Vasilij Perov, Ritratto di Dostoevskij, 1872

Fëdor Dostoevskij, «La mite»: un uomo del sottosuolo e sua moglie

I. Da sempre sensibile al tema del suicidio – la sua umanità è costellata di personaggi che scelgono la via dell’autodistruzione, da Svidrigajlov in Delitto e castigo a Smerdjakov nei Fratelli Karamazov, passando per Kirillov e Stavrogin nei Demòni, citando i casi più celebri [1] -, nel fascicolo di ottobre del Diario di uno scrittore – 1876 Dostoevskij riporta la notizia della morte volontaria di una giovane sarta, Mar’ja Borisova:

«Un mese fa, in tutti i giornali di Pietroburgo apparvero alcune brevi righe in corpo piccolo su di un suicidio: si era buttata dalla finestra, dal quarto piano, una povera giovane, una cucitrice, “perché non era riuscita in nessun modo a procurarsi del lavoro per vivere”. Si aggiungeva che si era buttata giù ed era caduta a terra, tenendo nelle mani un’immagine sacra. Questa immagine sacra nelle mani è un tratto strano e ancora inaudito in un suicidio! È un suicidio mite, umile. Non c’erano stati neppure, evidentemente, mormorii o rimproveri: semplicemente era diventato impossibile vivere. “Dio non ha voluto”, ed è morta, dopo aver pregato. Su certe cose, per quanto semplici esse appaiano, non si può non pensare per un pezzo, si hanno sempre innanzi, e se ne sente perfino la responsabilità. Questa mite anima che ha annientato se stessa, senza che noi lo vogliamo ci tormenta il pensiero» [2].

Il particolare, davvero singolare e impressionante, dell’immagine sacra stretta dalla giovane nelle mani durante il volo dal quarto piano, rivela l’eccezionalità del caso: Mar’ja Borisova non è la tipica materialista, la tipica nichilista che si toglie la vita per indolenza, nel suo gesto non c’è ribellione contro Dio, non c’è la negazione di Dio, ma una disperazione semplice, che non smette tuttavia di confidare nel perdono. Da questo particolare dell’immagine sacra nasce il tormento di Dostoevskij, tormento che lo porta a scavare nello scabro caso di cronaca, a immaginarne motivi e risvolti. Conficcato nel proprio tempo, nella propria contemporaneità come un albero nella terra, Dostoevskij coltiva il tormento generato dalla notizia del suicidio della giovane sarta, fino a dargli forma letteraria nel racconto La mite, pubblicato nel fascicolo successivo, quello di novembre, del Diario di uno scrittore – 1876.

II. Nel racconto, definito «fantastico» per la sua forma stenografica, Dostoevskij immagina motivi e risvolti del suicidio della Borisova, attorno all’arida notizia di cronaca ri-costruisce una storia, un’esistenza – anzi due -, ma senza fornire semplicistiche spiegazioni (lo scopo principale di Dostoevskij, come di tutti i grandi scrittori, non è spiegare, ma mostrare, rivelare, recidere le palpebre al lettore): «La mite rappresenta indubbiamente un esempio eccelso dell’ostilità che Dostoevskij nutre verso ogni tipo di spiegazione logica, psicologica o sociologica rispetto agli avvenimenti che si verificano fuori e dentro l’animo umano. Anzi, si potrebbe individuare in questa assenza di spiegazioni il motivo principale del racconto, se è vero che attorno al vuoto e all’incomprensione girano di continuo, dall’inizio alla fine, le domande senza risposta dell’io narrante» [3].

