Lesser Ury, Hochbahnhof Bülowstraße bei Nacht, 1922

Louis-Ferdinand Céline, «Viaggio al termine della notte»: l’uomo denudato

«L’uomo è nudo, spogliato di tutto, perfino della fede in se stesso. Questo è il mio libro».

Louis-Ferdinand Céline

I. La critica spietata, feroce, violenta dell’intero Occidente e dell’intero genere umano, nessuno escluso, neppure se stesso, anche se attraverso la mediazione creativa di un protagonista-narratore dal cognome diverso dal proprio, Bardamu e non Destouches, denudato senza alcuna pietà, «spogliato di tutto», ora con serio ora con comico disprezzo, mostrato in tutta la sua miseria, la sua piccolezza, la sua insignificanza, la sua meschinità, la sua brutalità, la sua debolezza, la sua inadeguatezza e via dicendo, s’impone come il principale motivo tematico e filosofico-morale di Viaggio al termine della notte, il primo romanzo di Céline. Motivo sviluppato attraverso uno stile di scrittura che rappresenta un vero e proprio fenomeno letterario. Céline lascia che il linguaggio colloquiale quotidiano erompa e dilaghi sulla pagina senza filtri, senza mediazioni, libero da inutili ed edulcoranti orpelli rettorici, travolgendo ogni cosa. Ma la sua scrittura barbara, dissacrante, violenta come il suo secolo, non è affatto immediata, naturale, automatica, bensì frutto di un lavoro letterario preciso, accurato, elaborato, come spiega Céline stesso nel 1947 al giovane professore americano Milton Hindus:

«Far passare il linguaggio parlato in letteratura – non è questione di stenografia – Alle frasi, ai periodi, occorre imprimere una certa deformazione, un artificio tale che quando uno legge il libro gli sembri che gli si stia parlando all’orecchio – Si arriva a questo mediante una trasposizione di ciascuna parola che non è mai del tutto quella che ci si aspetta, una sorpresina. È quello che accade a un bastone immerso nell’acqua; perché appaia diritto bisogna spezzarlo un pochettino prima di immergerlo, deformarlo preventivamente, se così si può dire. Un bastone regolarmente diritto invece, immerso in acqua, allo sguardo sembra piegato. Lo stesso vale per il linguaggio – il più vivace dei dialetti, stenografato, risulta sulla pagina piatto, complicato e pesante – Volendo rendere per scritto l’effetto di spontaneità della vita parlata bisogna torcere la lingua in puro ritmo, cadenza, parole, ed è una sorta di poesia che produce un grande sortilegio – l’impressione, il fascino, il dinamismo – e poi occorre scegliere il proprio soggetto – Non tutto si può trasporre» [1].

La scrittura di Céline è esplosiva, ma non naturalmente dunque, come un vulcano in attività, bensì artificialmente, come un ordigno confezionato ad arte da un esperto bombarolo. L’effetto è devastante: qualunque mito legato all’uomo – religioso, sociale, politico, filosofico – viene spazzato via, distrutto, annientato. Il genere umano resta nudo, svergognato, umiliato, mostrandosi per quello che effettivamente è: uno scandalo, che può suscitare a volte disprezzo, a volte riso, ma mai pietà.

Céline nel 1932, anno di pubblicazione del Viaggio

II. Dopo un brevissimo preludio propedeutico, necessario a familiarizzare con la scrittura barbara di Céline, veniamo subito scagliati, insieme con il protagonista del Viaggio, Ferdinand Bardamu, vent’anni appena, nell’incubo della guerra, di cui il narratore sottolinea immediatamente l’assurdità, l’insensatezza: «Lui, il nostro colonnello, sapeva forse perché quei due là sparavano, i tedeschi forse anche loro lo sapevano, ma io, veramente, non lo sapevo. Per quanto lontano cercassi nella memoria, gli avevo fatto niente io ai tedeschi» [2]. Immerso nell’inferno delle Fiandre, esposto a una pioggia metallica di proiettili che non ha bisogno di nubi per scatenarsi – o forse sarebbe più giusto dire che le nubi sono nei cervelli dei soldati -, Bardamu si scopre così insignificante come mai prima nella sua giovane vita: «Mai mi ero sentito così inutile come in mezzo a tutte quelle pallottole e le luci di quel sole. Una immensa, universale presa in giro» (19). La guerra è l’evento che spacca in due la vita di Bardamu, segnandola negativamente per sempre: «Non crederò più a quello che dicono, a quello che pensano. È degli uomini e di loro soltanto che bisogna aver paura, sempre» (22). È qui e ora, nell’esperienza-limite della guerra, assurdamente, insensatamente feroce che nasce quella critica dell’intera civiltà occidentale e dell’intero genere umano che s’impone come il motivo tematico e filosofico-morale principale del Viaggio. La fiducia nell’uomo, dunque anche in se stesso, si sgretola per sempre, lasciando spazio a una consapevolezza disperata e disperante che sfocia inevitabilmente nel nichilismo. Morto Dio resta l’uomo. Morto l’uomo, in trincea, resta il nulla. Questa la conoscenza negativa di Céline-Bardamu.

Viaggio al termine della notte ovvero viaggio al termine della guerra. La guerra è la notte, una notte lunghissima funestata dall’incubo della morte, una morte assurda e insensata per di più: «Di tutta quell’oscurità così spessa che ti sembrava di non rivedere più il braccio quando lo stendevi un po’ più in là della spalla, io sapevo una cosa soltanto, ma proprio quella con assoluta sicurezza, ed è che conteneva delle volontà omicide spaventose e innumerevoli» (32). La morte è ovunque in agguato nella notte. Ti attende dietro un albero o dietro un muro, trasportata da una pallottola o da una granata e non puoi scappare. Puoi solo restare lì e attendere se sarai la prossima vittima delle innumerevoli volontà omicide – migliaia di soldati come migliaia di piccoli angeli sterminatori appostati nella notte – oppure il fortunato sopravvissuto che potrà testimoniare al mondo intero quanto faccia schifo il genere umano.

