«Certo, ve ne sono di occasioni troppo grandi perché si possano sfruttare, cose che di per sé sono destinate a fallire».
Scritto nel 1922 e pubblicato postumo, dall’amico Max Brod, nel 1926, anche Il castello, come Il processo [1] e La metamorfosi [2], le due più grandi opere di Kafka, si apre con il risveglio del protagonista, l’agrimensore K., dato narrativo che conferisce da subito un aspetto sognante, da incubo alla vicenda, tratto caratteristico dell’intera letteratura kafkiana: «Si è molto insistito […] sul carattere onirico della narrativa kafkiana. È innegabile. Anzi, non conosco nessun’altra narrativa dove l’oniricità sia così continua e persistente, permeativa e senza strappi. Tanto più che, con apparente contraddizione, Kafka non imita il sogno con deliri alati e stravaganze colorite, come certi favolisti o poeti romantici, ma ne fa l’anima e l’atmosfera di storie che, all’apparenza, sono tritamente e pedestramente reali, quotidiane, oggi diremmo quasi fotografiche. Il sogno, in Kafka, è quasi esclusivamente incubo, ossessione, ma di segno direi soave: un sogno che non fa quasi mai gridare terrorizzati, ma che ci pesa sui polmoni sino alle soglie dell’asfissia. Sogno, incubo liberatorio? Direi proprio di no. Al contrario, sogno, incubo che ci rivela sotterranei inferni che forse non avremmo scoperto in altro modo; e che perciò dà un aggravio di terrore. Ma sogno, incubo anche grottesco, in qualche misura “divertente”. Un impasto unico» [3]. Sulla presunta realtà delle storie kafkiane ci sarebbe da ridire: fortunatamente non è verosimile trasformarsi in un enorme scarafaggio da un giorno all’altro, né essere processati, condannati a morte e infine scannati come bestie senza alcun motivo, né restare intrappolati in un villaggio dove non c’è alcun bisogno di noi e dal quale potremmo fuggire in ogni istante se solo lo volessimo. Niente di reale, niente di normale in tutto questo. Ma ciò che più conta è l’imperturbabile normalità con la quale i personaggi di Kafka accolgono le loro assurde disavventure: emblematico, su tutti, il caso di Gregor Samsa, che non si stupisce, né tanto meno grida di terrore, della sua metamorfosi in disgustoso insetto. Ecco dunque che le storie kafkiane non sono reali in sé – in sé sono magnificamente assurde -, ma in rapporto ai loro personaggi, che le vivono, appunto, come reali, verosimili, naturali. Un ulteriore appunto: gli incubi di Kafka non sono in nessuna misura «divertenti», neppure tra virgolette, quanto piuttosto comici, e nel comico letterario, il comico della grande letteratura, non c’è mai niente di divertente, con il riso che s’impone come ulteriore spunto di riflessione, di riflessione problematica e critica, spesso ben più amaro e corrosivo di qualunque discorso serio o disperato.

Franz Kafka nel 1923
La realtà sociale nella quale si trova immerso K., giunto da un altro paese e da tutt’altra realtà, presenta due macro-livelli: in basso il villaggio, abitato per lo più da contadini, in alto il Castello, dimora dei Signori e dei funzionari appartenenti alla complessa macchina burocratica. Il primo è completamente subordinato, sottoposto al secondo: il villaggio è proprietà del Castello. Castello che K., assunto, almeno in apparenza, come agrimensore – la sua professione -, prova a raggiungere già il giorno successivo al suo arrivo, ma senza riuscirci. Sulla strada innevata e difficilmente praticabile che conduce all’alta costruzione – ben misera in realtà, «un insieme di casupole con la sola particolarità di essere costruite tutte in pietra» [4] – viene ricacciato indietro, alla Locanda del Ponte, la più umile del villaggio, dove per il momento ha trovato alloggio, dopo aver sperimentato peraltro l’ostilità istintiva dei contadini nei suoi confronti: «Il Castello là in alto, già stranamente scuro, che K. aveva sperato di raggiungere in giornata, si allontanava di nuovo. Quasi in segno di temporaneo commiato, risuonò da lassù un tocco di campana, gioioso e alato, un tocco, che, almeno per un attimo, gli fece tremare il cuore, quasi lo minacciasse, perché il rintocco era anche doloroso, l’adempimento delle sue incerte aspirazioni» (309). Ecco dunque che il Castello assume un significato esistenziale rispetto alla persona di K. Non si tratta solamente di lavoro, di carriera, non si tratta solamente di materiale contingenza, ma di qualcosa di ben più profondo riguardante l’individuo, profondo e impalpabile. L’intera vicenda si arricchisce di sfumature misteriose, indecifrabili. Il tempo stesso è misterioso, rispondendo a leggi proprie, che esulano dalle consuete. Così, quando K. torna alla Locanda del Ponte è già calata la notte, e non è stato fuori più di un’ora, al massimo due. Le leggi dell’incubo, completamente diverse rispetto a quelle della realtà. L’anarchia dell’incubo.
