un figlio fuorviato che il padre cacciò via di casa e contempla i miseri centesimi che la pietà gli ha dato per il suo cammino» (30).
Si tratta di una poetica, ma non per questo meno efficace e incisiva, anzi, critica della ragione, della conoscenza, dell’arida speculazione filosofica fine a se stessa – si legga razionalismo -, il cui unico risultato è rivelare all’uomo tutta la sua miseria e tutta la sua insignificanza – si ricordi ancora lo stato di disperazione totale in cui troviamo Faust all’inizio dell’opera di Goethe [6] -. Come scrive Kleist in quel formidabile micro-saggio che è Il teatro delle marionette [7], per l’uomo aver mangiato dell’albero della conoscenza è stata una disgrazia, perché la conoscenza appesantisce, aggrava, schiaccia a terra, producendo inutili sovrastrutture ideologiche, politiche, sociali, religiose che allontanano l’uomo dall’essenziale, da ciò che è più autentico e buono. Ecco, in questo senso, dopo i tentativi fallimentari con e tra gli uomini, in solitudine Iperione recupera l’originaria dimensione edenica perduta.
«Entro di noi è tutto. Perché mai si cruccia l’uomo se un capello si stacca dal suo capo? E perché tende a diventare schiavo, mentre potrebbe essere un dio?» (37). Come emerge da questo e da numerosi altri passi del romanzo, Iperione ha una considerazione altissima – ingiustificatamente, verrebbe da aggiungere – dell’essere umano, e ciò non fa altro che alimentare e rendere più profonda, inguaribile di fatto, la sua delusione e la sua insoddisfazione. Perché l’uomo non si accontenta della propria natura grande e completa di per sé, ma anela all’ignoto immiserendosi, ridimensionandosi, svalutandosi, uccidendo «le gioie dell’affinità e dell’amore»:
«Siamo noi, noi, noi quelli ai quali piace di precipitarci nella notte dell’ignoto, nella fredda lontananza di un mondo qualsiasi e, se fosse possibile, abbandoneremmo la zona del sole per valicare d’impeto oltre i confini della cometa. Ah! per il selvaggio cuore dell’uomo non vi è una patria possibile e, come il raggio del sole inaridisce di nuovo le piante della terra che ha fatto crescere, così l’uomo uccide i dolci fiori che germogliarono entro il suo petto, le gioie dell’affinità e dell’amore» (37).
L’uomo ha tutto in sé e attorno e sé, ma il suo cuore «selvaggio» cerca sempre qualcos’altro altrove, senza però trovare nulla, ottenendo come unico risultato la propria svalutazione e il vuoto, di sé, in sé e della vita, nella vita. Torna la critica della ragione, della conoscenza, della scienza, con Iperione che dichiara di trovarsi a disagio soprattutto tra gli uomini colti, filosofi e studiosi, così inautentici e astratti, ma soprattutto aridi, poveri di spirito – ridono quando si parla di bellezza dell’anima e di virtù del cuore, quella bellezza dell’anima e quelle virtù del cuore alle quali il protagonista ha consacrato la propria vita.
IV. Iperione racconta a Bellarmino la propria vita, gli parla del maestro Adamas e dell’amico Alabanda. Soprattutto quest’ultimo riveste un’importanza straordinaria per il protagonista (possiamo definirla senza dubbio la terza figura più importante del romanzo, dopo quelle di Iperione e di Diotima). Alabanda si contraddistingue per il carattere ardente, guerresco, indomabile, persino terroristico nella sua durezza e aggressività, rappresentando una sorta di completamento di Iperione, decisamente più riflessivo, contemplativo, tendente al sogno. I due amici si uniscono nella missione della salvezza, della liberazione della patria, in balia dell’invasore turco, ma i loro approcci differenti alla causa – Alabanda è un vero e proprio rivoluzionario, legato a inquietanti congiurati – li portano a una dolorosa separazione: Iperione, il sognatore, il visionario, abbandona Alabanda, il terrorista, consapevole dell’inconciliabilità delle due posizioni.
