Nikolaj Gogol’, «Il Cappotto»: storia straordinaria del consigliere titolare Akakij Akakievič Bašmačkin

Protagonista del celebre racconto di Nikolaj Gogol’ Il cappotto (1842) è un tipico impiegato pietroburghese, la cui modestia esteriore, estetica è il primo segno di una modestia ben più ampia e profonda, esistenziale, che, come tale, caratterizza ogni singolo aspetto della vita dell’individuo: «bassino di statura, un po’ butteratino, un po’ rossiccio, dall’aria perfino un po’ miope, piuttosto stempiato, con rughe ai due lati delle guance e quel colorito del viso che suol dirsi emorroidale…» [1]. Si tratta di un tipo caratteristico, peculiare della fauna burocratica della capitale, tra i soggetti privilegiati della grande letteratura russa del XIX secolo, e si pensi agli indimenticabili impiegatucci del primo Dostoevskij, Makar Devuškin in Povera gente e Jakov Goljadkin nel Sosia [2]. Nella fattispecie, l’impiegato di Gogol’ è il cinquantenne consigliere titolare Bašmačkin, Akakij Akakievič Bašmačkin. Nessuno nel suo dipartimento gli porta il minimo rispetto: gli uscieri non lo degnano di uno sguardo, i superiori lo trattano con gelido dispotismo, i colleghi più giovani, naturalmente, lo deridono. Akakij Akakievič, da parte sua, non risponde mai nulla, non reagisce, resta impassibile, imperturbabile, sempre perfetto nel suo lavoro di copista. Solo se lo scherzo di un giovane collega è proprio insopportabile, ovvero rischia di fargli commettere un errore di copiatura, si permette di protestare: «Lasciatemi in pace, perché mi offendete?». Parole nelle quali in realtà riecheggia una vibrante rivendicazione di umana dignità, ferita e offesa dalla simpatica burla: «Sono tuo fratello».

Akakij Akakievič vive per il suo lavoro come nessun altro, non presta servizio con zelo, ma con amore, provando un piacere sconfinato. All’infuori del suo impiego non vede e non sente nulla, e se qualcuno in strada getta l’immondizia dalla finestra cogliendolo in pieno, come gli accade spesso – è il suo «dono particolare» capitare proprio lì proprio in quel momento – non se ne cura affatto, le bucce d’anguria e di melone restano ben piantate sul suo cappello. Il mondo di Akakij Akakievič è fatto di righe, di quelle sue righe pulite, scritte con quella sua calligrafia perfettamente regolare. Non c’è spazio per nient’altro. Egli non si concede svaghi, mai, ma scrive, scrive sempre, anche a casa, dove si porta il lavoro dall’ufficio. Quando è sazio di copiare se ne va a dormire. Punto, tutto qui. Insomma, Akakij Akakievič si trova immerso in una propria realtà, una realtà differente da quella degli altri, in cui ogni possibilità di comunicazione è, di fatto, abolita. Non c’è un’effettiva comunicazione tra queste due realtà, come dimostrano evidentemente le difficoltà di espressione, di linguaggio del protagonista: «Akakij Akakievič si esprimeva prevalentemente con preposizioni, avverbi e infine con certe particelle che non hanno nessunissimo significato. Se poi l’affare era molto difficoltoso, aveva addirittura l’abitudine di non terminare le frasi, sicché spessissimo, iniziato il discorso con le parole: “Ecco, cioè certo che proprio…”, lo lasciava sospeso così, ed egli stesso se ne dimenticava, pensando di aver già detto tutto». Il linguaggio di un personaggio è sempre indicativo, ed Akakij Akakievič è come se fosse sprovvisto di una reale facoltà di linguaggio. Un aspetto che rivela, forse più di ogni altro, oltre alla sua irriducibile inadeguatezza, il suo altrettanto irriducibile stato di estraneità, di alienazione rispetto alla realtà.