Al contrario di quanto si potrebbe immaginare leggendo il titolo e la genesi del racconto, l’io narrante non è quello della donna, ma quello di un uomo, il marito, personaggio straordinario, «uno dei più coerenti rappresentanti» [4] – probabilmente il più coerente in assoluto, insieme con l’uomo-topo protagonista delle Memorie dal sottosuolo [5] – di quel sottosuolo che s’impone come il polo negativo della Weltanschauung dostoevskiana [6]: «È un uomo tragicamente chiuso nel cerchio dell’io, un uomo esulcerato, la cui volontà di potenza si esprime nello spasmodico desiderio di “vendicarsi del mondo” che gli ha inferto una ferita inguaribile» [7]. Dostoevskij pone dunque quest’uomo «esulcerato» al centro della narrazione, è al marito della suicida che dona la parola, a questo neo-vedovo che, come spiega l’autore nell’«Avvertenza», accanto al cadavere della moglie steso sulla tavola, «si sforza di rendersi conto dell’accaduto, di “fare il punto dei propri pensieri”» [8]. Pensieri che Dostoevskij riporta sulla pagina così come nascono e si sviluppano, a salti, in modo disordinato, discontinuo, come avrebbe fatto uno stenografo se li avesse ascoltati e trascritti, secondo un’espediente letterario collaudato che trova nell’Ultimo giorno d’un condannato a morte di Hugo il suo modello più illustre e grandioso, puntualizza lo scrittore russo.

L’uomo del sottosuolo è fatto così, dice e si disdice, giura, spergiura, poi nega, ritratta, si contraddice, accusa se stesso e subito dopo l’altro, ma alla fine della Mite il neo-vedovo, dopo tanto confuso riflettere, dopo tanto doloroso ricordare, riesce ad approdare alla verità, come rivela Dostoevskij stesso nella già citata «Avvertenza»:

«Un po’ alla volta riesce in effetti a chiarirsi la vicenda e a fare “il punto dei propri pensieri”. Infine, è proprio la serie dei ricordi da lui stesso evocati a condurlo ineluttabilmente alla verità; e la verità ineluttabilmente eleva la sua mente e il suo cuore. Verso la fine, anche il tono del racconto muta se confrontato con il suo confuso inizio. La verità si disvela all’infelice in maniera abbastanza chiara e definita, quantomeno per quel che lo concerne» (4).

Costruendo il racconto, scavando ed elaborando la scabra notizia di cronaca, che lo tormenta e non può lasciare precipitare nell’indifferenza, Dostoevskij attinge alla tradizione letteraria – Hugo -, ma anche alla propria esperienza personale. Come il protagonista maschile della Mite anche lo scrittore, nel 1864, fu costretto a vegliare il cadavere della moglie, la sua prima moglie, Mar’ja Dmitr’evna – Maša -, steso sulla tavola. Come il neo-vedovo dell’opera riflette, fissando le proprie riflessioni nero su bianco, appunti noti come Pensieri sulla morte e sull’immortalità, in cui Dostoevskij riassume «nel modo più completo e allo stesso tempo sintetico le sue idee sul destino dell’uomo in questa vita e dopo la morte» [9]:

«Maša distesa sulla tavola. La rivedrò io mai? Amare l’uomo come se stessi, secondo il comandamento di Cristo, non è possibile. Sulla terra la legge della personalità è d’impaccio. L’io è di ostacolo. Cristo soltanto poteva farlo, ma Cristo era l’ideale eterno sin dall’inizio dei tempi, quell’ideale a cui l’uomo tende, e deve tendere, per legge di natura. Tuttavia, dopo la comparsa di Cristo come ideale dell’uomo incarnato, è diventato chiaro come il giorno che l’evoluzione ultima e suprema della personalità individuale (e questo proprio al culmine dell’evoluzione, anzi nel momento stesso in cui il fine dell’evoluzione sarà raggiunto) in cui l’uomo riconosca, si renda conto e si convinca con tutta la forza della sua natura che l’impiego più alto che egli possa fare della sua individualità, nel momento in cui il suo io abbia raggiunto la pienezza dello sviluppo, consiste nel distruggere questo stesso io, nel donarlo interamente a tutti e a ciascuno indivisibilmente e senza riserve. E in ciò consiste la felicità più sublime… E appunto questo è il paradiso di Cristo» [10].

In queste poche righe è racchiuso uno dei significati più profondi, se non il significato più profondo in assoluto, dell’opposizione Cristo-sottosuolo, caratteristica della Weltanschauung dostoevskiana. L’io è di ostacolo per ogni uomo, per ogni uomo è necessario distruggerlo, donandolo «indivisibilmente e senza riserve», ma soprattutto per l’uomo del sottosuolo, concentrato, compresso in se stesso fino al parossismo. Il protagonista maschile della Mite alla fine del racconto si avvede degli effetti devastanti della propria esasperata ed esasperante autoreferenzialità, ma ormai è troppo tardi. La soluzione a se stesso, la salvezza da se stesso, la sua unica possibilità di felicità giace sulla tavola, priva di vita.