Il Viaggio è il primo risultato letterario, narrativo di quella conoscenza negativa acquisita da Céline-Bardamu sul campo – e dopo le Fiandre verranno l’Africa, gli Stati Uniti, la Francia proletaria prima e pazza poi -, frutto di una ragione morale ed etica che può passare inosservata, sommersa dalla scrittura barbara, talvolta maleducata dell’autore e dal suo nichilismo spesso cinico, beffardo e compiaciuto di sé, ma che esiste, costituendo la vera e propria spina dorsale dell’opera: «La grande sconfitta, in tutto, è dimenticare, e soprattutto quel che ti ha fatto crepare, e crepare senza capire mai fino a qual punto gli uomini sono carogne. Quando saremo sull’orlo del precipizio dovremo mica fare i furbi noialtri, ma non bisognerà nemmeno dimenticare, bisognerà raccontare tutto senza cambiare una parola, di quel che si è visto di più schifoso negli uomini e poi tirar le cuoia e poi sprofondare. Come lavoro, ce n’è per una vita intera» (33). Raccontare tutto senza cambiare una parola, di quel che si è visto di più schifoso negli uomini: la ragione della scrittura di Céline, della sua letteratura, in senso ampio, complessivo, totalizzante, al di là del solo Viaggio. Ragione profondamente etica, morale, propria di chi sa come dovrebbero andare le cose ed è brutalmente costretto a constatare come invece vada tutto al rovescio, come se l’uomo ci provasse un certo qual gusto macabro e malato a torturarsi.

III. Ferito gravemente, Bardamu lascia il fronte, quel «mestiere d’essere ammazzati», e rientra a Parigi per la convalescenza. Ha una storia con Lola, giovane americana responsabile delle frittelle, così superficiale da rasentare la stupidità – del resto, come scrive Baudelaire, «Amare le donne intelligenti è un piacere da pederasta» [3] -: «Lola era con le mode morte che avvertiva il fuggire degli anni» (67). Bardamu, dopo essersi imbattuto, durante una passeggiata in compagnia di Lola, in una vecchia bancarella dismessa del tiro a segno, la cui vista lo rende di fatto consapevole che non si libererà mai dell’incubo della guerra, perde la testa: «È proprio a partire da quel momento, credo, che la mia testa è diventata così difficile da tener tranquilla con le sue idee dentro» (70). Da questo momento Bardamu sprofonda in uno stato d’inquietudine perenne, irreversibile; la guerra gli è entrata dentro come un male incurabile e non lo lascerà più; la notte lo ha avvolto e ricoperto come un secondo strato di pelle. Viene ricoverato in un liceo riservato ai feriti con disturbi psichici. Queste le possibilità dei loro destini: il manicomio, il ritorno al fronte, più spesso la condanna a morte. «Quando è arrivato il momento del mondo alla rovescia, e sei pazzo se domandi perché ti ammazzano, diventa evidente che passi per matto con poca spesa» (75).

Sin dall’inizio del romanzo Bardamu non ha alcun timore, non ha alcuna vergogna di confessare la propria paura – la consapevolezza della propria debolezza è la sua grandezza – con la guerra che lo precipita, come abbiamo già rilevato, in un nichilismo disperato e disperante che non salva niente e nessuno, in primis se stesso. È quanto emerge dal seguente colloquio, davvero fondamentale, con Lola, che va a trovarlo all’istituto:

«È vero che sei proprio diventato pazzo, Ferdinand? mi chiese lei un giovedì.
-Lo sono! confessai
-Allora ti cureranno qui?
-Non si cura mica la paura, Lola.
-Hai dunque così tanta paura?
-Anche molta di più Lola, così paura, vedi, che se muoio di morte naturale, io, più avanti, voglio soprattutto che non mi brucino. Vorrei che mi lasciassero nella terra, a marcire al cimitero, tranquillamente, là, pronto a rivivere, forse… Chissamai! Mentre se mi riducono in cenere, Lola, tu capisci, sarebbe finita, proprio finita… Uno scheletro, malgrado tutto, assomiglia ancora un po’ a un uomo… È sempre più pronto a rivivere che delle ceneri… Le ceneri è finita!… Che ne dici?… Allora, nevvero, la guerra…
-Oh! Ma allora sei proprio un vigliacco, Ferdinand! Tu sei ripugnante come un topo…
-Sì, assolutamente vigliacco, Lola, rifiuto la guerra e tutto quel che c’è dentro… Non la deploro, io… Non mi rassegno, io… Non mi piagnucolo addosso, io… La rifiuto recisamente, con tutti gli uomini che contiene, voglio averci niente a che fare con loro, con lei. Fossero anche novecentonovantacinque milioni e io solo, sarebbero loro che hanno torto, Lola, e io che ho ragione, perché sono il solo a sapere quel che voglio: non voglio più morire.
-Ma è impossibile rifiutare la guerra, Ferdinand! Ci son solo i pazzi e i vigliacchi che rifiutano la guerra quando la loro Patria è in pericolo…
-Allora vivano i pazzi e i vigliacchi! O piuttosto sopravvivano i pazzi e i vigliacchi! Ti ricordi un solo nome per esempio, Lola, di uno dei soldati ammazzati nella guerra dei Cent’anni?… Hai mai cercato di conoscere uno solo di quei nomi?… No, vero?… Hai mai cercato? Ti sono altrettanto anonimi, indifferenti, e sconosciuti quanto l’ultimo atomo di questo fermacarte davanti a noi, quanto la tua cacca mattutina… Vedi allora che sono morti per niente, Lola! Per assolutamente niente di niente, ‘sti cretini! Te lo dico io! Abbiam fatto la prova! Non c’è che la vita che conta. Fra diecimila anni, ci scommetto che questa guerra, per quanto sublime ci sembri adesso, sarà completamente dimenticata… Sarà tanto se una dozzina di eruditi s’accapiglieranno ancora qua e là, circa le date delle principali ecatombi che la resero famosa… È tutto quel che gli uomini son riusciti fin qui a trovare di memorabile su questo e quello a distanza di qualche secolo, qualche anno e perfino a qualche ora… Io non credo all’avvenire, Lola…» (76-77).