La quiete perfetta, ideale, irreale di fatto, in cui vive Akakij Akakievič è rotta, spezzata all’improvviso, con brutalità, dalla necessità, la necessità di comprarsi un cappotto nuovo, con l’ostile clima pietroburghese che rende completamente inservibile la sua vecchia, lisa e bucata palandrana proverbiale oggetto di derisione da parte dei colleghi (come l’incapacità di esprimersi, di comunicare, che una circostanza solitamente insignificante sconvolga nel profondo e irrimediabilmente il protagonista, dimostra quanto sia radicata la sua alienazione rispetto alla realtà). La necessità annienta di colpo la serenità ideale di Akakij Akakievič e Akakij Akakievič stesso, che però a questa necessità finisce per piegarsi, facendo economia, digiunando ogni sera, per mettere da parte il denaro necessario all’acquisto di un nuovo cappotto. Il nuovo cappotto, o meglio, l’idea del nuovo cappotto, agisce profondamente su di lui e in lui, lo cambia perfino, rendendolo più deciso di carattere e, incredibile ma vero, distratto sul lavoro:

«Da quel momento fu come se la sua esistenza fosse diventata più completa, come se si fosse sposato, come se con lui ci fosse un’altra persona, come se non vivesse più solo, ma un’amabile compagna avesse acconsentito a percorrere insieme a lui la strada della vita, – e questa compagna altri non era che quel cappotto ben imbottito di ovatta, dalla solida fodera indistruttibile. Era quasi diventato più vivace, perfino più deciso di carattere, come un uomo che si è già definito e prefisso uno scopo. Dalla sua faccia e dai suoi gesti scomparvero automaticamente il dubbio, l’incertezza: insomma tutti i tratti esitanti e imprecisi. In certi momenti un fuoco gli si accendeva negli occhi, nel capo gli balenavano perfino i pensieri più temerari e audaci: e se ci avesse davvero messo un bavero di martora? Poco mancò che queste riflessioni lo rendessero distratto. Una volta, ricopiando una carta, per poco non fece addirittura un errore, tanto che esclamò quasi ad alta voce “uh!” e si fece il segno della croce».

Il pensiero del nuovo cappotto rende Akakij Akakievič meno modesto, nello spirito e nell’aspetto, più umano se vogliamo, e quando finalmente, dopo mesi e mesi di sacrifici, di digiuni, il suo sogno diviene realtà, indossa il tanto sospirato indumento con emozione e solennità. Il nuovo cappotto s’impone da subito come una sorta di passepartout sociale, che garantisce ad Akakij Akakievič addirittura un invito a una serata organizzata da un vicecapoufficio per il suo onomastico. Così, per la prima volta nella sua vita, dopo il lavoro il protagonista non se ne resta a casa a ricopiare carte, ma esce con i colleghi. Un evento davvero incredibile. Akakij Akakievič abbandona così la propria irrealtà per immergersi nella realtà degli altri. Un passo che paga a carissimo prezzo. Di ritorno dall’allegra serata infatti, due manigoldi lo rapinano in strada, rubandogli il cappotto. Il furto sconvolge completamente il protagonista – ancor più della necessità -, che il giorno seguente al fattaccio non si reca neppure a lavoro, «caso unico nella sua vita». Akakij Akakievič, disperato, segue il consiglio di un collega mosso a compassione dal suo triste caso, e si rivolge a un fantomatico «personaggio importante» per ritrovare il suo cappotto, un generale malato di manie di grandezza, che lo umilia e lo tramortisce senza pietà, come nessuno ha mai fatto prima. Il protagonista se ne torna a casa, moralmente distrutto e per di più sferzato da tutti i lati dal gelido vento pietroburghese, implacabile. La sua vecchia palandrana, lisa e bucata, che ha ripreso il posto del nuovo cappotto, non lo protegge affatto ed egli si becca un gran febbrone. L’ostile clima pietroburghese aggrava in fretta la malattia e il medico trova Akakij Akakievič bell’e spacciato. Nel delirio il protagonista è tormentato dal pensiero del cappotto, tutte le sue orribili visioni, che lo portano persino alla blasfemia, alla bestemmia, ruotano attorno al cappotto. Alla fine Akakij Akakievič spira, lasciando senza eredi il suo misero patrimonio: un mazzo di penne d’oca, cinque quinterni di fogli protocollo bianchi, tre paia di calzini, due o tre bottoni staccatisi dai pantaloni e la vecchia palandrana lisa e bucata. Ecco tutto quel che resta del modesto consigliere titolare Akakij Akakievič Bašmačkin, innocuo e insignificante, senza che nessuno si sia accorto della sua scomparsa, così come nessuno, di fatto, si è accorto della sua esistenza:

«E Pietroburgo rimase senza Akakij Akakievič, come se non ci fosse neppure mai stato. Scomparve e svanì un essere che nessuno difendeva, che a nessuno era caro, che non interessava a nessuno e non aveva neppure attirato l’attenzione del naturalista, il quale non trascura di infilzare su uno spillo una comune mosca per osservarla al microscopio; un essere che aveva sopportato docilmente le beffe di cancelleria ed era sceso nella fossa senza aver compiuto alcuna azione straordinaria, ma per il quale tuttavia, benché solo alla fine dei suoi giorni, era balenato un ospite luminoso sotto forma di quel cappotto che aveva ravvivato per un attimo la sua povera esistenza, e sul quale poi altrettanto insopportabilmente si era abbattuta la sventura, come si abbatte sugli zar e sui grandi del mondo…».

