Heinrich von Kleist, «Il teatro delle marionette»: il peso della coscienza

Pubblicato nel 1810 nei «Berliner Abendblätter», Il teatro delle marionette, l’unico saggio firmato da Kleist, affronta il tema della grazia, al centro del dibattito estetico tedesco della seconda metà del Settecento – si ricordino gli importanti contributi di Winckelmann, che ne parla nella Storia dell’arte nell’antichità (1764) [1], di Wieland, che ne tratta nel Musarion (1769) e nelle Grazie (1770), di Klopstock, che celebra la grazia nella Repubblica dei dotti (1772), e soprattutto di Schiller, che all’argomento dedica il saggio Grazia e dignità (1793). Kleist si inserisce dunque all’interno di un dibattito diffuso e sentito, storico in una sola parola, ma, come ogni sua singola creazione, anche in questo caso si distingue per una originalità difficilmente eguagliabile, incomprensibile e indigesta ai contemporanei, mettendo al centro della propria riflessione sulla grazia una manifestazione ludica condannata categoricamente dalla censura, il teatro delle marionette appunto, per la sua volgare grossolanità tematica e linguistica, dunque collocando il discorso in basso, completamente al di fuori della sfera del sublime, liberando così il concetto di grazia da quello di moralità, di rettitudine morale, come fanno più o meno tutti gli autori sopracitati e soprattutto Schiller, che congiunge strutturalmente etica ed estetica – l’una è possibile solo in presenza dell’altra -. In questo modo Kleist ribalta l’idea di grazia accettata e diffusa in ambito estetico settecentesco, ribalta e, in definitiva, svuota e ridicolizza; una dissacrante operazione di capovolgimento (dall’alta spera del sublime ci si ritrova catapultati nel basso ventre dei contadini danzanti di Teniers) e svalutazione della tradizione, della classicità che rivela tutto il carattere alternativo e avanguardistico di Kleist (in questo senso resta emblematico e inarrivabile il ribaltamento del mito operato nella Pentesilea, la sua più grande tragedia [2]), non a caso recuperato, nel secolo successivo, il Novecento, dopo un lungo e ingiusto, per molti aspetti colpevole oblio, dall’alternativa e avanguardia espressionista.

Heinrich von Kleist

Il breve saggio si presenta sotto forma di dialogo, tra l’autore e il signor C., primo ballerino del Teatro dell’Opera della città di M… Ed è proprio quest’ultimo, con grande sorpresa del narratore, a sostenere la superiorità della marionetta, in fatto di leggiadria, di grazia, di efficacia artistica, su qualunque danzatore umano, anche il più talentuoso e dotato. La marionetta ha infatti un duplice vantaggio rispetto ai ballerini vivi, reali: l’impossibilità di muoversi in modo affettato (già Castiglione, nel XVI secolo, legava il concetto di grazia alla totale assenza di affettazione [3]) e l’essere «antigravi»:

«Vantaggio? Innanzitutto un vantaggio negativo, mio ottimo amico, che sarebbe quello di non muoversi mai in maniera affettata. Poiché, come Lei sa, l’affettazione si manifesta quando l’anima (vis motrix) si pone in un punto qualsivoglia che non sia il centro di gravità del movimento. E siccome il marionettista, mediante i fili e le cordicelle che manovra, non ha in fondo in suo potere nient’altro che questo centro, tutte le rimanenti membra sono, proprio come han da essere, morte, meri pendoli, e seguono soltanto la legge di gravità: è una splendida caratteristica, questa, che invano cercheremmo nella stragrande maggioranza dei nostri ballerini.
[…] C’è da aggiungere […] che questi fantocci hanno il pregio di essere antigravi. Non conoscono l’inerzia della materia, la proprietà che più di tutte si oppone alla danza, in quanto la forza che li solleva in aria è superiore a quella che li incatena alla terra. […] Al pari degli elfi, le marionette non hanno bisogno del suolo se non per sfiorarlo e per poter rianimare, grazie a quell’ostacolo momentaneo, lo slancio delle loro membra; il suolo occorre a noi invece perché su di esso riposiamo e troviamo ristoro alle fatiche della danza: momento che in sé, palesemente, non è vera danza, e che conviene abbreviare il più possibile poiché nulla può sortirne di buono» [4].

