«Quell’esempio di sillogismo che aveva studiato nel manuale di logica del Kiesewetter, Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, perciò Caio è mortale, gli era sembrato, per tutta la vita, valido solo in rapporto a Caio, e in alcun modo in rapporto a se stesso».
«Il matrimonio… era stato un caso, e la delusione, e l’odore della bocca della moglie, e la sensualità, una finzione! E quel lavoro morto, e le preoccupazioni per i soldi, e così un anno, e due, e dieci, e venti, sempre uguale. E più si andava avanti, più si incontravano delle cose morte. Come se fossi sceso da una montagna, immaginando di salire. Era stato così. Per la pubblica opinione io salivo e sotto di me, la vita, parallelamente, se ne andava… E adesso, fatto, muori!»
I. Pubblicato nel 1886, il racconto La morte di Ivan Il’ič è il primo grande risultato narrativo del secondo Tolstoj, quello successivo alla conversione del 1881 [1]. In questo piccolo – fisicamente – ma enorme – artisticamente, filosoficamente e moralmente – capolavoro della letteratura d’ogni tempo e luogo, Tolstoj rappresenta, come indica il titolo dell’opera, la fine del rispettabile membro della Corte d’Appello Ivan Il’ič Golovin, e tutto il processo interiore che essa innesca in un individuo ignaro, fino al momento della sua dipartita, di quella che, di fatto, s’impone come l’unica, autentica verità accessibile all’uomo: la propria morte. Ivan Il’ič, causa la misteriosa e indefinibile malattia «che lo colpisce proprio al vertice della carriera e dell’appagamento delle sue ambizioni» [2], in seguito a una sciocca caduta avvenuta in casa, scopre la propria mortalità, la propria finitezza, e con essa la «menzogna» che ha dominato la sua vita e domina l’intero suo ambiente alto borghese. La morte insomma squarcia, riduce a brandelli quel velo di falsità nel quale Ivan Il’ič è vissuto per oltre quarant’anni, mostrando le cose per quello che effettivamente, spaventosamente sono. Al contrario del principe Nechljudov, protagonista di Resurrezione, l’ultimo e più grande romanzo di Tolstoj [3], il giudice Golovin, scoperta l’atroce verità, non ha la possibilità di imprimere una svolta alla sua vita, completamente «sbagliata», ma almeno muore con la consapevolezza dell’errore che ha guidato la sua esistenza, fino a pochi mesi dalla fine, e guida le esistenze vuote di tutti quelli come lui. In questo senso, La morte di Ivan Il’ič s’impone come una delle opere più spietate del secondo Tolstoj, che al protagonista di questo racconto concede appena il tempo di ravvedersi, per scomparire subito dopo e liberare se stesso e i familiari dalle sofferenze tremende che ne hanno avvelenato gli ultimi giorni di vita. Se in Resurrezione e in Padre Sergij, citando un altro grande capolavoro tolstoiano post conversione [4], al ravvedimento segue l’azione ovvero la vita, nella Morte di Ivan Il’ič al ravvedimento segue appena un’ora di pace – l’ultima ora – e poi la morte ovvero il nulla, perché la morte è solo nella vita (come nello Straniero, dove Camus riconduce Meursault alla vita per poterlo poi uccidere, o meglio, farlo uccidere [5]).
II. Il racconto si apre con l’annuncio della morte del membro della Corte d’Appello Ivan Il’ič Golovin, scomparso a quarantacinque anni dopo una lunga malattia. Tra i colleghi del defunto, che apprendono la notizia dal quotidiano «Vedomosti», il primo pensiero va al significato che può assumere la morte di Ivan Il’ič «in relazione ai trasferimenti o alle promozioni loro o dei loro conoscenti», e il sentimento dominante tra questi illustri uomini di giustizia è la gioia, la «gioia per il fatto che il morto era lui, e non io»: «”Quello lì è morto, e io invece no,” pensava o sentiva ciascuno di loro» [6]. In questo contesto d’interesse spietato e di cinismo disumano, la visita a casa del defunto, imposta dalle convenienze sociali, non è altro che un fastidio, da sbrigare in fretta, evitando di perdere tempo prezioso, da investire nel piacere di una partita a carte con gli amici. Lo sa bene Pëtr Ivanovič, che si reca a casa di Ivan Il’ič e, dopo essere stato interrogato dalla moglie del defunto collega sulla possibilità di ottenere dal governo il massimo dei soldi per la morte del marito, è costretto ad assistere alla cerimonia funebre, rischiando così di saltare la partita a carte. Non c’è commozione. Non c’è cordoglio. Il racconto si apre all’insegna di quella spietatezza caratteristica del secondo Tolstoj, smascheratore implacabile delle umane ipocrisie.