Lola, la superficiale e sciocca Lola, patriottica a buon mercato, a colpi di frittelle che hanno il solo effetto collaterale di farla ingrassare, se ne va, disgustata, senza dire niente al suo uomo: «Decisamente le era impossibile ammettere che un condannato a morte non avesse anche la vocazione» (77).

Le guerre non scoppiano mai all’improvviso, sono sempre precedute da segnali infallibili, come rivela a Bardamu il professore di storia Princhard, anch’egli ricoverato nel liceo: «Ve lo dico io, gentucola, coglioni della vita, bastonati, derubati, sudati da sempre, vi avverto, quando i grandi di questo mondo si mettono ad amarvi, è che vogliono ridurvi in salsicce da battaglia… È il segnale… È infallibile» (80). Prendiamo appunti, memorizziamo. Non si guarda mai con troppo sospetto ai “grandi” di questo mondo.

Bardamu, «convalescente della malattia della paura», passa a un altro istituto, il centro neuro-medico gestito dal patriottico Maestro Bestombes, che cura i suoi malati «con l’elettricità per il corpo e per lo spirito, con poderose doti d’etica patriottica, con autentiche iniezioni di morale ricostituente!» (108). La catastrofica rettorica nazionalista fatta scienza. Bardamu si ritrova così preso in ostaggio «dalla parte giusta della situazione, dove regnava una consegna sorridente ma implacabile, eliminare noialtri, noi carne destinata ai sacrifici» (111). Maestro Bestombes come Lola e come i grandi di questo mondo: mica è la loro la carne da sacrificare; facile così riempirsi la bocca di belle parole (almeno in questo senso la Seconda guerra mondiale rappresenterà una svolta, e pagheranno tutti).

IV. Mollato dagli «alti papaveri» e segnato in testa per sempre, Bardamu s’imbarca per l’Africa. Un viaggio tutto sommato piacevole, tranquillo, ma solo fino alle coste del Portogallo, passate le quali, nello sgradevole, appiccicoso, viscido, brodoso tepore tropicale, l’Ameral-Bragueton diviene un inferno, con l’uomo bianco che rivela tutta la sua natura spregevole:

«Nel freddo dell’Europa, sotto i grigiori pudichi del Nord, si può solo, macelli a parte, sospettare la brulicante crudeltà dei nostri fratelli, ma il loro marciume invade la superficie appena li punzecchia la febbre ignobile dei Tropici. È allora che sbraghi da disperato e la maialaggine trionfa e ci ricopre per intero. È la confessione biologica. Quando il lavoro e il freddo non ti fanno più da astringente, allentano un momento la morsa, si può scorgere dei Bianchi quel che si scopre su una spiaggia ridente, quando il mare si ritira: la verità, stagni dalle grevi puzze, granchi, carogne e stronzi.
Così, passato il Portogallo, si sono messi tutti, sulla nave, a liberarsi rabbiosamente gli istinti, alcool aiutando, e anche quel sentimento d’intimo piacere che procura l’assoluta gratuità del viaggio, specie ai militari e ai funzionari in servizio. Sentirsi sfamati, alloggiati, abbeverati a gratis per quattro settimane consecutive, a pensarci, è di per sé abbastanza, non vi pare? per avere un delirio economico. A me, il solo pagante del viaggio, mi trovarono di conseguenza, quando questa particolarità fu risaputa, singolarmente sfacciato, decisamente insopportabile» (129).

Il massacro coloniale inizia da qui, dal viaggio, con l’uomo bianco che, denudato di tutte le sovrastrutture settentrionali, freddo e lavoro, si mostra per quello che effettivamente è: una bestia feroce, un carnefice e un predone senza pietà. Nell’inferno di perdizione che diviene l’Amiral-Bragueton superate le coste portoghesi, addosso a Bardamu, l’unico pagante del viaggio, viene cucito l’abito dello «sporcaccione infame e ripugnante», dell’«immondo» fuggito dalla Francia per chissà quale scandaloso e spregevole motivo – una spia? uno stupratore seriale di minorenni, forse? -, e tutti iniziano a tramare alle sue spalle. «D’altronde, nella vita quotidiana, pensiamo che cento individui almeno nel corso di una sola normalissima giornata desiderano la tua povera morte, per esempio tutti quelli che gli dài fastidio, pigiati in coda dietro di te sul metrò, poi tutti quelli che passano davanti al tuo appartamento e non ne hanno uno, tutti quelli che vorrebbero che tu abbia finito di far pipì per farla loro, infine, i tuoi figli e altri ancora. È incessante. Ci si abitua. Sulla nave si vede ancora meglio questa fretta, allora dà più fastidio» (133). Insomma, come scrive Cioran, «Se tutti coloro che abbiamo ucciso col pensiero scomparissero davvero, la terra non avrebbe più abitanti» [4]. Alla fine il nerboruto e moralmente sfatto capitano dell’Amiral-Bragueton, per far colpo sulle donne d’ebano assetate di violenza, tende un agguato a Bardamu, che riesce a salvare la pelle con l’eloquenza, sfoderando un’orazione vibrante e indecente sulla patria, di cui è stato strenuo difensore in guerra, nelle Fiandre. «È forse di paura che il più delle volte si ha bisogno per cavarsi d’impiccio nella vita. Quanto a me, non ho mai voluto altre armi da quel giorno, o altre virtù» (138). Céline spoglia l’uomo dell’eroismo, il più delle volte manifestazione estrema di una stupidità cieca, da bestia, e rivaluta la paura, arma e virtù. Bardamu non ha mai il timore di raccontare una sua fuga a gambe levate dal pericolo. Tornando all’episodio sull’Amiral-Bragueton, è questo l’unico caso in cui la Francia salva la vita al protagonista: «Alla fine, m’arrischiai come gran finale a far roteare una delle braccia sopra la testa e mollando una mano del capitano, una sola, mi lanciai nella perorazione: “Tra prodi, signori ufficiali, non si deve sempre finire per intendersi? Viva la Francia allora, porco dio! Viva la Francia!” Era il trucco del sergente Branledore. È riuscito anche in quel caso. È stato il solo caso in cui la Francia mi salvò la vita, fino a lì era stato piuttosto il contrario» (138).