All’Albergo dei Signori, riservato esclusivamente ai Signori del Castello appunto, tramite tra l’alto e il basso, tra il Castello e il villaggio, K. incontra Frieda, responsabile della mescita e amante di Klamm, il superiore del protagonista. Frieda è una «biondina insignificante cogli occhi tristi e le guance incavate, che però sorprendeva per il particolare sguardo di superiorità» (320). L’orgoglio, un orgoglio così smisurato da risultare assurdo e ridicolo è il tratto caratteristico della donna. Durante l’amplesso K. prova una sensazione singolare, particolarissima in relazione al momento: «E lì passarono delle ore, ore di comune respiro, di palpito comune, ore in cui K. ebbe la sensazione di perdersi o di essersi così addentrato in un paese straniero come nessuno aveva osato prima, in una terra sconosciuta dove l’aria stessa non aveva alcun elemento comune con quella del paese natio, dove sembrava di soffocare, tanto si era estranei, e tuttavia non si poteva far altro, in mezzo a seduzioni così folli, che inoltrarsi ancora e continuare a smarrirsi» (323). Una sensazione di carattere generale, che descrive efficacemente la condizione in cui si trova K., straniero in un paese di cui ignora tutto, regole e tradizioni, diritti e doveri, nel quale orientarsi diviene un’impresa impossibile e ogni singola azione, ogni singolo movimento, ogni singola parola possono rappresentare un’infrazione. Frieda, sorprendentemente, decide di legarsi a K. e rinunciare così alla sua invidiabile posizione: amante di Klamm, perché per una donna del villaggio non c’è privilegio e onore più grande che diventare l’amante di un Signore, e responsabile della mescita dell’illustre Albergo dei Signori. Così, fatto giorno, la donna si trasferisce nella Locanda del Ponte in compagnia del protagonista.
Nonostante l’unione con Fieda, K. resta in quello stato di esclusione totale che segna la sua esperienza nel villaggio sin dal primo giorno, e che l’ostessa della Locanda del Ponte, protettrice di Frieda e come lei antica amante di Klamm, dunque principale nemica del protagonista, descrive così, in poche ma efficacissime parole: «Lei non è del Castello né del villaggio; lei non è niente» (327). Il soggiorno di K. si configura come una sorta di lotta contro il regolamento e la tradizione – a lui sconosciuti – per raggiungere il Castello. L’ostessa lo mette in guardia: «dovunque vada tenga sempre a mente il fatto che lei è il più ignaro di tutti, e sia prudente» (331). Si tratta di una lotta sottile, coperta, psicologica, oscura nella quale l’autorità adotta la seguente strategia:
«Essendo molto condiscendente verso K. nelle cose non essenziali – e finora non s’era trattato d’altro – l’autorità gli toglieva la possibilità di qualche piccola e facile vittoria e, con essa, anche la relativa soddisfazione e la ben fondata sicurezza che ne derivava per altre battaglie più importanti. Invece lasciava che K., entro i confini del villaggio, se ne andasse dove voleva viziandolo e indebolendolo, escludendo con ciò ogni contrasto e relegandolo a una vita torbida e strana al di fuori di quella ufficiale. In questo modo, se non stava continuamente all’erta, poteva accadere che un bel giorno, nonostante la cortesia dell’autorità e il totale adempimento di tutti i suoi doveri esageratamente facili, illuso dal favore che all’apparenza gli veniva mostrato, conducesse la sua vita privata con tanta imprudenza da fallire, e l’autorità, con la solita dolcezza e cortesia, quasi a malincuore, ma in nome di un qualche ordine pubblico a lui sconosciuto, fosse costretta a sbarazzarsene. E cos’era in fondo questa sua vita privata? Mai K. aveva visto il suo lavoro e la sua vita così intrecciati; tanto che a volte gli sembrava che vita e lavoro avessero invertito i ruoli» (332).