III. Il neo-vedovo inizia dal principio. L’uomo ha conosciuto la giovane suicida al banco dei pegni, la sua attività, dove lei si reca per impegnare oggetti di scarso valore economico, ma dal grande valore affettivo, rappresentando tutto quello che le è stato lasciato dai genitori, morti. La giovane, sedici anni appena, investe i pochi rubli ricevuti in cambio degli insignificanti ninnoli nella pubblicazione di annunci di lavoro sui giornali, «nei quali si diceva, così e così, una governante, disposta anche a viaggiare, a dare lezioni a domicilio, eccetera, eccetera». La graduale, ma inesorabile degradazione delle inserzioni pubblicate dalla donna rivela tutta la sua miseria e infine tutta la sua disperazione (viene in mente il caso disperato di un’altra suicida dostoevskiana, l’aspirante maestra Olja nell’Adolescente [11]):

«In quel periodo, facendo ricorso alle sue ultime forze, lei pubblicava delle inserzioni, inizialmente, è chiaro, scritte in tono pretenzioso: “Offresi governante disponibile a viaggiare, spedire le condizioni in busta chiusa”; per poi cedere in seguito: “disponibile a tutto, come insegnante, come dama di compagnia, a badare all’economia domestica, ad assistere un malato, e so anche cucire”, eccetera, eccetera, quello che si mette sempre! Ovviamente tutto ciò veniva aggiunto al testo da pubblicare di volta in volta; alla fine, quando ormai incombeva la disperazione, si offrì “senza salario, per il solo vitto”» (11).

Precipitate nel vuoto tutte le inserzioni di lavoro, la giovane decide di impegnare un’immagine sacra, proprio quell’immagine sacra, un’icona della Madonna dal valore di sei rubli. L’usuraio gliene offre dieci, che lei orgogliosa rifiuta, accontentandosi di cinque rubli. Al denaro l’uomo allega le seguenti parole: «Non disprezzate le persone, io stesso mi sono trovato in frangenti analoghi, anche peggiori, e se adesso mi vedete dietro questo banco… è per tutto quel che ho subìto…» (13). La replica della donna è eccezionalmente velenosa e, al tempo stesso, giusta, perché coglie in pieno l’essenza dell’uomo – del sottosuolo – che le sta di fronte: «Volete vendicarvi della società? È così?». Tutt’altro che sciocco e ignorante, l’usuraio risponde citando il Mefistofele di Goethe: «Vedete […] io, io sono una parte di quella parte del tutto, che vuol fare il male e crea il bene» (ibidem). La conoscenza tra la giovane disoccupata vittima della miseria più nera e il suo usuraio, che si mostra insolitamente cortese e generoso (nel Faust di Sokurov Mefistofele veste i panni proprio di un usuraio, singolare coincidenza [12]), assume contorni diabolici, con l’uomo che – sottilmente, attraverso lo sfoggio erudito – si presenta e propone come salvatore della graziosa adolescente disperata, mentre s’insinua tra le pieghe di questo arguto corteggiamento letterario il sospetto di una trappola ordita da un esperto carnefice alla sua ingenua vittima.

Dopo questo breve e soddisfacente colloquio l’usuraio decide di passare all’azione, ovvero di avanzare formalmente la propria proposta di matrimonio. L’uomo, quarantuno anni, tenente a riposo di un importante reggimento e nobile di stirpe, non nutre dubbi sul successo della sua proposta, da presentare alle «sregolate» zie della giovane, presso le quali lei vive, di fatto, in stato di schiavitù, rammendando la biancheria, lavando i pavimenti e ricevendo in cambio bastonate e grida in cui le viene rinfacciato ogni singolo boccone. Le «sregolate» zie tentano persino di venderla, a un mercante cinquantenne in cerca della sua terza moglie, ma ecco che interviene l’usuraio a salvarla, a strapparla dalle grinfie del viscido mercante conducendola in casa sua. Genesi del matrimonio tra un uomo del sottosuolo e la mite.