Dopo la separazione dal caro amico, Iperione si scopre il più povero degli uomini e il suo pessimismo erompe, straripa, incontenibile: «Parliamo dei nostri cuori, dei nostri progetti come se fossero cosa nostra ed è invece un potere straniero quello che ci sbatte in qua e in là e ci depone nella fossa come ad esso piace, e del quale non sappiamo da dove venga e dove vada» (59). Ma, al tempo stesso, Iperione scopre nel proprio dolore un valore: «Accettami così come mi dono, e pensa che è meglio morire perché si è vissuti, piuttosto che vivere perché non si è mai vissuti. Non invidiare coloro che sono esenti dal soffrire, questi idoli di legno ai quali nulla manca perché la loro anima è così povera, che non si informano se piova, o splenda il sole, perché nulla posseggono che richieda cura» (60). Parole che Iperione rivolge a Bellarmino: la loro corrispondenza è innanzitutto una trasfusione di dolore. Torna la primavera ed Iperione si mette alla ricerca di Alabanda, ma non lo trova e allora l’insignificanza, l’insensatezza della propria vita lo pervade: «Compiangiamo i morti, come se essi sentissero la morte, ma i morti hanno pace. Ma questo, questo è un dolore che non ha eguali, è, cioè, il sentimento costante di un annientamento totale quando la nostra vita perde significato, quando il nostro cuore si dice: “tu devi perire e nulla rimarrà di te, non hai piantato un fiore, non hai costruito una capanna.” Oh, se tu potessi almeno dire: “lascio un’orma sulla terra”» (64-65). Insignificanza, insensatezza, inutilità, vanità, nulla, morte, che si estendono dal particolare al generale, avvelenando e invalidando ogni singola esperienza umana:
«”Che cosa è l’uomo? […] come è possibile esista al mondo qualcosa che fermenta come un caos, o che imputridisce come un albero marcio e non raggiunge mai una maturità? Come può la natura sopportare quest’uva acerba in mezzo alle sue dolci uve?”
Egli dice alle piante: un giorno ero come voi anch’io, e, alle stelle, voglio diventare come voi, in un altro mondo! E, contemporaneamente, si frantuma, e tenta su se stesso tutte le sue arti, quasi si potesse, dopo che lo si è scomposto, ricomporre qualcosa di vivo come si fa con una costruzione in muratura.
E non lo confonde nemmeno il fatto che nulla viene modificato in meglio da tutto il suo darsi da fare; tutto quello che fa resta un gioco di bravura.
Poveri voi, che sentite ciò, che non volete parlare di una vocazione umana, voi, che siete anche penetrati completamente dal nulla che impera su di noi, voi, che riconoscete sino in fondo che siamo nati per il nulla, che noi amiamo un nulla, crediamo in un nulla, che ci affatichiamo invano per un nulla, per poi trapassare lentamente nel nulla. […]
Posso cadere in ginocchio e serrare le mie mani e pregare non so chi per cambiare i miei pensieri. Ma non la posso dominare questa verità che grida. Non me ne sono, del resto, doppiamente convinto? Quando osservo intorno a me la vita, dov’è l’ultimo limite del tutto? Nulla. Quando mi elevo nello spirito, qual è il punto più alto? Nulla.
[…] Al di sopra di te e davanti a te sono proprio il vuoto e il deserto, perché sono in te il vuoto e il deserto.
[…] Quando si celebra una festa nessuno languisce, nemmeno il più povero. Ma uno solamente fa festa in mezzo a voi: ed è la morte.
Necessità, angoscia e notte sono i vostri padroni. Essi vi scelgono, e vi separano l’un dall’altro a bastonate. Voi chiamate la fame amore, e là dove voi non vedete più nulla, là abitano i vostri iddii. Iddii e amore? Oh, i poeti hanno ragione, nulla è così piccolo e misero da non poter destare in noi entusiasmo» (65-67).
