24 gennaio 1920. Il freddo ringhiava sui vetri appannati dell’Hôpital de la Charité come un demonio di fronte una chiesa, mentre le finestre cominciarono a piangere lacrime di condensa. Nella stanza le brandine si spartivano gli spazi accavallandosi come stracci buttati, sporchi di sudore e pochi grammi di vita. Era affollata la sala, eccessivamente per essere le 5 del mattino: un capannello si stringeva intorno al corpo bianco e smunto di Amedeo Modigliani, l’italiano. Jacques Lipchitz, scultore della grande famiglia degli ebrei slavi (come Soutine, Chagall, Kisling e tanti altri presenti a Parigi in quegli anni) stava cominciando a cospargergli il volto d’olio: di lì a breve avrebbe ingessato il suo viso per trarne una maschera mortuaria che sarebbe passata alla storia. La sua bellezza se n’era andata, la malattia lo aveva mangiato pian piano: aveva perso alcuni denti, due incisivi, e le membra sembravano essere state aspirate dall’interno.
Eppure, l’alba di quel 24 gennaio fu il momento esatto in cui nacque Amedeo Modigliani, l‘artista. Si, è vero, in molti casi si può parlare di quanto la morte sia stata ben più dolce della vita, ma in pochissimi casi il passaggio è stato così rapido. Già dal funerale, di cui Kisling si occupò di saldare il conto di circa 1500 franchi donati dai molti amici di Modì, si percepì che il vento era cambiato. A raccontarlo non furono solo i suoi compagni di avventure, ma persino i giornali. Tra questi è memorabile il contributo de Le Figaro, nella figura del critico André Warnod (che, a onor di cronaca, conosceva già Modigliani in vita).
“Furono magnifiche esequie, a cui presenziarono Montparnasse e Montmartre: pittori, scultori, poeti e modelli. Il loro straordinario corteo scortava il carro funebre coperto di fiori. Al suo passaggio, a tutti gli incroci, gli agenti della polizia si mettevano sull’attenti e facevano il saluto militare. Modigliani salutato proprio da coloro che l’avevano tanto spesso ingiuriato! Che rivincita!”
André Warnod, Le Figaro
In pochi giorni chiunque possedeva un Modigliani si affrettò a venderlo, pronto di un sicuro profitto. Le ragazze, i proprietari dei locali, o chiunque altro avesse avuto la fortuna di ricevere un “dessin à boire”, vennero presi d’assalto dai cercatori di opere. Quel poco che rimaneva nel suo ultimo studio, in rue de la Grande Chaumière, si trasferì prima dal suo agente e poi nelle più note collezioni del mondo, lasciando l’immobile arredato solo di un vecchio tavolato e delle scatole di sardine vuote rivolte a terra.
Fu però da quella sala dell’ Hôpital de la Charité – istituito da Maria de’ Medici tre secoli prima – che prese il volo Modigliani, l’italiano, sancendo l’inizio peregrino di leggende, dicerie e voci che pretendono nell’italiano il “sinonimo” di eccessi, maledizioni, amore sfrenato e alcolismo becero.
Ma di questo non incolpate Modigliani, l’artista. Tanto meno la sua arte.