All’interno dello sterminato corpus novellistico di Pirandello, il racconto Padron Dio, contenuto nel volume Una giornata (1937), l’ultimo della serie Novelle per un anno, risplende come un piccolo diamante. Si tratta d’un racconto davvero straordinario, tolstoiano nella sua atmosfera biblica, fuori del tempo, assoluta e universale, e nel suo carattere di parabola, ma negativa, secondo quel cupo e disperante pessimismo caratteristico di Pirandello, che, sempre in ambito novellistico, trova nel racconto La trappola [1] – uno dei vertici massimi della narrativa breve d’ogni tempo e luogo – il suo esito definitivo e più estremo, sfociando dunque nel nichilismo (in questo senso il finale, per molti aspetti incomprensibile e ingiustificabile, di Uno, nessuno e centomila [2] rappresenta una drastica inversione di tendenza). Già l’incipit di Padron Dio, ferocemente tragicomico, umoristico secondo la terminologia pirandelliana, si distingue per un’esplosività rara, travolgente, imponendosi come uno degli avvii migliori concepiti dallo scrittore siciliano:
«Tanti anni fa, a un pittore non si sa donde venuto, egli che viveva da selvaggio su per le spalle dei monti, guardiano di mandrie, si era prestato a far da modello per una pala d’altare, di cui quegli preparava i cartoni e altri studii preliminari.
Che parte fosse destinato a rappresentare in quel quadro sacro, non si era neppur curato di sapere: si era lasciato vestire di strana foggia e atteggiar d’un gesto violento, con una verga in mano. Ma, poco dopo, consacrata la chiesa nuova, e accorso egli con tutto il popolo alla prima funzione, vedendosi nella pala effigiato in uno dei giudici che colpivan Gesù legato alla colonna, s’era messo a gridar furibondo e a piangere e a strapparsi i capelli, pestando i piedi per terra:
“Levatemi di lì! Son cristiano!”
Tratto fuori fra la confusione generale (risa di quelli che lo avevano ravvisato nella pala e domande e supposizioni disparate degli altri che non se n’erano accorti), non si era calmato e non aveva smesso la minaccia di uccidere quel pittore insolente, finché dal vecchio mansionario della nuova chiesa non aveva ottenuto la promessa d’un ritocco alla immagine di quel giudeo per modo che ogni somiglianza con lui fosse cancellata. Non pertanto, il nomignolo di Giudè gli era rimasto; e ora, dopo tant’anni, chiamavasi Giudè lui stesso» [3].
Vecchio, «il capo folto di capelli grigi, ricci, quasi ferruginei», oramai inadatto a condurre al pascolo le mandrie, dunque perfettamente inutile, nel suo stato selvaggio, di esclusione totale dal tessuto sociale, Giudè vive di elemosina, «senza mai chiederla, o meglio, chiedendola in un modo suo particolare»:
«Spinto dalla fame, dopo aver vagato come un cane randagio per le pianure deserte, si appressava a una villa e al primo contadino in cui s’imbattesse diceva:
“Di’ al tuo padrone che c’è l’esattore”.
Tutti adesso intendevano e sorridevano, ma la prima volta che il Giudè usò questa frase per la sua questua dovè spiegarla. E la spiegò così: che noi tutti sulla terra siamo inquilini del Signore, il quale sarebbe per ciascuno allo stesso modo buon padrone di casa, se molti uomini non si fossero fatta della terra casa propria, senza volere intendere né riconoscere ch’essa dovrebbe invece esser casa comune. Debbono però questi tali ricordarsi che il Signore è pur padrone di un’altra casa, di là (e il Giudè aveva additato il cielo), della quale vuol che ciascuno paghi anticipata qui la pigione. I poveri la pagano coi patimenti quotidiani del freddo e della fame; basta ai ricchi, per pagarla, che facciano ogni tanto un po’ di bene. Ecco dunque perché egli era pei ricchi l’esattore».