IV. Che non sia l’amore a spingere l’usuraio tra le braccia della sfortunata giovane, e neppure un impeto di umana generosità, come sospettiamo dall’inizio, lo conferma l’idea dell’uomo di imporsi alla mite come un «enigma». A tal proposito egli escogita un vero e proprio «sistema», nel quale il silenzio s’impone come la procedura dominante: «Io poi sono maestro del parlar tacendo, tutta la mia vita l’ho trascorsa parlando in silenzio e sempre in silenzio sono passato, solo con me stesso, attraverso autentiche tragedie» (24). Quello dell’usuraio, come confessa lui stesso, è un silenzio da «uomo orgoglioso». Egli vuole che la donna capisca da sola, indovini da sola il suo segreto. Perché se fosse lui a rivelarglielo sarebbe come chiedere la carità e lui, perfetto uomo del sottosuolo, non vuole la carità, né vuole spartire la sua felicità, che desidera piena. O tutto o niente insomma. Certo, la mite si mostrerebbe generosa con il marito, come tutti i giovani, ma la generosità della gioventù «non vale un soldo», perché «ce l’ha a buon mercato, l’ha ottenuta senza aver vissuto, consiste, per così dire, nelle “prime impressioni dell’esistenza”, ma vediamovi un po’ al lavoro!» (25). L’orgoglio smisurato, fondamentalmente ingiustificato, autoreferenziale dell’uomo del sottosuolo pretende una generosità autentica, forgiata dalle sofferenze della vita, e comportandosi in questo modo, rinserrato nel suo ostinato e irriducibile silenzio, l’usuraio mette quotidianamente alla prova la sposa adolescente, in un certo senso educandola, adottando con lei e su di lei questo «sistema» cinico, persino sadico. All’inizio della loro convivenza la mite discute, prova a forzare il silenzio dell’uomo, ma poi inizia – inevitabilmente – a tacere, fino a non aprire più bocca, mentre inizia a comparire sul suo volto un sorriso «diffidente, silenzioso, cattivo». L’usuraio – e al silenzio si aggiunge l’economia ferrea, non più di un rublo per il loro mantenimento e per quello della serva – diviene presto odioso alla donna, con la piega beffarda della bocca che si fa ogni giorno più profonda, mentre lui, da parte sua, rafforza il silenzio: «In silenzio andavamo e in silenzio tornavamo. Perché, perché fin dall’inizio abbiamo preso a tacere? Nei primi tempi infatti non c’erano liti, c’era soltanto il silenzio» (27).

V. Come ogni uomo del sottosuolo che si rispetti, anche l’usuraio si contraddistingue per un pessimismo cupo, estremo, severo, che di tanto in tanto erompe sulla pagina in tutta la sua devastante corrosività. Del resto, ne è prova la sua sfiducia nella parola, nella capacità comunicativa della parola: «se si vuol pronunciare una certa idea, se la si vuol esprimere a parole, ne esce un qualcosa di terribilmente stupido. Qualcosa di cui tu stesso devi vergognarti. E perché! Non c’è un perché. Perché siamo tutti delle carogne e non tolleriamo la verità, altrimenti non so proprio perché» (30). Anche per questo motivo l’usuraio tace alla moglie segreti e progetti, per non risultare ridicolo ai suoi occhi rischiando di frantumare per sempre la propria presunta superiorità, acquisita grazie al ruolo di salvatore e marito.

Come in ogni uomo del sottosuolo che si rispetti, anche nell’usuraio l’odio nei confronti del genere umano è fortissimo, radicato nel profondo come un morbo inestirpabile, inguaribile, perché dal genere umano si ritiene offeso. Dall’offesa scaturiscono il risentimento e un desiderio di vendetta che, di fatto, diviene il principale motivo della sua esistenza, orientandone scelte e comportamenti: non a caso il tenente a riposo, conclusa la carriera militare a causa di un’offesa, si fa usuraio, e si ricordi la domanda giustissima della mite: «Volete vendicarvi della società? È così?». Sì, è proprio così. Ma, al di là della vendetta, lo scopo del protagonista – maschile – del racconto è costruirsi, attraverso l’usura, una nuova vita, mettere insieme trentamila rubli e concludere la propria esistenza da qualche parte, lontano dagli uomini corrotti che hanno causato la sua rovina, «con un ideale nel cuore, con la donna amata nel cuore, con una famiglia, se Dio lo consentirà, e aiutando i contadini della zona» (30). Se l’usuraio ne avesse parlato a sua moglie, se avesse avuto fiducia in lei, nella sua comprensione, nella sua generosità, forse… ma tace, ostinatamente, testardamente, perché vuole che sia lei, sola, a risolvere l’«enigma», perché la parola renderebbe il suo piano una sciocchezza di cui vergognarsi:

«Noi siamo maledetti, la vita degli uomini in genere è maledetta! (La mia in particolare!) Adesso infatti capisco di aver sbagliato in qualche cosa! Qualcosa non è andato per il verso giusto. Era tutto chiaro, il mio piano era limpido, come il cielo: “È severo, orgoglioso, e non ha bisogno del conforto morale di nessuno, soffre in silenzio”. Ed era proprio così, non ho mentito, non ho mentito! “Vedrà poi da sola che si trattava di generosità, solo che per ora non è in grado di accorgersene, ma quando un domani risolverà quest’enigma, lo apprezzerà dieci volte di più e mi si prostrerà davanti, giungendo le mani in preghiera”. Ecco il mio piano» (31).

L’odio dell’usuraio nei confronti del genere umano e il suo desiderio di vendetta si riflettono inevitabilmente anche nella relazione con la moglie, il suo contegno nei confronti della donna è un loro frutto. Ma donde derivano tanto odio e tanta vendetta? Cacciato dal reggimento perché rifiutatosi di battersi in duello, l’usuraio trascorre tre anni da vagabondo a Pietroburgo, elemosinando qualche spicciolo. Ecco la radice della sua misantropia e del suo sentimento di rivalsa, ecco il segreto che tiene nascosto alla moglie, ma che la moglie comunque scopre, da un ufficiale ex commilitone di suo marito.

VI. La mite si ribella al marito, rovinandogli gli affari, frequentando un altro uomo – l’ufficiale, al quale però non si concede, perché troppo onesta -, tentando persino di ucciderlo. Mattino. Lei afferra la rivoltella del marito e gli si avvicina, credendolo addormentato. Lui in realtà è sveglio e osserva tutto, ma finge di dormire. Apre gli occhi e vede l’arma puntata contro la sua tempia. L’usuraio non si muove, non reagisce, anzi, richiude gli occhi, accettando qualunque sorte, mentre nel silenzio percepisce nitidamente, contro la tempia, il contatto gelido del ferro. Egli è ormai certo di morire e accetta la sua morte – «perché allora accettavo la morte? Io vi chiedo: che cos’era la mia vita dopo quella rivoltella, puntata contro di me dall’essere che adoravo?» (42) -, ma lei lo grazia, vinta: «Rapidamente aprii gli occhi. Lei non era più nella stanza. Mi tirai su sul letto: avevo vinto e lei era vinta per sempre!» (43). L’usuraio si alza, si lascia servire il tè dalla moglie, come se nulla fosse, senza dire nulla, lasciandola nel dubbio – sa o non sa? ha visto o non ha visto? è stato uno sguardo cosciente o incosciente il suo, come può capitare nel sonno? -. L’uomo le dimostra di sapere tutto, di aver visto tutto acquistando un letto per lei, dividendosi da lei e sciogliendo così il loro legame:

«Dopo aver preso il tè, chiusi il banco, andai al mercato e comprai un letto di ferro e un paravento. Rientrato in casa, ordinai che il letto fosse sistemato in sala e isolato col paravento. Il letto era destinato a lei, ma non le dissi nemmeno una parola. E, senza parole, lei capì, grazie a quel letto, che io “tutto avevo visto e tutto sapevo” e che ormai non vi era più dubbio alcuno in proposito. Per la notte lasciai la rivoltella come sempre sul tavolo. E quella notte lei si coricò in silenzio nel suo nuovo letto: il matrimonio era sciolto, lei era “vinta, ma non perdonata”» (44).