Il cappotto è stato dunque per Akakij Akakievič un «ospite luminoso», che ha ravvivato per un «attimo la sua povera esistenza», decretandone però, al tempo stesso, la rapida e prematura fine. Una fine inevitabile dopo il furto del cappotto, come appare inevitabile la fine di Piskarëv nella Prospettiva Nevskij [3] dopo la perdita definitiva dell’ideale incarnato dalla sconosciuta. Casi analoghi, che riguardano personaggi analogamente singolari, immersi in una ir-realtà parallela che va per sempre in frantumi una volta costretta a fare i conti con la realtà autentica, vera, un muro indistruttibile contro il quale entrambi si schiantano violentemente perdendo la vita. Acquistando il cappotto nuovo, senza limitarsi all’acquisto, come tutti, ma fantasticando per mesi e mesi su di esso, quasi si trattasse davvero di una donna amata, Akakij Akakievič si permette un lusso che la sua esistenza misera – tale per il decreto imperscrutabile del destino – non può sostenere. Per questo motivo la sua fine è inevitabile. Il protagonista, per la prima volta nella sua vita, si è spinto oltre, oltre se stesso e la sua esistenza misera, pagando a carissimo prezzo questa incursione improvvida nell’ignoto. Il destino non perdona, mai. Si prende gioco dell’uomo fino in fondo e, dopo aver fatto assaporare ad Akakij Akakievič una gioia dolcissima e insperata, imprevista, lo abbatte con crudeltà e ferocia, una crudeltà e una ferocia diaboliche. Del resto, come scrive Baudelaire, è il diavolo a tenere i fili che ci muovono [4], quello stesso diavolo che, calata la sera, accende personalmente i lampioni della prospettiva Nevskij.

Ma al povero Akakij Akakievič – ed è questo a rendere la sua storia davvero straordinaria – Gogol’ dona il conforto di una rivincita, di una vendetta postuma, sotto forma di spettro che semina il panico per le strade di Pietroburgo rubando i cappotti ai passanti. E vittima del fantasma dell’impiegato è anche, soprattutto, quel fantomatico «personaggio importante», quel generale che lo ha umiliato, strapazzato, moralmente annientato come mai nessuno aveva fatto prima, in uno slancio di crudeltà gratuita davvero ingiusta, disonesta, colpevole, perché rivolta a un uomo innocuo come nessun altro («Lasciatemi in pace, perché mi offendete?» ovvero «Sono tuo fratello»): «Ah! Eccoti finalmente! Finalmente, cioè, ti ho acciuffato per il bavero! Proprio del tuo cappotto ho bisogno! Per il mio non hai voluto darti da fare, e per giunta mi hai strapazzato – ora dammi il tuo!». Consumata la sua vendetta, sfoderando inoltre una chiarezza linguistica davvero invidiabile, lo spettro di Akakij Akakievič può svanire nel nulla, protetto dal suo nuovo cappotto – il cappotto di un generale, questo sì impreziosito da un bavero di martora.

NOTE

[1] Le citazioni sono tratte da Nikolaj Gogol’, Racconti di Pietroburgo, traduzione di Emanuela Guercetti, BUR, Milano 2011.

[2] Il fatto che si tratti dei primi due romanzi di Dostoevskij dimostra come egli, in veste di scrittore, riprendendo una sua nota dichiarazione, sia uscito davvero dal Cappotto di Gogol’. Per un approfondimento sulle due opere rimando ai contributi Fëdor Dostoevskij, «Povera gente»: la nascita del genio, Fëdor Dostoevskij, «Il sosia»: l’annientamento del signor Goljàdkin, il primo uomo del sottosuolo.

[3] Per un approfondimento sul racconto rimando al contributo Nikolaj Gogol’, «Prospettiva Nevskij»: l’uomo irriso dal destino.

[4] Charles Baudelaire, Al lettore, in Id., I Fiori del Male, v. 13.

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