Bardamu deve spingersi fino in Africa per scovare un uomo buono: il sergente Alcide, che si seppellisce nella foresta per campare la nipotina cui sono morti entrambi i genitori e di cui possiede appena qualche lettera e un ritrattino, che custodisce gelosamente, come il suo tesoro più prezioso:

«Evidentemente Alcide faceva evoluzioni nel sublime come se fosse casa sua, per così dire con familiarità, dava del tu agli angeli, ‘sto ragazzo, e aveva l’aria di niente. Aveva offerto quasi senza un dubbio a una ragazzina vagamente apparentata anni di tortura, l’annichilimento della sua povera vita in quella torrida monotonia, senza condizioni, senza mercanteggiare, senz’altro interesse che quello del suo buon cuore. Offriva a quella ragazzina lontana tanta tenerezza da rifare il mondo intero e questo non si vedeva.
S’addormentò di colpo, alla luce della candela. Finì che mi alzai per guardare bene i suoi tratti alla luce. Dormiva come tutti. Aveva l’aria proprio normale. Però non sarebbe poi tanto male se ci fosse qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi» (182).

Il Viaggio è un bestiario di farabutti, di malvagi, e solamente due figure si distinguono in questa massa informe di cattiveria più o meno crudele: Alcide è la prima, il primo «messaggero d’amore», la prima luce che squarcia le tenebre notturne.

Bardamu assume il controllo d’una fattoria nel cuore della foresta per conto della Compagnia Pordurière, prendendo il posto di Robinson, il soldato disertore incontrato nelle Fiandre e ritrovato poi a Parigi. «Mia madre, dalla Francia, m’incitava a stare attento alla mia salute, come in guerra. Sotto la mannaia, mia madre m’avrebbe sgridato perché avevo dimenticato il foulard. Non rinunciava a niente mia madre per cercare di farmi credere che il mondo era benevolo e che lei aveva fatto bene a concepirmi. È il grande inganno dell’incuria materna, questa Provvidenza presunta» (195). Antitesi della celebrazione dell’amore materno nell’Ulisse di Joyce: «Amor matris, genitivo soggettivo e oggettivo, questa è forse l’unica cosa vera nella vita» [5]. Guardare con sospetto e spesso con orrore al fenomeno della procreazione è uno degli aspetti peculiari del nichilismo, che vede nella nascita un dramma, oppure, come scrive Cioran, un inconveniente, senza soluzioni (la morte conclude ma non ripara il danno). «Aver commesso tutti i crimini, tranne quello di essere padre», dichiara sempre Cioran [6]. Céline nel Viaggio mostra perché la paternità sia un crimine.

Bardamu, sfinito dalla febbre, non resiste molto a lungo nella foresta, e dopo aver bruciato la capanna, rifugio di vermi disgustosi, insieme con la poca merce della Compagnia Pordurière che conteneva, fugge nell’ignoto: «Non si può spiegare nulla. Il mondo sa solo ucciderti come un dormiente quando si gira, il mondo, su di te, come un dormiente uccide le sue pulci. Ecco quel che sarebbe di sicuro un morire da stupidi, mi dissi io, come tutti cioè. Fidarsi degli uomini è già farsi uccidere un po’» (200). La comunicazione richiede fiducia nell’interlocutore, ma un reduce di guerra non si farà più fregare dagli uomini, ovvero non crederà più a loro come non crederà più a se stesso. Non perde tempo a spiegare, a tentare di farsi capire, ma fugge e basta, o al massimo utilizzerà quel che resta della sua facoltà d’espressione per denudare se stesso e gli altri, come fa Céline-Bardamu con il Viaggio.