L’autorità sgretola, ma discretamente, a poco a poco, la sicurezza di K., lo indebolisce attraverso l’illusione, intrecciando lavoro e vita privata fino a renderli difficilmente distinguibili. Dunque, secondo queste parole, l’amore di Frieda per il protagonista non sarebbe spontaneo, frutto di un sentimento sincero, ma il risultato di un calcolo, di una decisione presa a tavolino, di una strategia insomma. La stessa facilità con la quale la donna si è lasciata conquistare da K., individuo infinitamente modesto rispetto a un qualunque funzionario del Castello, lascerebbe pensare questo, ma in ogni opera di Kafka il condizionale è d’obbligo, non vi è mai nulla di certo, l’assurdità domina incontrastata. Eppure K. non è giunto ai piedi del Castello di sua spontanea volontà, è stato convocato, o meglio, assunto in quanto agrimensore, perché dunque l’autorità dovrebbe sbarazzarsi di lui? In realtà K. viene a sapere dal sindaco del villaggio che nel Castello, nel suo territorio, non c’è alcun bisogno di un agrimensore, e che non ci sarà il benché minimo lavoro per lui. Il protagonista, dentro di sé, ne era già convinto, pur non avendoci mai pensato. L’incubo assume così contorni ben più netti e precisi: K. è in trappola. Il sindaco rivela a K. l’imbroglio burocratico di cui è vittima, un imbroglio che si trascina da anni e anni, e il protagonista accoglie il racconto con amaro divertimento: «Mi diverte […] solo perché mi dà l’idea di come un ridicolo imbroglio in certe circostanze possa decidere della vita di un individuo» (335). Dal colloquio con il sindaco emerge con chiarezza la situazione di K.: la sua nomina è frutto di un vecchio imbroglio burocratico, che nessuno è stato in grado di risolvere; nessuno lo trattiene al Castello ma nessuno vuole cacciarlo; K., da parte sua, non vuole e non può andarsene, per i sacrifici che ha fatto per lasciare casa, per il lungo e difficile viaggio, per le speranze risposte in questo impiego, per la totale mancanza di mezzi, per l’impossibilità di trovare ora al suo paese un lavoro equivalente, per il fidanzamento con Frieda, che intende sposare. K. pretende che gli sia resa giustizia. Per iniziativa del sindaco gli viene offerto il posto di bidello nella scuola del villaggio. K. vorrebbe rifiutare – inizialmente rifiuta, recisamente -, ma la volontà dell’ostessa di cacciarlo dalla Locanda del Ponte lo costringe ad accettare il posto. Almeno così lui e Frieda avranno un posto sicuro dove stare. K. regredisce così di un passo, il primo. Ma non demorde, il suo obiettivo resta avvicinarsi a Klamm per arrivare, tramite lui, al Castello. L’ostessa, la nemica, da parte sua, gli scaglia contro un’inquietante predizione: «Le sue azioni lasceranno tracce profonde sulla neve nel cortile, ma niente di più» (363).
Klamm assume quasi il valore conturbante di ossessione per K., che si avvede come fosse proprio la vicinanza di Klamm a regalare a Frieda quel fascino che lo ha sedotto così irresistibilmente. E ora che Frieda non è più accanto al Signore, ma a lui, il protagonista la vede sfiorire tra le sue braccia. La donna, che in numerose dichiarazioni si dimostra devota a K., asserisce che se lui vuole che restino insieme, debbano andare via, lasciare il villaggio e trasferirsi altrove. Emblematica, e al tempo stesso misteriosa, naturalmente, la risposta di K.: «Ma io non posso andarmene, sono venuto qui per restarci e ci resterò […] Cosa avrebbe potuto attirarmi in un paese desolato come questo se non il desiderio di rimanere?» (378). L’ostessa della Locanda del Ponte lavora ai fianchi di Frieda con lo scopo d’incrinare la sua fedeltà nei confronti di K.: «hai creduto di aver conquistato, con me, un’amante di Klamm e di possedere un ostaggio che potrebbe essere riscattato solo ad altissimo prezzo. E trattare sul prezzo con Klamm sarebbe il tuo unico scopo» (387). Per quanto K. neghi, in queste parole della fidanzata c’è qualcosa di vero.