Dopo la separazione da Alabanda, Iperione precipita in uno stato di disperazione totale e totalizzante, con il pessimismo che muta in nichilismo corrodendo ogni cosa. Neppure la natura riesce più a consolarlo. È solo e nudo, escluso anche dalla serena armonia della natura. Termina con queste note funebri il primo libro del primo volume del romanzo, la parte più oscura dell’intera opera di Hölderlin, completamente disperata e disperante.
V. Tornando al presente, Iperione comunica a Bellarmino di essersi ritirato a vita solitaria su un promontorio dell’isola di Salamina, dove si è costruito una capanna. Ritrovata la serenità perduta a causa del triste ricordo relativo alla separazione da Alabanda, può riprendere il carteggio con Bellarmino e continuare a narrargli la sua vita. Nel racconto irrompe Diotima – colei che nel Simposio di Platone rivela a Socrate la natura di Eros [8] -, la figura più luminosa del romanzo, la donna assegnata a Iperione dal destino ancor prima che si conoscessero, l’ideale:
«Ho veduto una sola volta l’unica, colei che la mia anima cercava, e la perfezione che noi collochiamo al di sopra delle stelle, che noi allontaniamo sino alla fine del tempo, questa perfezione l’ho sentita presente. Era là, questo essere supremo, là nella sfera della umana natura e delle cose esistenti.
Non domando più dove essa è; è esistita nel mondo e può ritornarvi; vi è soltanto nascosta. Non domando più che cosa sia, l’ho veduta, l’ho conosciuta» (73).
È il trionfo d’amore di Iperione: «Che cosa è tutto quello che, nei millenni, gli uomini hanno compiuto e pensato di fronte a un solo istante d’amore? Ed è anche quanto di più perfetto, di più divino esista in natura! Là conducono tutti i gradini, sulla soglia della vita. Di là veniamo, colà andiamo!» (76). La natura di Diotima è votata la sacrificio, il piacere e la gioia dell’altro per lei vengono prima del proprio piacere e della propria gioia. Ella non ha esigenze né pretese, è interamente, perfettamente in sé, al di là della contingenza. E tutte le aspirazioni e i sogni di Iperione convergono su di lei, si concentrano in lei. Diotima è il Lete di Iperione, nel quale egli beve «la dimenticanza dell’esistenza». Solo lei avrebbe potuto rendere il protagonista un uomo felice e «completo», ma ciò non è stato. Nel ricordo Iperione anticipa così il tragico epilogo della sua relazione con Diotima, anticipandone la morte prematura.
Unità e completezza, sono queste le parole che racchiudono l’essenza del rapporto tra Iperione e Diotima, legati ancor prima di scoprirsi, destinati l’un l’altro: «Ancora prima che l’uno sapesse dell’altra, noi ci appartenevamo» (82). Iperione racconta a Diotima la sua vita, come sta raccontando ora la sua vita a Bellarmino, le parla di Adamas, di Alabanda, e la donna è capace di cogliere l’essenza delle relazioni del protagonista, legandole alle sue aspirazioni, alle sue ambizioni e al suo stato di postumità:
«Tu non volevi uomini, credimi, tu volevi un mondo.
[…] Perché tu hai tutto e hai nulla, perché il fantasma dei giorni dorati che devono arrivare ti appartiene e, tuttavia, non è ancora là, perché tu sei un cittadino nelle regioni della giustizia e della bellezza, un dio fra gli dei nei tuoi bei sogni che, di giorno, si insinuano in te e, quando ti desti, ti ritrovi sul suolo della Grecia odierna» (88).
Grecia odierna ovvero barbara e schiava, lontana anni luce da quell’ideale di suprema bellezza e di suprema libertà cui vorrebbe ricondurla Iperione. Le parole di Diotima rivelano tutta la sua luminosa grandezza – ineguagliabile per ogni altro personaggio del romanzo, oscurato dalla figura della donna, Iperione compreso -, confermata nel momento in cui, dopo aver suggellato finalmente il loro amore, esorta il protagonista a non sognare, a non uccidere con il suo malumore – la malattia mortale dell’uomo postumo, quasi un vizio – la gioia frutto della loro unione: «i fiori pretendono la gentile cura del cuore. Le loro radici sono ovunque, ma essi prosperano soltanto in un clima sereno» (94).