Termina così la prima parte del racconto, con il trionfo dell’uomo del sottosuolo sulla sua giovane moglie, «vinta, ma non perdonata». È davvero straordinario come Dostoevskij elabori una stringata e scabra notizia di cronaca, come da questa stessa notizia veicolata dalla stampa attraverso pochissime righe ricavi una tragedia senza tempo.

VII. L’usuraio trionfa e la consapevolezza del suo trionfo lo soddisfa – sadicamente – come niente lo ha soddisfatto sinora nella sua vita, schiacciando quegli slanci di tenerezza, di affetto – di amore? – provati durante la malattia della moglie, sopraggiunta subito dopo l’episodio della rivoltella, quella stessa notte. Questa soddisfazione ripaga l’uomo di tutte le sofferenze causate dalla perdita della reputazione e dall’espulsione dal reggimento, il fattaccio che lo fa precipitare nel baratro, nella miseria più nera (l’uomo del sottosuolo è così orgoglioso che, dopo aver indossato una prestigiosa uniforme, preferisce morire di fame in un angolo buio di Pietroburgo piuttosto che farsi impiegato civile), fino alla riscossione di una piccola eredità di tremila rubli: «Optai per il banco dei pegni, senza chiedere perdono agli uomini: far soldi, trovarsi poi un angoletto e cominciare una vita nuova lontano dai ricordi del passato, ecco il mio progetto» (49). Il peso della solitudine, con i ricordi del passato che lo tormentano senza sosta, diviene infine insostenibile, ed è per questo che l’usuraio decide di prendere moglie: «Facendola entrare in casa mia, pensavo di far entrare un amico, era di un amico infatti che avevo fin troppo bisogno. Ma vedevo chiaramente che un amico era necessario prepararselo, rifinirselo e perfino soggiogarselo» (ibidem). Ecco perché quel silenzio ostinato, testardo. Cosa avrebbe potuto capire una sedicenne sofferente, certo, ma inesperta della vita? Poi l’episodio della rivoltella, giunto a proposito, giunto a riscattare e vendicare tutto il suo squallido passato, soprattutto agli occhi di lei, della donna al fianco della quale ha intenzione di rifarsi una vita, con l’usuraio che mostra alla moglie, affrontando senza paura la rivoltella, di essersi sottratto al duello di certo non per paura:

«Ma l’incidente era intervenuto a proposito. Facendo fronte alla rivoltella, mi ero vendicato di tutto il mio squallido passato. E, anche se nessuno fosse venuto a saperlo, lo sapeva lei, e questo per me era tutto, perché lei stessa era tutto per me, incarnava nei miei sogni ogni speranza per il futuro! Lei era l’unica persona che mi ero preparato, d’un’altra non c’era bisogno: ed ecco che lei sapeva tutto; sapeva quantomeno d’essersi ingiustamente affrettata a unirsi ai miei nemici. Questo pensiero mi affascinava. Ai suoi occhi non potevo essere più un vigliacco, semmai soltanto una persona strana, ma ora quest’idea, dopo tutto ciò che era successo, in qualche modo non mi dispiaceva affatto: l’eccentricità non è un vizio, al contrario, a volte seduce un carattere femminile. In una parola, io differivo di proposito l’epilogo: quel che era successo era per il momento più che sufficiente per la mia tranquillità e offriva fin troppe immagini e materiale per le mie fantasticherie. È questa la sconcezza, che io sono un sognatore: materiale per me ne avevo quanto bastava e, per quel che la riguardava, pensavo che avrebbe aspettato» (50).

L’uomo del sottosuolo possiede anche il difetto del sogno, quel sogno a occhi aperti in cui l’io gongola, cresce a dismisura, disegnandosi attorno i quadri più straordinari, e che porta all’estraniamento e all’alienazione dalla realtà. Felicemente immerso nel suo trionfo, l’usuraio non vede ciò che accade realmente intorno a sé, dando per scontata l’attesa della moglie, che crede di tenere in pugno ormai, di dominare, come sognava di dominare dal momento in cui l’ha eletta sua sposa e compagna di vita.