V. Bardamu, trascinandosi per la foresta, attraversando fiumi sconosciuti, giunge a San Tapeta, colonia spagnola. Sfinito dalla malaria, viene imbarcato su una nave, senza che egli se ne accorga neppure, senza che egli ne abbia effettivamente coscienza, distrutto dalla febbre. Ma comprende di essere stato venduto, da un prete, all’armamento d’una galera spagnola, l’Infanta Combitta. Rema e delira, delira e rema, rema delira e trema, fino all’arrivo della galera a New York. Bardamu, che può finalmente realizzare il suo desiderio di visitare gli Stati Uniti, non si lascia scappare l’occasione e fugge dalla nave, infrangendo l’obbligo della quarantena. Diviene un agente conta-pulci, talento scoperto e sviluppato, affinato nella pancia della galera: «Tutto quel che viaggia di clandestino e parassitario sull’umanità allo sbando passava sotto le mie unghie» (214). Bardamu ci sa fare – la sottile e corrosiva comicità celiniana, che attraversa dunque segna l’intera opera; del resto l’autore stesso confessa a Léon Daudet di trovarsi «bene solo in un grottesco ai confini della morte» e di restare insensibile a tutto il resto [7] -, ma abbandona il servizio e si mescola ai poveri di New York, trovando rifugio in un hotel decisamente troppo costoso per lui, di cui occupa, da buon ultimo, l’ultima camera, la più infima, sperduta ai confini del labirintico albergo. Affamato, senza un soldo bucato in tasca, privato persino del conforto estremo del sonno, Bardamu vive uno di quei momenti terribili, da incubo in cui neppure la masturbazione può regalare un istante di distrazione: «La verità, è un’agonia che non finisce mai. La verità di questo mondo è la morte. Bisogna scegliere, morire o mentire. Non ho mai potuto uccidermi io» (226). Dunque la scrittura stessa è menzogna, se la sopravvivenza è menzogna. Poesia e verità: sono lontani i bei tempi romantici di Goethe, per sempre perduti. Il Novecento è il più mostruoso dei secoli, caratterizzato da una ferocia vuota, insensata, ubriaco di morte. Nella metropoli americana, dove si carica a colpi di film, quasi il cinema fosse una droga, Bardamu scopre un genere di solitudine ancor più radicale di quella africana: «In Africa, avevo certo conosciuto un genere di solitudine abbastanza feroce, ma l’isolamento in quel formicaio americano prendeva una piega ancor più opprimente» (229). In questa condizione di esclusione irriducibile, di vera emarginazione, perché vissuta nella folla – ci si sente davvero soli quando si è immersi in una folla; in questo caso la solitudine assume una consistenza fisica, materiale, tangibile -, Bardamu scopre di colpo la propria nullità – mentre la guerra gli aveva rivelato la propria inutilità – e si avvicina alla non-esistenza: «Sempre avevo temuto d’essere pressoché vuoto, di non avere insomma alcuna seria ragione per esistere. Adesso davanti ai fatti ero proprio certo del mio nulla individuale. In quell’ambiente troppo diverso da quello in cui coltivavo le mie meschine abitudini, mi ero come dissolto all’istante. Mi sentivo vicinissimo alla non esistenza, semplicemente. Così, lo scoprivo, da quando avevano smesso di parlarmi di cose familiari, nulla più m’impediva di sprofondare in una sorta di noia irresistibile, in una sorta di dolciastra, spaventevole catastrofe spirituale. Una cosa disgustosa» (230). Beato Bardamu che si è dovuto spingere fino in America per scoprire di essere niente, verrebbe da dire.

Bardamu è trangugiato dall’ultra-capitalismo americano che nella metropoli si annida in ogni angolo, cancro maligno, confuso nella «grande marmellata degli uomini nella città». Marmellata disgustosa, indifferente, ottusa: «Gli nasconde tutto la vita agli uomini. Nel rumore che fanno loro stessi non sentono niente. Se ne fottono. E più la città è grande e più è alta e più se ne fottono. Ve lo dico io. Ho provato. Val mica la pena» (235). Bardamu è figlio di una metropoli, Parigi, ma New York è una metropoli di tutt’altro genere, ben più stancante, straniante e disperante, con il suo babelico sviluppo verticale e il dominio incessante dell’ultra-capitalismo che stabilisce esigenze, necessità, tempi e stili di vita – di fatto non c’è intimità né riflessione -: «Una specie di fiera mancata […], stomachevole, che si intestardivano a far riuscire lo stesso» (240). New York è nauseante, nelle sue strade gli uomini sono personificazioni dei dollari che tengono nelle tasche e niente di più, automi vuoti manovrati dall’interesse. Bardamu si trova così in uno stato di sospensione, di distacco che rappresenta l’esclusione estrema: «È questo l’esilio, l’estraneo, questa inesorabile osservazione dell’esistenza com’è davvero durante quelle poche ore lucide, eccezionali nella trama del tempo umano, in cui le abitudini del paese precedente vi abbandonano, senza che le altre, le nuove, vi abbiano ancora rincoglionito a sufficienza». E il viaggio è proprio «la ricerca di questo niente assoluto, di questa piccola vertigine per coglioni…» (ibidem). Bardamu lascia il labirintico hotel senza pagare il conto e scova Lola, alla quale riesce a sfilare cento dollari e una minaccia di morte, la rivoltella puntata contro. Con questo piccolo capitale si trasferisce a Detroit.

VI. A Detroit Bardamu trova lavoro nella fabbrica della Ford, stordente e alienante ricovero di uomini perduti – fantasmi quasi – provenienti dai quattro angoli del mondo. Tutta la sua paga giornaliera finisce in un bordello: «Non ho potuto fare a meno di diventare un habituè del locale. Tutta la mia paga finiva lì. Avevo bisogno, venuta la sera, delle promiscuità erotiche di quelle splendide ospiti per rifarmi un’anima. Il cinema non mi bastava più, antidoto benigno, senza effetto reale contro l’atrocità materiale della fabbrica. Bisognava ricorrere, per durare ancora, ai grandi tonici sboccati, ai purganti che rivitalizzano. Mi chiedevano un canone modesto in quella casa, degli accomodamenti amichevoli, perché gli avevo portato di Francia, a quelle dame, dei piccoli trucchi e degli aggeggi. Soltanto, il sabato sera, basta trucchi, il business girava al massimo e lasciavo il campo alle squadre di baseball in libera uscita, vigorose che era una meraviglia, forzuti ai quali la felicità sembrava riuscire semplice come la respirazione» (254-255). Bardamu entra presto in intimità con una giovane prostituta, Molly, che inizia a frequentare al di fuori del postribolo e che mostra un sincero interesse per lui, esortandolo a lasciare la fabbrica e a trovarsi un nuovo lavoro, più consono alle sue attitudini, magari come traduttore: «Mi dava consigli gentili di quel tipo, voleva che fossi felice. Per la prima volta un essere umano si interessava a me, al dentro se posso dire, al mio egoismo, si metteva al posto mio e non mi giudicava solo dal suo, come tutti gli altri» (256). Creatura quasi dostoevskiana, miracolosamente pura nonostante il mestiere infamante, Molly, dopo e con Alcide, è l’altra figura positiva del Viaggio, l’altro «messaggero d’amore», l’altra luce fulgente che squarcia le tenebre notturne. I due personaggi «incarnano le superstiti ragioni della dedizione disinteressata: il sergente Alcide che si segrega nel più remoto angolo d’Africa per mantenere agli studi una nipotina che non ha mai visto, l’uomo che ha in sé “tanta tenerezza da rifare un mondo”; e la prostituta Molly, vivente negazione dell’afasia morale degli americani, colei che fa vergognare Bardamu d’aver pensato che l’umanità è più turpe di quella che realmente è» [8]. Alcide e Molly, come Goujet nello Scannatoio di Zola [9], s’impongono quali ultimi baluardi della speranza, ultimi rappresentanti di un sentimento umano positivo e puro in via d’estinzione. Se ogni uomo possedesse anche solo un briciolo della bellezza di Alcide e Molly il mondo sarebbe di certo un posto migliore e conserverebbe un avvenire meno tragico. Ma i due personaggi rappresentano nel Viaggio delle eccezioni, che confermano la generale regola di miseria, malvagità e violenza.