K. scopre che Barnabas – il messaggero tra lui e Klamm – e la sua famiglia, le sorelle Olga e Amalia, sono in condizioni molto simili alle sue. In particolar modo neppure Barnabas, nonostante il ruolo ufficiale, ha una vera certezza: forse gli uffici che frequenta non sono i veri uffici del Castello; forse il Klamm con il quale si confronta non è il vero Klamm, il cui aspetto è mutevole nei racconti di coloro che lo hanno visto. Come K. anche Barnabas e Amalia sono animati da «aspirazioni disperate». Olga racconta al protagonista la storia di sua sorella Amalia: tre anni prima ha respinto il funzionario Sortini, che le ordinava di andare da lui a suon di minacce e di espressioni volgari. Disobbedendo all’ordine, ovvero al sistema feudale che lega Castello e villaggio e che si esercita innanzitutto proprio attraverso il possesso delle donne del popolo da parte dei Signori, strappando il biglietto in decine di pezzi e scagliandoli in faccia al messaggero, Amalia s’impone come l’autentica eroina del romanzo, ma a causa della sua ribellione sulla famiglia viene scagliata una vera e propria maledizione. Prima del grande rifiuto della fanciulla, la sua era un’importante famiglia borghese, punita ferocemente dall’autorità, gettata nel fango: «Chi si decide a disprezzarci entra immediatamente nella più alta società» (412), spiega Olga. Contro la famiglia di Amalia, la ribelle, viene azionata la macchina del fango e si moltiplicano i pettegolezzi sul suo conto, mentre tutti i componenti della famiglia sono condannati all’emarginazione, all’isolamento, all’esclusione. La famiglia di Amalia non ha la capacità, la forza di reagire, si abbandona al destino d’emarginazione, si rinserra in casa, senza che nessuno però glielo abbia espressamente ordinato, ed è così che il disprezzo generale si rafforza, così che la sentenza provvisoria, l’esclusione dalla comunità, diviene definitiva. Da questo momento la famiglia inizia le processioni, i pellegrinaggi al Castello per ricevere il perdono e la grazia. Tentativi vani, perché di fatto non c’è niente di ufficiale. Di certo poi non aiuta l’ottusità umana dei funzionari, che non comprendono altro oltre alla burocrazia – e agli istinti sessuali, evidentemente -: «I funzionari sono molto istruiti, ma la loro conoscenza è unilaterale, nella loro materia basta una parola perché comprendano tutto il nesso logico, ma su altre questioni puoi spiegare per ore, forse annuiranno cortesemente, ma senza afferrare una parola» (420). Come mostra la reazione della popolazione del villaggio al rifiuto di Amalia, il Castello è un morbo, castrante, schiavizzante, decerebrante di cui soffrono tutti gli abitanti del villaggio, un morbo inguaribile e che si trasmette per via ereditaria. Oltre ad Amalia solo K., in quanto straniero, ne è immune, ma per quanto tempo ancora? Le lettere recapitate da Barnabas a K. sono le prime che gli vengono affidate e rappresentano le prime incerte testimonianze d’indulgenza ricevute dalla famiglia dopo il rifiuto di Amalia. Per questo motivo il destino della famiglia è legato a K. e tutto converge su di lui. K. ha dunque una straordinaria importanza per la famiglia di Amalia, e soprattutto per Olga, l’unica che non si sia arresa, e per Barnabas, che sogna di fare carriera. Così è fondamentale per Olga assicurarsi il favore di K. Si apre dunque un altro fronte narrativo, che purtroppo però non conoscerà ulteriori sviluppi.