VIII. Appena cinque giorni prima del suicidio, l’usuraio ascolta sua moglie cantare e la sua voce spezzarsi durante il flebile canto: il velo – finalmente – si squarcia. L’uomo, in preda all’«estasi», si inginocchia al cospetto della donna, le bacia i piedi, le giura con foga che inizieranno insieme una nuova vita, altrove, lontano dalla trappola pietroburghese, e così facendo la spaventa e la snerva: «Ma io pensavo che voi mi avreste lasciata così», sussurra la donna, tramortita. Si tratta della prima manifestazione d’affetto nella loro vita coniugale, cinque giorni dopo la quale lei si uccide gettandosi dalla finestra, l’icona della Madonna stretta a sé (di seguito il momento del suicidio, a cui assiste la serva):

«Lei sta accanto al muro, proprio vicino alla finestra, con il braccio appoggiato alla parete, e sul braccio ha appoggiato la testa, sta così e pensa. Ed è profondamente assorta al punto da non sentire che io sto qui e la guardo da questa stanza. La vedo, è come se sorridesse, sta là, pensa e sorride. L’ho guardata per un po’, poi mi sono voltata in silenzio e sono uscita, pensando tra me e me; solo che all’improvviso sento che è stata aperta la finestra. Allora vado a dirle che “fa fresco, Signora, attenta a non raffreddarvi” e d’un tratto vedo che lei è salita sulla finestra e sta già in piedi, in tutta la sua altezza, sulla finestra aperta, con la schiena verso di me, e in mano tiene l’icona. A quel punto il cuore mi è mancato, grido: “Signora, Signora!”. Lei mi ha sentito, ha fatto il gesto di girarsi verso di me, ma non si è voltata, invece ha fatto un passo avanti, si è stretta l’icona al petto e si è buttata dalla finestra!» (66).

L’uomo del sottosuolo è per definizione inopportuno, inadeguato, anti-empatico. Nei rapporti interpersonali sbaglia tutto, combinando autentici disastri. Così, accorgendosi finalmente del valore della donna che gli sta accanto, che ha scelto come sua compagna di vita, l’usuraio non ha la sensibilità, non ha il tatto di procedere con cautela, adagio, ma travolge la moglie con dimostrazioni d’amore morboso, esasperato, spaventandola, snervandola, perdendola per sempre. Perché la mite è troppo onesta, dunque troppo severa con se stessa, per mettere da parte, per superare il disprezzo che nutre verso il marito, contro il quale ha puntato una rivoltella carica, e ricominciare con lui una nuova vita, facendo finta di niente.

IX. «Ha avuto paura del mio amore, si è chiesta seriamente: accettarlo o non accettarlo? e non ha sopportato quell’interrogativo, le è parso meglio morire. Lo so, lo so, non c’è ragione di rompersi il capo; aveva sentito fin troppe promesse e ha temuto che non fosse possibile mantenerle, è chiaro» (67); «La ragione è semplicemente che con me avrebbe dovuto esser onesta; avrebbe dovuto amarmi, e amarmi senza riserve, e non come avrebbe amato il negoziante. Ed essendo lei troppo casta, troppo pura per consentire a un amore come quello che avrebbe preteso il negoziante, non mi ha voluto ingannare. Non ha voluto ingannarmi con un mezzo amore o con un quarto d’amore spacciato per amore nella sua pienezza. Era onestissima, ecco il punto!» (67-68), ipotizza l’usuraio, che intanto sprofonda nella disperazione più cupa, precipita di nuovo nell’incubo della solitudine, con il suo pessimismo nero che erompe sulla pagina suggellando il racconto:

«Gli uomini sono soli sulla terra, ecco la sciagura! “C’è ancora sul campo un uomo vivo?” grida l’eroe russo. Lo grido anch’io che non sono un eroe, e nessuno risponde. Dicono che il sole dia vita all’universo. Il sole sorge, ma guardatelo, non è forse morto? Tutto è morto e dappertutto stanno cadaveri. Soltanto uomini soli, e intorno a loro regna il silenzio: ecco la terra!» (71).