Bardamu è perfettamente consapevole della fortuna che gli è capitata incontrando Molly, legandosi a lei, ma a causa della guerra e delle rovinose relazioni sentimentali passate, come quella con Lola, che è arrivata persino a puntargli una rivoltella in faccia per levarselo per sempre di torno, ha preso la strada dell’inquietudine. S’è svuotato, inaridito e non conosce più quiete ormai. «L’amavo sicuramente, ma amavo ancora di più il mio vizio, quella voglia di scappare da ogni posto, alla ricerca di non so cosa, per uno stupido orgoglio senza dubbio, per la convinzione di una specie di superiorità» (257). Ecco, per Bardamu la fuga – ogni viaggio è una fuga – è un vizio, e questo spiega molte cose, innanzitutto la sua smania irrazionale e indefessa, ossessiva di movimento, che sembra quasi una manifestazione di mancata rassegnazione alla vita, alla miseria, all’insignificanza, all’insensatezza della vita, nonostante la lucida consapevolezza. «[…] fin che sei in guerra, si dice che sarà meglio in pace e ti ciucci quella speranza come se fosse una caramella e poi invece non è che merda» (262). Insomma, la vita fa schifo sempre, che ci si trovi in trincea sotto una pioggia di pallottole oppure a passeggio con una donna buona e generosa come Molly. È questo uno dei messaggi più estremi e disperanti del Viaggio. Nelle situazioni difficili troviamo consolazione nel pensiero dell’avvenire, quando tutto sarà finito, e ci immaginiamo che tutto tornerà bello, ancor più bello di prima, ma la verità bruciante è che la vita non migliora, mai, resta una sciagura, una disgrazia senza speranza né soluzione. Ed è così che tutti i buoni propositi fatti durante i momenti difficili alla fine naufragano presto nel nulla, senza lasciare traccia. Lo dimostra con una chiarezza abbacinante e scandalosa la Storia: a una prima guerra mondiale ne segue, a stretto giro, una seconda, e persino più atroce e sanguinosa della prima. La ferocia umana non ne ha mai abbastanza di sperimentare e mettere alla prova se stessa.

Bardamu decide di tornare in Francia e terminare gli studi di medicina, ma questa volta la fuga gli pesa davvero, lo impensierisce davvero, come mai prima nella sua vita, per via di Molly, la prima donna che non lo ferisca e anzi l’arricchisca, umanamente: «Per lasciarla mi ci è voluta proprio della follia, della specie più brutta e fredda. Comunque, ho difeso la mia anima fino ad oggi e se la morte, domani, venisse a prendermi, non sarei, ne sono certo, mai tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche mese d’America» (264-265). L’addio a Molly sa tanto di – autolesionistica – rinuncia all’ultima, e unica di fatto, possibilità di serenità nella vita di Bardamu. Gettare al vento un’anima candida, un’anima salva come quella di Molly è davvero da folli, ma, ancor di più, da incoscienti e stupidi. Bardamu, sino a questo momento, non è mai stato tanto folle, incosciente e stupido come ora. Butta via una fortuna inestimabile per assecondare il suo vizio di fuga, e se non lo rimpiangerà mai sarà solo per orgoglio, quell’orgoglio velenoso da sopravvissuto che ricorda tanto quello, altrettanto velenoso, dell’uomo del sottosuolo (anche il personaggio dostoevskiano rinuncia per orgoglio all’unica donna disposta ad amarlo, anche in questo caso una prostituta [10]).

VII. Bardamu torna dunque a Parigi e termina gli studi di medicina, riempiendo i suoi giorni di studio e di lavoro, necessario quest’ultimo per guadagnarsi il pane. Inizia a esercitare la professione in periferia, alla Garenne-Rancy, appena fuori Parigi, ritrovandosi immerso nella brutale realtà proletaria rappresentata da Zola nello Scannatoio. «Attenti, zozzoni! Lasciatemi fare delle carinerie ancora per qualche anno. Non uccidetemi ancora. Aver l’aria servile e disarmata, dirò tutto. Vi garantisco e di colpo vi piegherete in due come i bruchi bavosi che in Africa venivano a scacazzare nella mia capanna e vi renderò più sottilmente vigliacchi e più immondi ancora, così tanto che forse ci resterete, alla fine» (274). Ecco dunque un’ulteriore chiarificazione relativa allo scopo della scrittura di Céline: un attentato ai borghesi benpensanti che si ritengono necessari e ignorano la loro miseria e, soprattutto, la loro colpa. Una dimostrazione ulteriore, definitiva se vogliamo, del carattere profondamente morale della scrittura, della letteratura celiniana.