Compare in questo passo il tema dominante del racconto: il possesso della terra da parte dell’uomo, possesso indebito e ingiusto secondo il punto di vista di Giudè, grande emarginato, da sempre estraneo alla logica borghese del profitto, e per il quale, nella sua ignoranza ancestrale, l’unico vero padrone è Dio, Padron Dio appunto. Giudè è un senzatetto, la notte dorme in un casale smantellato e abbandonato, il giorno vaga per le campagne altrui, rimpiangendo gli alberi – un ulivo, un ciliegio, un nespolo, un melograno – piantati durante la vita, scavando e gettando il seme alla terra, e che pure non gli appartengono, appartenendo a chi possiede quel pezzo di terra sul quale ha buttato la sementa. Più di una volta lo trafigge un’idea: impossessarsi di nascosto di un lembo, un palmo di terra abbandonato, dimenticato e coltivarlo per sé:
«E se io […] da un lembo qui nel mezzo, che nessuno se n’accorga, strappo le male erbe, e vi butto un pugno di frumento, non mi darà questa terra un po’ di grano? Lo darebbe a me come a chiunque… Il padrone, ammesso che ci sia, è chiaro che ha sempre rinunziato a trar da questo podere qualsiasi profitto. Non sarà lo stesso per lui se in un pezzetto qui in giro, invece di sterpi inutili, crescerà un po’ di grano per me? Egli, queste terre le ha abbandonate, né io me le piglio: farò soltanto che un breve tratto di esse, almeno per una volta, invece di sterpi inutili produca grano… Del resto, chi è il padrone?»
Dio è il padrone, certo, indiscutibilmente. Così Giudè decide di mettere in pratica questa idea, e nelle sue elemosine ora, oltre solito tozzo di pane, domanda anche una manciata di frumento. Giudè raccoglie da seminare e intanto prepara il terreno, come può, servendosi di un logoro marrello, preso in prestito, che utilizza per estirpare le erbacce, e delle mani, con le quali scava il terreno. La terra è generosa con Giudè, nonostante i mezzi di fortuna: «con un gaudio che lo fece lagrimare, vide il grano sbullettare e poi dalla terra umida spuntar timide le prime pipite. Ah, ecco, ecco, la terra gli dava il grano! era suo!». Finalmente Giudè possiede qualcosa di suo, ed è incapace di staccarsi da quel palmo di terra, nonostante il maltempo, covando quasi con gli occhi quel suo grano, tremando insieme con le tenere foglioline avvivate dall’aura. Ma Giudè paga a caro, carissimo prezzo questa cura quotidiana e premurosa, paterna del suo grano: si ammala e si ritrova in ospedale. Durante la convalescenza fantastica del suo raccolto, lo sogna rigogliosissimo, sovrannaturale. Dimesso dall’ospedale, si reca subito nel suo palmo di terra, scorge già in lontananza il «biondeggiar del grano», ma all’improvviso le gambe gli cedono, le braccia gli cadono:
«Tutt’intorno alla messe quasi miracolosa (tanto era alta e folta!) correva una siepe; a un canto sorgeva un pagliajo, e un cane, udendo tra le erbacce oltre la siepe fruscio di passi, si mise a latrare.
Si affacciò alla siepe il contadino di guardia, con una mano a riparo degli occhi.
“Oh, benvenuto, Giudè! T’aspettavo… Dimmi che vuoi tu ora qui”.
Il Giudè, affranto dalla corsa e dal cordoglio, si pose a sedere per terra, calandosi pian piano, appoggiato al lungo bastone.
“Non voglio nulla…” poi disse, rattenendo le lacrime. “Quieta il tuo cane. Son venuto soltanto per vedere codesto miracolo: il grano che t’è nato solo, e così bello, da sé…”
“E di chi era la terra, Giudè?”
“Era di quest’erbacce qui, che non fanno pane…” rispose il povero vecchio. “Dillo, dillo al tuo padrone…”
E rimase a lungo lì, per terra, a guardar quelle spighe alte e piene, che, mosse dal vento, tentennando, pareva lo commiserassero».
Giudè agisce, prova a sovvertire il proprio destino di diseredato e la natura è generosa con lui, ma l’uomo no. L’uomo crudele, avido di profitti, cinge il miracolo con una siepe alta e folta facendolo suo. Una conclusione tragica. Un colpo mortale al vecchio Giudè. La morale? Dio è morto, e solo l’uomo è padrone; ma padroni si nasce, e tentare di sovvertire lo stato di cose, il proprio destino di schiavi, quando si è tali, conduce al fallimento e alla delusione. Meglio fare come Malpelo, ovvero arrendersi alla propria sorte di esclusione, di emarginazione, di schiavitù [4].
NOTE
[1] Per un approfondimento sulla novella rimando al contributo Luigi Pirandello: siamo tutti in trappola.
[2] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Luigi Pirandello, «Uno, nessuno e centomila»: dall’illusione alla dissociazione e infine alla dissoluzione.
[3] Le citazioni sono tratte da Luigi Pirandello, Una giornata, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2011.
[4] Per un approfondimento sulla novella di Verga rimando al contributo Quel «malarnese» di Malpelo.