L’amore per Diotima, l’amore di Diotima trasfigura il mondo intero, creandone, di fatto, uno nuovo (ciò che Iperione ha sempre, disperatamente cercato nei suoi rapporti con l’altro, da Adamas ad Alabanda), in cui il protagonista è perfettamente a proprio agio: «Le nostre anime vivevano insieme sempre più libere e sempre più serene, e tutto in noi e intorno a noi si fondeva in una pace dorata. Sembrava che il vecchio mondo fosse morto e che, con noi, ne incominciasse uno nuovo, così spirituale, robusta, leggera e cara era diventata ogni cosa, e noi e tutti gli esseri aleggiavamo, felicemente uniti, attraverso l’infinita etra, come un coro di mille, inseparabili note» (94). Come il sogno, anche l’amore eleva l’uomo: «Sì, l’uomo è un sole che tutto vede, tutto trasfigura quando ama, e, se non ama, allora non è che una oscura dimora dove arde, fumoso, un piccolo lume» (95).
Tra i momenti culminanti della relazione tra Iperione e Diotima, vi è senza dubbio quello in cui la donna dichiara all’uomo il proprio amore, abbandonandosi a lui completamente, come prima d’ora aveva fatto solo con la natura: «L’innocente! ancor non conosceva la possente pienezza del suo cuore e, dolcemente terrorizzata da questa ricchezza in lei, la seppelliva nella profondità del cuore. E con quali accenti confessò nella sua santa innocenza e lacrimando di amare troppo, e prese congedo da tutto ciò che, prima, cullava nel suo cuore, oh! con quali accenti esclamò: “Sono diventata infedele al maggio, all’estate e all’autunno e non mi curo più, come un tempo, del giorno e della notte, non appartengo più al cielo e alla terra, appartengo a uno solo, a uno solo, ma i fiori del maggio, l’ardore dell’estate e la maturità dell’autunno e la terra e il cielo sono riuniti in quest’unico solo; così amo io!” E come mi contemplava nella piena gioia del suo cuore, come ella, con audace, sacro gaudio, mi strinse fra le sue belle braccia e mi baciò la fronte e la bocca, ah! come il suo capo divino, morendo di voluttà, si abbandonò sul mio nudo collo e le dolci labbra si posavano sul mio cuore palpitante e il suo dolce respiro mi penetrava entro l’anima. O Bellarmino, i miei sensi svanirono e lo spirito fuggì via» (96). L’amore di Diotima è incondizionato, totale e totalizzante, travolgente. Ella ama come solamente una donna sa amare, pienamente, irrazionalmente se vogliamo, senza mediazioni di sorta. Anche il sentimento di Iperione sgorga impetuoso, certo, ma, come vedremo, non si mostrerà assoluto come quello di Diotima, alla quale finirà per anteporre le proprie aspirazioni legate alla patria, e decretando così, di fatto, la fine prematura della donna amata. Mentre Diotima è un personaggio completamente positivo e luminoso, Iperione conserva parecchie zone d’ombra nocive per se stesso e per gli altri, e che condizioneranno la sua vita in modo irreparabile.