Lasciata la casa dei Barnabas, K. viene a sapere da uno dei due assistenti – fastidiosi e infidi come insetti -, Jeremias, che Frieda lo ha lasciato – considerando un tradimento imperdonabile la frequentazione di casa Barnabas – ed è tornata all’Albergo dei Signori, dove lo attende Erlanger, uno dei primi segretari di Klamm, che vuole parlare con lui. Nella pensione K. incontra Frieda e prova a farle cambiare idea, ma la donna, legata ora proprio a Jeremias, ribadisce che tra loro è finita. K., stanco morto, s’intrufola in una stanza e vi trova Bürgel, segretario del funzionario Friedrich. Bürgel si distingue per una insolita umanità, accoglie K. e lo invita a sedersi sulla sponda del letto per parlare un po’: il sonno perduto non lo ritroverà più e l’ora tarda – sono le quattro del mattino – impedisce a K. di essere ricevuto da Erlanger ormai. Bürgel si interessa alla sorte di K. e dichiara di essere pronto a occuparsi personalmente della questione, dimostrando di essere l’unico, oltre a K. e Olga, a mostrare una certa conoscenza dell’animo umano, così rara tra i burocrati. Il segretario esorta il protagonista a non lasciarsi intimorire dalle delusioni e a cogliere le occasioni. È questa l’occasione, il fulcro dell’intero romanzo per come ci è pervenuto, incompiuto. Bürgel rivela a K. la possibilità di sfruttare la debolezza notturna dei segretari presentandosi nel mezzo della notte senza essere annunciato, ciò che è appena accaduto, sta accadendo a K., che però, sfinito dalla stanchezza e dal rum, di cui s’è scolato una bottiglia intera poco prima, naufraga inesorabilmente nel sonno. Bürgel giunge persino a descrivere l’occasione nel dettaglio, rappresentando di fatto ciò che è appena accaduto, sta accadendo a loro due, e rivela come il funzionario sorpreso nel sonno non possa sottrarsi all’incarico, anzi, ne sia persino entusiasta:
«Immagini esattamente la situazione. Quella parte mai vista, sempre attesa, attesa con ansia e razionalmente sempre considerata irraggiungibile, quella parte è lì. Già la sola muta presenza è un invito a penetrare nella sua misera vita, a girarvi dentro come in un proprio possedimento e a soffrire con lei delle sue vane richieste. Quell’invito, nella notte tranquilla è irresistibile. Gli si ubbidisce ed ecco che si smette di essere un funzionario. Ci si trova in una situazione in cui diventa impossibile respingere un’istanza. A rigore, si è disperati; a maggior rigore si è molto felici. Disperati, perché starsene lì inermi e aspettare l’istanza della parte sapendo che, una volta ascoltata la si deve esaudire, anche se, per quanto è possibile giudicare, getterà nello scompiglio l’organizzazione burocratica; è certamente la cosa più grave che possiamo incontrare nell’esercizio delle nostre funzioni. Soprattutto perché – prescindendo da tutto il resto – in quel momento ci investiamo di un rango superiore, del tutto inconcepibile. La nostra posizione infatti non ci dà il diritto di esaudire istanze come quelle di cui si sta trattando, ma la vicinanza di questa parte notturna aumenta, in un certo senso, la nostra energia di funzionari, ci impegna a fare cose che sono fuori dalle nostre competenze; e, le realizziamo pure. Di notte, come i briganti nella foresta, la parte ci estorce sacrifici, di cui altrimenti noi non saremmo mai capaci; bene, è così finché la parte è presente, ci rafforza, ci costringe e ci pungola, e tutto si svolge quasi inconsapevolmente; ma come sarà poi, quando tutto sarà finito, quando la parte soddisfatta e indifferente ci abbandonerà e noi rimarremo lì, soli, inermi dinanzi al nostro abuso di potere. È addirittura impensabile! Tuttavia siamo felici. Come può essere autodistruttiva la felicità! Potremmo nascondere alla parte la situazione reale. Da sola essa non si accorge di niente. Esausta, delusa e insensibile per la sfinitezza e il disinganno crede, per chissà quale motivo indifferente e casuale, di essere penetrata in una camera diversa da quella in cui voleva entrare; se ne sta seduta, ignara e presa nei suoi pensieri, se ne ha, s’aggira attorno al suo errore o alla sua stanchezza. E non la si potrebbe lasciare così? No, non è possibile. Con la loquacità di chi è felice bisogna spiegarle tutto, descrivere dettagliatamente e senza tralasciare nulla cosa è successo e per quali ragioni, e quanto sia straordinaria e unica l’occasione offerta, come la parte si sia imbattuta in essa indifesa, come solo lei può esserlo, ma come ormai, se vuole può dominare tutto, signor agrimensore, e non deve fare nient’altro che presentare in qualche modo la sua istanza, di cui è già pronto, anzi, l’adempimento le corre incontro. Tutto questo le si deve spiegare: è un momento difficile per il funzionario. Ma anche quando questo è stato fatto, signor agrimensore, quando si è compiuto il necessario, ci si deve adattare e attendere» (449-450).