In periferia gli affari vanno male, anche a causa di quell’umanitarismo – retaggio materno – duro a morire in Bardamu, che proprio non riesce a farsi pagare dai poveri, ed egli fa la fame, tanto quanto i suoi clienti, in un ambiente che si conferma, in tutto e per tutto – alcol, violenze, torture domestiche – eguale a quello dello Scannatoio. Evidentemente il carattere brutale, bestiale del proletariato parigino non muta nei secoli. Alle difficoltà materiali si sommano quelle spirituali: l’inquietudine si conferma il tratto caratteristico di Bardamu, che gli impedisce di fermarsi troppo a lungo in un luogo. Inquietudine come personificata da Robinson, conosciuto in guerra, nelle Fiandre, e poi ritrovato sistematicamente a Parigi, durante la convalescenza, in Africa e a Detroit, quasi fosse un elemento fantastico all’interno del romanzo – il doppio. «Man mano che resti in un posto, le cose e le persone si sbracano, marciscono e si mettono a puzzare appositamente per te» (306). Cose e persone imputridiscono, conoscono uno stato di decomposizione precoce, mentre sono ancora in vita, per l’inquieto Bardamu – un po’ come le cose e le persone rappresentate da Soutine -. L’opera stessa, da questo momento in poi – possiamo considerarla la seconda parte del romanzo -, inizia a sbracarsi e marcire, a sfilacciarsi, alimentando il sospetto che Céline si perda spesso, troppo spesso in chiacchiere inutili, compiaciute di se stesse dunque fine a se stesse, sterili, che non fanno altro che disperdere la corrosiva energia critica, negativa del Viaggio – la sua vera forza, la sua vera grandezza.

Bardamu non riesce a salvare il piccolo Bébert: «Non si è mai troppo scontenti che un adulto se ne vada, fa sempre una carogna di meno sulla terra, uno si dice, mentre con un bambino, è comunque meno sicuro. C’è l’avvenire» (314). La critica di Céline salva solo i bambini, i soli che meritino davvero di essere pianti.

«Della morale dell’umanità, io me ne sbatto, totalmente, come tutti d’altronde» (348), scrive Céline-Bardamu. Ma il Viaggio, come ho già tentato di sottolineare, non è affatto a-morale, anzi. È basato su una morale personale, individuale, anarchica e nichilistica – in un certo senso stirneriana – frutto della consapevolezza della miseria, dell’insignificanza, dell’insensatezza dell’uomo e della vita, che mira a distruggere la morale convenzionale, «dell’umanità», con tutte le sue ipocrisie ridicole e feroci, in ogni caso insopportabili – la guerra, gli aborti, gli omicidi nascosti, le violenze domestiche.

Eccola qui, fissata chiaramente nero su bianco, la nichilistica consapevolezza di Bardamu, che vede e rappresenta tutto, l’uomo, la vita, l’intera civiltà occidentale per quello che effettivamente sono, niente: «È da tanti di quei secoli che possiamo guardare i nostri animali che nascono, faticano e muoiono davanti a noi senza che a loro gli sia mai capitato nient’altro di speciale che non fosse ricominciare lo stesso insulso fallimento là dove tanti altri animali l’avevano lasciato. Avremmo dunque dovuto capire quello che capitava. Ondate incessanti di esseri inutili vengono dal fondo dei tempi a morire in continuazione davanti a noi, e tuttavia restiamo lì, a sperare qualcosa… Nemmeno capaci di pensare la morte che siamo» (368). Dovremmo capire una volta per tutte, dopo tante innumerevoli tragedie, dopo tante innumerevoli morti, ma non capiamo. Se capissimo, il genere umano si estinguerebbe – pacificamente, senza spargimenti di sangue – nel giro di un paio di generazioni, non di più. Sarebbe mica male, visto che tanto non sappiamo fare altro che spargere dolore su questa povera terra colpevole solamente d’ospitare le condizioni necessarie allo sviluppo della vita.

Robinson tormenta Bardamu anche a Rancy. Invischiato in un fattaccio, un tentativo d’omicidio in cui è lui a rimetterci, perdendo la vista, il protagonista riesce finalmente a liberarsene convincendolo a trasferirsi nel sud della Francia, a Tolosa, e ricevendo anche duemila franchi in cambio di questa attività di persuasione. Bardamu crede che la sua vita possa finalmente decollare, ma si sbaglia. Per di più si ammala di brutto. Costretto dieci giorni a letto, pianifica la sua fuga da Rancy, l’ennesima. «Non si può sperare di mollare la propria pena in qualche angolo di strada. È come una donna mostruosa la Pena, e tu te la sei sposata. Forse è ancora meglio finire per amarla un po’ invece di dannarsi a picchiarla tutta la vita. Perché è chiaro che non la puoi accoppare» (383). Raccontare la propria pena, come fa Céline nel Viaggio, è forse una manifestazione d’amore? Affatto, non è che l’ennesimo e inutile tentativo di liberarsi di lei, di ammazzarla.

VIII. Bardamu lascia dunque Rancy e trova un impiego come comparsa nel cinema Tarapout, tra ballerine londinesi affascinanti e inconsapevoli.

«La felicità in terra sarebbe morire con piacere» (418), brandello d’una conversazione tra Bardamu e padre Protiste. Morire con piacere ovvero riconoscere alla morte il ruolo, il compito di sola liberatrice, di provvidenziale e giusta liberatrice dalla miseria e dal dolore che costituiscono la vita umana, invece di esorcizzarla come la più spaventosa delle disgrazie.

Lasciato l’impiego al cinema Tarapout per via di una tresca con una ballerina polacca, subentrata a una ballerina londinese malata, Bardamu va a trovare Robinson a Tolosa. Qui ha un’altra tresca, con Madelon, promessa sposa dell’amico-doppio, l’ennesimo legame privo d’umanità in fondo. Tutti i legami di Bardamu sono privi d’umanità, tranne quello con Molly.