VI. Iperione si reca ad Atene con Diotima e la vista delle rovine dell’antica e splendida città lo riempie d’angoscia e di rimpianto. Ciò che vede, ciò che è rimasto è ciò che era e ciò che Iperione vorrebbe fosse ancora. Quelle rovine decadenti, circondate da erbacce e da animali sono gli emblemi tangibili della decadenza greca che tanto addolora il protagonista e alla quale vorrebbe porre rimedio, riconducendo la propria patria imbarbarita e schiava agli antichi fasti: «È bello che, per l’uomo, sia così difficile di convincersi della morte di ciò che egli ama e nessuno si è ancora mai recato alla tomba del suo amico, senza una vaga speranza di incontrare là, veramente, l’amico. La bella immagine dell’antica Atene mi afferrò come quella di una madre che ritorni dal regno dei morti» (104). Rifondare la propria patria nel nome della Natura, della Bellezza e della Cultura: è questo il sogno di Iperione. Diotima è per lui un surrogato dell’antica Grecia e con lei accanto svanisce ogni malumore, ogni aspirazione si disperde. Diotima è la sua «beata isola», nella quale rifugiarsi al riparo del mondo devastato, al riparo della propria coscienza critica e della propria ambizione fallimentare, Diotima è la cura:
«Ciò che credevo perduto, lo posseggo di nuovo; ciò per cui languivo come se fosse scomparso dal mondo, sta davanti a me. No, Diotima! La fonte dell’eterna bellezza non è inaridita.
Te l’ho già detto altre volte; non ho più bisogno degli dei e degli uomini. Lo so, il cielo è morto, spopolato e la terra che un tempo traboccava di una bella vita umana è diventata quasi un nido di formiche. Ma esiste ancora un luogo dove il cielo e la terra mi sorridono. Perché dimentico in te tutti gli dei del cielo e tutti i divini uomini della terra.
Che m’importa del naufragio del mondo, non conosco nient’altro se non la mia beata isola» (107).
Diotima, con la sua esistenza e con il suo amore, colma un vuoto che sembrava incolmabile. Diotima è la soluzione alla vita, a questa vita, è un’altra vita e un’altra epoca, un altro mondo, migliore di quello attuale, splendido come quello perduto. Diotima lo sa, lo sente in ogni singola fibra del proprio essere, ma esorta Iperione a non fermarsi a lei, a non accontentarsi di lei, a tornare alle proprie aspirazioni di rivoluzione, di rigenerazione del popolo greco, di cui deve essere l’educatore, dopo una necessaria esperienza propedeutica all’estero, in Italia, in Germania, in Francia accrescendo così se stesso, completando se stesso:
«”[…] Credimi, tu non avresti mai riconosciuto così chiaramente l’equilibrio della bella umanità, se non l’avessi tanto perduta. Il tuo cuore ha trovato finalmente la pace. Lo voglio credere; e lo comprendo. Ma tu pensi veramente di essere arrivato in fondo? Vuoi tu rinchiuderti nel cielo del tuo amore, e lasciare che il mondo che tanto bisogno di te si dissecchi e si ghiacci ai tuoi piedi? Come il raggio di luce, come la pioggia che tutto rinfresca, tu devi scendere giù sulla terra di ciò che è mortale, tu devi illuminare come Apollo, scuotere, vivificare come Giove; in caso contrario, non sei degno del tuo cielo. Ti prego, rientra ancora una volta in Atene e osserva gli uomini che si aggirano là, fra le rovine, i rozzi Albanesi e gli altri buoni, ingenui Greci che con un’allegra danza e una favola sacra si consolano della vergognosa violenza che su di loro pesa. Puoi tu dire: io mi vergogno di tale materia? Ritengo che possa essere ancora malleabile. Puoi tu allontanare il tuo cuore da chi è bisognoso? Non sono cattivi, non ti hanno fatto del male!”
“Che cosa posso fare per loro?” esclamai.
“Da’ loro ciò che hai in te,” rispose Diotima, “da’.”
[…] “Tu sarai l’educatore del nostro popolo, diventerai un grande uomo; lo spero. E quando ti abbraccerò così, allora sognerò di essere una parte dell’uomo magnifico, come se tu mi avessi donato la metà della tua immortalità, come Polluce a Castore, oh, sarò un’orgogliosa fanciulla, Iperione!”» (108-109).