Si tratta di dichiarazioni davvero singolari, sorprendenti, che sbalordiscono l’autore e noi lettori, e che il celebre ballerino tenta di chiarire ricorrendo all’esempio biblico, in particolar modo all’episodio del peccato originale e della cacciata dal Paradiso terrestre di Adamo ed Eva narrato nel libro della Genesi. Il discorso si sposta così sui «gravi perturbamenti» recati dalla coscienza nella grazia naturale dell’essere umano. Due gli esempi riportati, il primo dall’autore, il secondo dal ballerino:

«”Stavo facendo un bagno” raccontai, “circa tre anni fa, con un ragazzo sulla cui figura era diffusa allora una meravigliosa leggiadria. Avrà avuto quindici anni, e solo assai vagamente si potevano scorgere in lui i primi segni della vanità suscitati dal favore delle donne. Per caso poco tempo prima avevamo visto insieme a Parigi la figura del giovanetto che si toglie una spina dal piede. Il calco di quella statua è conosciuto ovunque ed è possibile trovarne uno in quasi tutte le raccolte tedesche. Uno sguardo, che il ragazzo gettò in un grande specchio nell’attimo in cui stava appoggiando il piede su uno sgabello per asciugarselo, bastò a fargliela rammentare. Con un sorriso mi disse la sua scoperta. E in realtà, in quello stesso istante, l’avevo fatta anch’io; tuttavia, sia per verificare la tenuta della sua grazia innata, sia per contrastare, quasi a soccorrerlo, la sua vanità, scoppiai a ridere e replicai che di sicuro aveva preso un abbaglio. Lui, arrossendo, alzò il piede di nuovo per darmene una seconda prova; ma il tentativo fallì, come chiunque avrebbe potuto facilmente prevedere. Confuso, levò il piede per la terza, per la quarta volta, lo sollevò ancora per ben dieci volte: tutto fu inutile. Non era assolutamente in grado, non dico di riprodurre quello stesso movimento, ma addirittura le sue pose avevano un che di talmente buffo che io faticai a trattenere le risa.
“Da quel giorno, direi quasi da quell’istante, si verificò nel ragazzo un inesplicabile mutamento. Cominciò a sostare davanti allo specchio per giorni interi. E man mano, una dopo l’altra, tutte le sue attrattive lo abbandonarono. Una invisibile e inesplicabile violenza sembrava costringere il libero gioco dei suoi gesti come avvolgendoli in una rete metallica, e in capo a un anno non era più possibile scorgere in lui la benché minima traccia di quella amabilità che fino allora aveva deliziato la vista di tutti coloro che lo circondavano. Ancora oggi vive qualcuno che, avendo assistito a quel caso così singolare e infelice, potrebbe confermarlo parola per parola così come io l’ho narrato.”
“A questo proposito” disse amichevolmente il signor C… “devo raccontarLe un’altra storia, che, come Lei comprenderà facilmente, ben si adatta al nostro argomento.
“Mentre ero in viaggio verso la Russia, sostai nella tenuta del signor von G…, un nobiluomo della Livonia i cui figlioli allora si esercitavano assiduamente nell’arte della scherma. Specialmente il maggiore, che era appena ritornato dall’Università, si atteggiava a virtuoso e, una mattina ch’io mi trovai nella sua stanza, mi porse un fioretto. Avemmo un incontro; ma il caso volle che io gli fossi superiore, e a confonderlo del tutto si aggiunse la passione. Riuscivo a imbroccare quasi ogni colpo e alla fine il suo fioretto volò in un angolo. Lui, raccattandolo, disse, tra lo scherzoso e il risentito, di aver trovato il suo maestro; ma siccome, aggiunse, a questo mondo capita a tutti di trovarne uno, voleva condurre anche me dal mio. I fratelli scoppiarono in una gran risata e gridarono: ‘Su, forza, andiamo giù alla stalla!’ e prendendomi per mano mi condussero da un orso che il loro padre, il signor von G…, aveva fatto allevare nella masseria.
“L’orso, quando io stupefatto gli comparvi dinnanzi, stava ritto sulle zampe posteriori appoggiando il dorso ad un palo a cui era legato, la zampa destra levata pronta a colpire, e mi guardava fisso negli occhi. Era il suo modo di mettersi in guardia. Nel vedermi di fronte un simile avversario non sapevo se ero sveglio o se stavo sognando. Ma il signor von G… mi esortava: ‘Tirate! Tirate! Provate ad assestargli un colpo!’. Così, non appena mi fui rimesso un poco dal mio sbigottimento, mi avventai su di lui col fioretto; l’orso fece un movimento brevissimo con la zampa e parò il colpo. Tentai di distrarlo con delle finte; l’orso rimase immobile. Con mossa abile e repentina mi scagliai di nuovo su di lui, il petto di un uomo lo avrei colpito infallibilmente; l’orso fece un movimento brevissimo con la zampa e parò il colpo. Adesso ero quasi nelle condizioni del giovane signor von G… La serietà dell’orso contribuì a farmi perdere la calma, alternavo i colpi alle finte, grondavo sudore, ma tutto era inutile! Non solo l’orso, come il primo schermitore del mondo, parava tutti i miei colpi, addirittura non badava affatto alle mie finte (e in questo non c’è al mondo un solo schermitore che sappia stargli alla pari): gli occhi fissi nei miei occhi, come se in essi potesse leggermi l’anima, stava lì ritto, la zampa levata pronta a colpire, e quando le mie stoccate non erano intese sul serio, non si muoveva affatto”» [5].