Tornato da Tolosa, Bardamu trova un posticino nell’Asilo psichiatrico a Vigny-sur-Seine. «Un matto, altro non è che le solite idee di un uomo ma ben chiuse in una testa. Il mondo non ci passa attraverso la testa e tanto basta. Diventa come un lago senza immissario una testa chiusa, un’infezione» (457). Baryton, direttore dell’istituto psichiatrico, soggiogato dalla cultura anglosassone, se ne va in Inghilterra, lasciando a Bardamu la direzione dell’Asilo. A questo punto ricompare Robinson, che ha lasciato Tolosa e riacquistato la vista. Ma Céline ha svilito a tal punto l’esistenza umana che dopo l’esperienza in America, a Detroit, tutti i fatti che lo coinvolgono al ritorno in Francia non suscitano alcun interesse, scivolano via velocemente senza trasmettere niente, senza lasciare traccia. Gli Henrouille e Robinson e tutti gli altri con i loro maneggi svaniscono nel nulla, indifferenti. E in fondo anche Bardamu, per le beghe del suo doppio, non prova più alcun interesse: «Si ha un bel dire e pretendere, il mondo ci lascia molto prima che ce ne andiamo per davvero» (503). Allo stesso modo il Viaggio termina molto prima che termini davvero.

Bardamu è ormai definitivamente svuotato – noi lettori con lui – e se ne sbatte di tutto: «Le cose alle quali tenevi di più, ti decidi un bel giorno a parlarne sempre meno, devi fare uno sforzo quando ti ci metti. Ne hai le scatole piene di ascoltarti sempre cianciare… Tagli via… Rinunci… È da trent’anni che stai a cianciare… Non ci tieni più ad avere ragione. Ti molla la voglia di tenerti anche il posticino che t’eri riservato tra i piaceri… Ti viene lo schifo… Basta ormai mangiare un po’, scaldarsi un po’ e dormire più che si può sulla via del nulla assoluto. Bisognerebbe per ritrovare degli interessi inventarsi delle nuove smorfie da eseguire davanti agli altri… Ma non si ha più la forza di cambiare il repertorio. Farfugli. Cerchi ancora dei trucchi e delle scuse per restare là con loro, gli amici, ma la morte è lì anche lei, fetente, al tuo fianco, tutto il tempo adesso e meno misteriosa d’un mazzo di carte. Ti restano preziose solo le pene minute, quella di non aver trovato il tempo fin che era vivo d’andare a trovare il vecchio zio a Bois-Colombes, con la sua canzoncina che s’è spenta per sempre una sera di febbraio. È tutto quello che hai conservato della vita. Questo piccolo rimpianto atroce, il resto l’hai più o meno vomitato lungo la strada, con molti sforzi e pena. Non sei altro che un vecchio lampione di ricordi all’angolo di una strada dove non passa già quasi più nessuno» (503-504). Sulla via del «nulla assoluto», nella seconda parte del Viaggio Céline-Bardamu non racconta che «pene minute», di cui avremmo fatto volentieri a meno. Come se la nostra vita non ne fosse già piena.

Quell’esaltata di Madelon finisce per sparare due colpi di rivoltella in pieno ventre a Robinson, in taxi, di ritorno da una domenica fallimentare passata alla fiera. Bardamu è ormai inaridito a tal punto da non sapere neppure aiutare l’amico a morire: «Ti manca quasi tutto quello che ci vorrebbe per aiutare a morire qualcuno. Hai con te quasi soltanto le cose utili per la vita di tutti i giorni, la vita confortevole, la vita per sé sola, la cattiveria. Hai perduto la fiducia per strada. L’hai cacciata, l’hai tormentata la pietà che ti restava, accuratamente in fondo al corpo come una brutta pillola. L’hai spinta la pietà fino in fondo all’intestino con la merda. È lì il suo posto, uno si dice» (544). Termina così il Viaggio, con la morte di Robinson, del doppio, dell’inquietudine, e con il rimpianto di Bardamu di non essere stato capace di farsi un’idea più forte di tutte al mondo.

IX. Alla fine del Viaggio, cosa resta? Resta l’uomo, solo, ferocemente, cosmicamente solo, e nudo, in tutta la sua miseria, la sua piccolezza, la sua impotenza, la sua bestialità, la sua ferocia, la sua inutilità e la sua insignificanza. Spogliato di tutto, anche e soprattutto della fede in se stesso, l’uomo denudato si mostra per quello che effettivamente è: un nulla infinitesimale perduto nel nulla universale. Uno spettacolo ridicolo insomma, di cui si può ridere, di cui ci si può sdegnare oppure vergognare – sarebbe forse quest’ultima la reazione più giusta, più onesta -, ma di cui non si può provare pietà, mai. Resta inoltre la notte, perché l’intera storia dell’uomo, quella che è stata, è e sarà, è una notte. Una notte lunghissima, povera e sanguinosa, in cui brillano qua e là, sparsi nei secoli, rari bagliori come Alcide, come Molly, che sono esistiti, esistono ed esisteranno, nonostante tutto, nobilitando, nel breve arco delle loro fulgide esistenze, l’intero genere umano, ma, ahinoi, senza cambiarlo.

NOTE

[1] Citato in Ernesto Ferrero, Céline, ovvero lo scandalo di un secolo, in Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, traduzione e note di Ernesto Ferrero, Corbaccio, Milano 2018, p. 562.

[2] Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, cit., p. 18. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[3] Charles Baudelaire, Razzi, in Id., Il mio cuore messo a nudo, a cura di Diana Grange Fiori, Adelphi, Milano 2006, p. 16.

[4] Emil Cioran, Sommario di decomposizione, traduzione di Mario Andrea Rigoni e Tea Turolla, Adelphi, 1996.

[5] James Joyce, Ulisse, traduzione di Giulio de Angelis, Mondadori, Milano 2000, p. 202. Per un approfondimento sull’opera e questo specifico tema rimando al contributo L’Ulisse di Joyce: amor matris.

[6] Emil Cioran, L’inconveniente di essere nati, traduzione di Luigia Zilli, Adelphi, Milano, 1991.

[7] Citato in Ernesto Ferrero, Céline, ovvero lo scandalo di un secolo, cit., p. 566.

[8] Ibidem.

[9] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Émile Zola, «Lo scannatoio»: la tragica parabola di Gervaise Macquart.

[10] Per un approfondimento sull’opera di Dostoevskij e sul significato del sottosuolo all’interno della sua visione del mondo e della vita rimando ai contributi Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parte, Seconda parte; Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.

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