Estranea a qualunque forma di egoismo, innatamente propensa al sacrificio, Diotima esorta Iperione a separarsi da lei per qualche anno, necessario alla sua completa formazione, per poi tornare da lei e dal popolo greco più forte, definitivamente forte. Le parole della donna hanno un influsso benefico immediato sul protagonista, che torna a osservare le rovine di Atene ma non più subendole, bensì dominandole, come un contadino osserva e domina il campo da dissodare:
«Stavo ora sulle rovine di Atene, come il contadino su di un campo da dissodare. Riposa ora tranquillo, pensavo, quando ci riimbarcammo, riposa tranquillo, o sonnecchiante paese! Presto rigermoglierà in te la giovane vita, e crescerai verso le benedizioni del cielo. Presto le nubi non verseranno più, invano, pioggia; presto ritroverà il sole gli antichi discepoli.
O natura, tu chiedi dove sono gli uomini? Tu ti lamenti come un’arpa sulle corde della quale giochi soltanto il vento fratello del caso, perché l’artista che sapeva usarla è morto? Ritorneranno i tuoi uomini, o natura! Un popolo ringiovanito ringiovanirà anche te e tu sarai come una sposa e si rinnoverà in te l’antica comunione degli spiriti.
Esisterà allora una sola bellezza; natura e umanità si fonderanno in una sola divinità, nella quale tutto sarà contenuto» (110).
L’amore non basta, o almeno non a un uomo come Iperione: è questo il senso più profondo delle parole di Diotima. Grazie all’amore di e per Diotima il protagonista ha ritrovato la pace, la serenità, l’armonia e la fiducia perdute in seguito alla separazione da Alabanda. Ritrovato se stesso, può tornare a pensare all’avvenire della Grecia, rafforzato dal legame con la donna affidatagli dal destino. È questo che vuole Diotima, incapace di accontentarsi di una gioia egoistica, personale, conoscendo il valore di Iperione. I due amanti decidono dunque di separarsi per qualche tempo per il bene della loro patria oppressa e imbarbarita. La separazione effettivamente ci sarà, ma per tutt’altro motivo rispetto a quello auspicato da Diotima, e non sarà temporanea, ma definitiva.
NOTE
[1] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Ovunque fuori posto: la triste storia del giovane Werther.
[2] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo L’Enrico di Ofterdingen. Un’analisi del romanzo di Novalis ispirata da Novalis stesso: Introduzione, Novalis contra Goethe, L’influenza di Jakob Böhme nell’Enrico di Ofterdingen, L’Enrico di Ofterdingen come opera conclusiva.
[3] Per un approfondimento sul grande drammaturgo e scrittore e alcune delle sue opere più significative rimando ai contributi La crisi kantiana di Heinrich von Kleist, La famiglia Schroffenstein. Alla scoperta della prima opera kleistiana, L’Anfitrione secondo Kleist. Là dove è concesso solo sospirare, La bestiale Pentesilea di Heinrich von Kleist, Sonnambulismo e devozione nella Käthchen di Kleist, Heinrich von Kleist – La marchesa di O…
[4] Friedrich Hölderlin, Iperione, traduzione e cura di Giovanni V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 2009, p. 25. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[5] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Alcune superflue considerazioni sul monumentale Faust di Goethe.
[6] «Ecco: ho studiato a fondo, ahimè, Filosofia, Diritto e Medicina; anche, pur troppo, la Teologia! Ho faticato e sudato. E mi trovo qui, povero pazzo, che ne so oggi quanto ne sapevo ieri. Mi chiamo Maestro, anzi Dottore; ma intanto sono ormai dieci anni, che porto per il naso in su e giù, per diritto e per traverso, i miei scolari. Per accorgermi, che tanto, non ne sapremo mai nulla» (Johann Wolfgang Goethe, Faust, traduzione e note di Guido Manacorda, BUR, Milano 2005, p. 33).
[7] Per un approfondimento sul saggio rimando al contributo Heinrich von Kleist, «Il teatro delle marionette»: il peso della coscienza.
[8] Per un approfondimento sul significato dei nomi dei personaggi del romanzo rimando al contributo La scelta dei nomi dei personaggi nel romanzo Hyperion di Friedrich Hölderlin. Prima parte, Seconda parte, Terza parte.