Insieme con la mite, per l’usuraio, muore il mondo intero, una terra desolata e silenziosa popolata di cadaveri. La salvezza dell’uomo del sottosuolo sta nell’altro, nella donna, la sola donna capace di amarlo, perché è da se stesso che deve essere salvato, e da se stessi non ci si salva da soli. L’usuraio lo comprende, ma quando è ormai troppo tardi, quando la sua salvezza, gettatasi dalla finestra, giace priva di vita sulla tavola, ed è questo uno degli aspetti di quella verità cui egli giunge al termine del racconto:

«Anche per lui – come per il protagonista dei Ricordi dal sottosuolo – la salvezza è vicina e gli viene offerta dalla mano che gli tende la moglie, la “Mite”, una delle figure più toccanti di Dostoevskij, donna fragilissima, ma intrepida nel rifiuto di accettare il rapporto che il marito vorrebbe imporle, il classico rapporto di succubo-incubo. L’amore di lei potrebbe salvarlo, ma egli è “fatalmente” costretto a respingere quella mano perché non può nemmeno concepire il valore di ciò che essa gli offre, cioè un autentico rapporto di amore. Da vera creatura del sottosuolo egli non conosce altro rapporto che quello di dominatore-dominato, e per lui la moglie può essere […] soltanto una succube, soltanto un mezzo per sfogare il suo represso desiderio di potenza e per ottenere un’impossibile rivincita nei confronti del mondo. Il racconto si conclude con il suicidio della Mite, e soltanto allora – troppo tardi – egli arriva a comprendere la verità che – dice Dostoevskij nell’Avvertenza premessa al racconto – “implacabilmente eleva la sua mente e il suo cuore”» [13].

L’usuraio raggiunge la verità, ma per lui ogni possibilità di salvezza è distrutta per sempre, e il mondo non è altro che una terra desolata e silenziosa popolata di cadaveri. In qualunque caso, che si sposi oppure resti volontariamente solo, come l’uomo-topo, che allontana da sé, e con sopraffina crudeltà, la povera prostituta Lisa, per l’uomo del sottosuolo non esiste salvezza. Egli è condannato per sempre a se stesso.

NOTE

[1] Per un approfondimento su questi personaggi rimando ai contributi Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso. Capitolo sesto – Smerdjàkov, l’anima nera del romanzo, Aleksèj Niljč Kirillov, l’Uomo-Dio, Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parte, Seconda parte.

[2] Fëdor Dostoevskij, Diario di uno scrittore, traduzione di Ettore Lo Gatto, Bompiani, Milano 2010, p. 606.

[3] Paolo Di Stefano, Una questione di minuti, in Fëdor Dostoevskij, La mite, Feltrinelli, Milano 2015, p. IX.

[4] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 141.

[5] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parte, Seconda parte.

[6] Per un approfondimento sul pensiero dello scrittore russo rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.

[7] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, cit., p. 141.

[8] Fëdor Dostoevskij, La mite, traduzione di Patrizia Parnisari, cit., p. 3. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[9] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, cit., p. 153.

[10] Ivi, pp. 153-154.

[11] «Ecco, sentite: “Maestra prepara per tutte le scuole (sentite, per tutte) e dà lezioni di aritmetica”, una riga sola, ma classica! Prepara per le scuole; dunque, s’intende, anche per l’aritmetica? No, per l’aritmetica è detto a parte. Questa è la pura fame, è già l’ultimo grado della miseria. Ma quel che commuove qui è appunto questa inesperienza: evidentemente, non si è mai preparata a fare la maestra, e difficilmente sarà in grado d’insegnare qualcosa. Ma non ha scampo, porta al giornale l’ultimo rublo e fa pubblicare che prepara per tutte le scuole e, per di più, dà lezioni di aritmetica» (Fëdor Dostoevskij, L’adolescente, introduzione di Eridano Bazzarelli, Rizzoli, Milano 2011, pp. 166-167). Per un approfondimento sul personaggio rimando al contributo Personaggi e temi dell’«Adolescente» di Dostoevskij. Capitolo quinto – Kraft e Olja ovvero l’epidemia dei suicidi.

[12] Per un approfondimento sulle opere di Goethe e di Sokurov rimando ai contributi Alcune superflue considerazioni sul monumentale Faust di Goethe, Il Faust morto di fame di Aleksandr Sokurov.

[13] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, cit., p. 141.

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