K., «parte notturna», ha l’occasione, l’occasione «straordinaria e unica», di presentare la sua istanza al segretario colto di sorpresa nel sonno e «dominare tutto», quell’istanza il cui adempimento gli corre incontro. Ma K. si addormenta, irrimediabilmente, e perde l’occasione. Dall’altra parte del muro Erlanger lo chiama, lo convoca per il colloquio programmato. Congedandosi dal protagonista, il benevolo Bürgel conferma che per K. il loro incontro ha rappresentato una enorme opportunità – l’opportunità della vita – sprecata (a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca, come si suol dire, ovvero: e se fosse stata l’autorità – Klamm – a far sì che K. si presentasse all’inatteso colloquio con Bürgel stanco morto?):
«No, non deve scusarsi della sonnolenza, e perché? Le forze fisiche hanno un limite; che colpa ne ha uno se quel limite per lui viene ad assumere un grande significato? Nessuna, certo. Il mondo si corregge così, da sé, durante il suo corso, e mantiene l’equilibrio. È un ordinamento eccellente, eccellente in modo inimmaginabile, sebbene sotto certi aspetti sia sconfortante. Be’, ora vada, non so perché mi guardi così. Se indugia ancora, Erlanger se la prende con me, e io vorrei volentieri evitarlo. Vada, dunque; chissà cosa l’attende di là, qui è pieno di occasioni. Certo, ve ne sono di occasioni troppo grandi perché si possano sfruttare, cose che di per sé sono destinate a fallire. Sì, è stupefacente» (450).
Non a caso a K., risvegliato di soprassalto, la stanza di Bürgel sembra ora «indescrivibilmente vuota». Si è svuotata dell’occasione. Erlanger comunica a K. l’ordine di far tornare Frieda alla mescita dell’Albergo dei Signori, perché il più piccolo cambiamento può irritare i funzionari – Klamm in questo caso -. Erlanger inoltre informa K. che facendo questo potrà trarre profitto per fare qualche passo in avanti. Informazione poco credibile. Il segretario di Klamm se ne va, K. no e la sua presenza illegale nel corridoio del dormitorio dei signori genera una vibrante protesta generale, manifestata a suon di scampanellii. A lui quel luogo è vietato, come a tutti gli abitanti del villaggio, che possono recarvisi solo per accogliere le rapide comunicazioni notturne: «L’atteggiamento di K. […] si sarebbe fatto beffe di tutte le misure precauzionali. Anche i fantasmi spariscono la mattina, ma egli era rimasto là, le mani in tasca come se attendesse, giacché non se ne andava, che ad andarsene fosse il corridoio con tutte le stanze e i signori» (456). Sono l’oste e l’ostessa dell’Albergo dei Signori a trascinarlo via e a spiegargli la sua colpa. Con la sua presenza nel corridoio K. ha rovinato il momento della giornata preferito dai signori, il mattino, e ha creato il caos durante la distribuzione mattutina dei documenti, cui a nessuno è concesso assistere, perché nessun signore e funzionario osava uscire dalla stanza per la sua presenza. Perché questo contegno? Perché la mattina appena svegli essi sono troppo pudichi per esporsi allo sguardo di estranei. Assurdo. Ridicolmente assurdo.