Versione bronzea dello Spinario, conservata ai Musei Capitolini

Insomma, la coscienza rende goffi, pesanti, schiaccia a terra, mentre l’incoscienza, quell’incoscienza originaria per sempre perduta da Adamo ed Eva, rende lievi, leggeri, graziosi. È questa la conclusione cui giunge il ballerino: solamente l’incoscienza garantisce la grazia, la quale si manifesta, «più pura che mai», nella marionetta, completamente priva di coscienza, e in Dio, dotato al contrario di una «coscienza infinita». Per poter dunque tornare nello stato d’innocenza originario, pre-storico, dovremmo mangiare di nuovo dell’albero della conoscenza, e questo sarebbe «l’ultimo capitolo della storia del mondo»:

«”Ebbene, mio ottimo amico” disse il signor C…, “ora Lei è in possesso di tutti gli elementi che Le occorrono per comprendermi. Noi osserviamo che sempre, nel mondo organico, quanto più la riflessione si fa debole e oscura, tanto più fulgida e imperiosa campeggia la grazia. Tuttavia, come l’intersezione di due rette al di là di un punto dato, dopo aver traversato l’infinito, si ripresenta ad un tratto al di qua di tale punto, o come l’immagine di uno specchio concavo, dopo essersi allontanata nell’infinito ricompare ad un tratto vicinissima a noi, così la grazia si ripresenta una volta che la conoscenza sia passata per così dire attraverso un infinito; in modo che essa, la grazia, si rintraccia al tempo stesso, più pura che mai, in quell’umana struttura corporea che o non ha coscienza alcuna o ha una coscienza infinita, cioè nel pupazzo meccanico oppure nel Dio.”
“Dunque” dissi io un poco smarrito, “dovremmo di nuovo mangiare dell’albero della conoscenza per poter ricadere nello stato dell’innocenza?”
“Sicuro” fu la sua risposta; “è questo l’ultimo capitolo della storia del mondo”» [6].

La conclusione fornisce all’intero saggio una profonda e decisiva valenza filosofica, che va ben oltre la mera questione estetica della grazia, rappresentando «l’approdo di Kleist al nichilismo», quel nichilismo in cui convergono, più o meno apertamente, molte sue opere – su tutte la già citata Pentesilea, attraverso il finale sanguinoso e bestiale, che vede la regina delle Amazzoni sbranare, cagna tra le cagne, l’amato Achille – e la sua stessa vita, conclusa prematuramente con un colpo di pistola: «per progredire fino al divino e regredire a marionetta si dovrebbe commettere l’identico peccato che ha messo in moto la storia, la storia che in tal modo finirebbe? Ma le due mete opposte, marionetta e Dio, coincidono. È una totale astrazione e perciò un vuoto. È l’approdo di Kleist al nichilismo» [7].

Nel Teatro delle marionette Kleist, al di là del discorso estetico sulla grazia, denuncia, tra le righe, a un livello più profondo, tutto il peso della coscienza e la quotidiana fatica sostenuta dall’uomo per sopportarlo. Coscienza ovvero ragione ovvero anelito alla conoscenza e alla verità, quella conoscenza e quella verità irraggiungibili, come mostrato da Kant (la lettura del filosofo di Königsberg sprofonda Kleist in una vera e propria crisi, che spezza in due la sua vita e dalla quale scaturiscono tutte le sue opere [8]). L’uomo si ritrova così in uno stato di insoddisfazione, di infelicità, di vuoto permanente, irreversibile, quello stato disperato e disperante nel quale Goethe ci presenta Faust all’inizio del suo capolavoro [9] e che solo l’apparizione miracolosa di Mefistofele riuscirà a mettere in discussione.

NOTE

[1] Per un approfondimento sulle riflessioni estetiche ed artistiche di Winckelmann rimando al contributo Winckelmann al cospetto dell’Apollo del Belvedere, «il più alto ideale artistico».

[2] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo La bestiale Pentesilea di Heinrich von Kleist.

[3] «Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l’hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia […]» (Baldassar Castiglione, Il libro del cortegiano, Garzanti, Milano 2000, pp. 59-60).

[4] Heinrich von Kleist, Il teatro delle marionette, traduzione di Renata Colorni, in Id., Opere, a cura di Anna Maria Carpi, Mondadori, Milano 2011, pp. 1016-1017.

[5] Ivi, pp. 1018-1020.

[6] Ivi, pp. 1020-1021.

[7] Anna Maria Carpi, Notizie sui testi e note di commento, in Heinrich von Kleist, Opere, cit., p. 1282.

[8] Per un approfondimento sul tema rimando al contributo La crisi kantiana di Heinrich von Kleist.

[9] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Alcune superflue considerazioni sul monumentale Faust di Goethe.

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