Alla mescita Pepi, la domestica che ha preso temporaneamente il posto di Frieda, rivela a K. la natura vanitosa e calcolatrice dell’oramai ex fidanzata. Se Frieda ha lasciato subito la mescita e Klamm per K., lo ha fatto solo ed esclusivamente per sollevare uno scandalo e concentrare l’interesse generale, pubblico su di sé, quell’interesse scemato per la stabilità della sua condizione. Parole che gettano ulteriori sospetti sulla sincerità di Frieda, del suo amore per K., e che si sommano all’ipotesi strategica dell’autorità. Pepi, che si vede ricacciata indietro, di nuovo all’infimo rango di domestica, e vede il suo sogno andare per sempre in frantumi, propone a K. di trasferirsi con lei dalle cameriere dell’Albero dei Signori, aiutandole nel lavoro e proteggendole, almeno fino all’arrivo della primavera. K. sembra accettare, ma si aprono altri due fronti: quello dell’ostessa dell’Albergo, che sembra volersi servire di K. perché capace di giudicare i suoi sfarzosi vestiti, e quello del vetturino Gerstäcker, che ha bisogno del protagonista per raggiungere Erlanger e gli offre un impiego come custode dei cavalli. In tutti e tre i casi, si tratta di un’ulteriore regressione sociale di K., che invece di elevarsi fino al Castello, precipita sempre più in basso, inesorabilmente. Termina qui il manoscritto.
Delle opere di Kafka è impossibile trovare una chiave interpretativa certa. La chiave non esiste, si può solo ipotizzare, e tutte le ipotesi, più o meno azzardate, più o meno funamboliche, sono giuste, tutte, al tempo stesso, sono sbagliate. Occorre partire sempre da questo presupposto quando si legge e analizza un’opera di Kafka, e a maggior ragione un romanzo incompiuto come Il castello. Possiamo però, con relativa certezza, individuare ed isolare dei temi principali, dominanti, su tutti il grande tema dell’assurdità, peculiarmente kafkiano. All’assurdità si affiancano, nel Castello, almeno altri due temi fondamentali: quello dell’esclusione, grande tema moderno, e quello del fallimento. K., straniero, escluso, fallisce sistematicamente, vede sistematicamente frustrate le sue aspirazioni, le sue ambizioni, una dopo l’altra – sua unica vittoria è la conquista di Frieda, avvolta però da numerose ombre, e che si conclude con una rapida separazione -, e il momento emblematico di questo destino di fallimento, di sconfitta del protagonista, è rappresentato dall’occasione persa con il segretario Bürgel, le cui pagine s’impongono come il fulcro narrativo e filosofico del romanzo per come ci è pervenuto. Ma, a ben vedere, le parole di commiato di Bürgel conferiscono al tema del fallimento una portata generale, al di là del caso particolare, individuale di K., legandolo ai limiti fisici dell’uomo: «No, non deve scusarsi della sonnolenza, e perché? Le forze fisiche hanno un limite; che colpa ne ha uno se quel limite per lui viene ad assumere un grande significato? Nessuna, certo. Il mondo si corregge così, da sé, durante il suo corso, e mantiene l’equilibrio. È un ordinamento eccellente, eccellente in un modo inimmaginabile, sebbene sotto certi aspetti sia sconfortante». Dove non può intervenire l’autorità, colta di sorpresa nella notte, durante il sonno e denudata, intervengono i limiti fisici dell’uomo. Sfinito, K. si addormenta e perde l’occasione della vita. Ma legare il fallimento del protagonista alla finitezza del suo corpo significa generalizzare il tema, estenderlo all’intero genere umano e stimolare l’idea «sconfortante» che il fallimento sia atavicamente connaturato alla natura umana, rappresentandone il destino, uno dei tanti destini negativi come il dolore, la morte e via dicendo. Il riso di K. che conclude Il castello può far pensare ch’egli abbia finalmente compreso questo e molto altro; ch’egli vada verso una rinuncia alle proprie aspirazioni irrealizzabili, che non lasciano altro che una traccia effimera sulla neve, una resa insomma, e acconsenta ad un adattamento pacifico, innocuo che ha il retrogusto amaro dell’omologazione e dell’asservimento. Non lo sapremo mai. Un’ipotesi come tante altre, giusta e sbagliata come tutte.
NOTE
[1] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Franz Kafka, Il processo: colpevole senza colpa e per legge di natura.
[2] Per un approfondimento sul racconto rimando al contributo La metamorfosi. L’incredibile risveglio di Gregor Samsa.
[3] Italo Alighiero Chiusano, Mostruoso raggiante castello, in Franz Kafka, Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi, Newton Compton editori, Roma 2013, p. 298.
[4] Franz Kafka, Il castello, traduzione di Giuseppe Porzi, in Id., Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi, cit., p. 304. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.