III. Dal secondo capitolo del racconto Tolstoj inizia a riavvolgere il nastro, e la storia di Ivan Il’ič precedente alla sua morte è la più «semplice e comune» e, al tempo stesso, la più «orribile». Orribile come tutte le storie riguardanti borghesi e aristocratici, perché ingiuste e immorali, intessute di piccoli delitti quotidiani non solo tollerati, ma giustificati e persino incentivati dalla società. Si pensi alla storia di Nechljudov oppure a quella dello stesso Tolstoj, come ce la presenta nella Confessione. Dopo una giovinezza ovviamente scapestrata Ivan Il’ič, degno figlio di suo padre, consigliere segreto, «inutile membro di varie inutili istituzioni», intraprende con successo la carriera giudiziaria e diviene uno dei tanti funzionari che dispongono della vita di milioni di persone per un assurdo pregiudizio, di presunta superiorità morale, come se la conoscenza di leggi e codici bastasse ad accrescere lo spessore umano di un individuo, contraddicendo così uno dei principali insegnamenti cristiani riassunto memorabilmente dallo stàrec Zòsima nei Fratelli Karamazov:
«Tieni soprattutto a mente che non puoi essere giudice di nessuno. Infatti, nessuno su questa terra può giudicare il delinquente senza aver prima riconosciuto di essere egli stesso un delinquente come colui che gli sta davanti, e che di quel delitto egli è forse più responsabile di chiunque altro» [7].
A questa stessa conclusione approderà il principe Nechljudov in Resurrezione, dopo aver fatto esperienza in prima persona della terribile realtà carceraria russa dell’epoca. Effettivamente, al di là della fede in Cristo, del suo messaggio di eguaglianza veicolato da Zòsima, come può un uomo ritenersi così giusto da arrogarsi il diritto di giudicare un suo simile? È la semplice appartenenza di questo presunto giusto al genere umano a rivelare tutta l’infondatezza, tutta l’assurdità del suo compito, reso necessario solamente da un secolare pregiudizio che, secondo il punto di vista cristiano di Dostoevskij e di Tolstoj, viene distrutto dall’applicazione del modello esistenziale e sociale – perché anche di questo si tratta – fornito dal Vangelo.
Tornando a Ivan Il’ič, la sua tranquilla e piacevole vita da scapolo va in frantumi con il matrimonio, tra i principali bersagli critici del secondo Tolstoj – mentre il primo si caratterizza per l’esaltazione della felicità coniugale, come mostra, tra i tanti casi, quello di Levin in Anna Karenina, criticato aspramente da Dostoevskij -, fino alla massima espressione di rifiuto del legame matrimoniale rappresentata dalla Sonata a Kreutzer, dove lo scrittore arriva a individuare nell’estinzione del genere umano lo scopo del cristianesimo – perché in fondo Cristo non ha mai parlato di matrimonio [8] -. L’unione di Ivan Il’ič con Praskov’ja Fëdorovna è fatta di litigi continui, di continui dissapori alimentati dall’arrivo dei figli, dalle loro malattie reali e immaginarie. Tra i due coniugi resistono solo pochi attimi di tenerezza, di tregua, piccole isole felici via via sempre più rare. Il protagonista si getta con foga nel lavoro trovandovi l’unica forma di distrazione e di consolazione, ritagliandosi grazie ad esso uno spazio privato che gli garantisce un solido e inespugnabile rifugio dall’inferno familiare.
IV. Proprio nel momento in cui la sua vita ritrova un nuovo ed entusiasmante slancio, grazie a una promozione insperata, al trasferimento nell’immaginifica Pietroburgo e all’arredamento del nuovo appartamento, che cura in prima persona in ogni minimo dettaglio, Ivan Il’ič, in seguito a una banalissima caduta, è vittima di una malattia misteriosa, indefinibile. Una malattia che inizia a roderlo, a succhiarlo dall’interno, rendendogli la vita ogni giorno più fastidiosa, con quel dolore fisso al fianco che non lo abbandona neppure per un istante e con quel continuo sapore disgustoso in bocca che contamina tutti i cibi, anche quelli più sofisticati e ricercati. Il male distrugge le piccole soddisfazioni quotidiane di Ivan Il’ič, come una vittoria alla corte, e amplifica a dismisura l’insoddisfazione degli insuccessi, avvelenando la sua vita e, di conseguenza, la vita di chi gli sta intorno, senza alcuna possibilità di porvi rimedio:
«Cenavano, e se ne andavano, e Ivan Il’ič restava solo con la coscienza del fatto che la sua vita era avvelenata, che lui avvelenava la vita degli altri e che questo veleno non diminuiva, ma intossicava sempre di più il suo essere.
E con la coscienza di ciò, e con il dolore fisico, oltretutto, e con l’orrore bisognava stendersi a letto, e spesso non dormire, per il male, per gran parte della notte. E il mattino dopo bisognava ancora alzarsi, vestirsi, andare in tribunale, parlare, scrivere e, se non c’era da andare in tribunale, stare a casa con quelle ventiquattr’ore su ventiquattro ciascuna delle quali era un tormento. E bisognava vivere così, da solo, con un piede nella fossa, senza una persona che ti capisse e ti compatisse» (60).
Ivan Il’ič sente la vita sfuggirgli, andarsene via per sempre, senza che egli riesca a trattenerla. Ormai è solo questione di tempo. A renderlo consapevole di ciò sono la vista del proprio impressionante cambiamento esteriore – sintetizzato così dal cognato, con spietatezza dunque con straordinaria efficacia: «Non vedi che è un uomo morto, guardagli gli occhi. Non c’è luce» – e l’inefficacia delle cure, che non eliminano il dolore fisso al fianco e il continuo sapore schifoso che infesta la bocca. Dopo lo sconforto causato dall’inefficacia dell’ennesimo farmaco, sconforto acuito dall’illusione iniziale di un miglioramento, Ivan Il’ič prende coscienza del fatto inevitabile che sta morendo, e subito le sue riflessioni, alimentate dalla rabbia e dalla vendetta, infrangono il contingente per assumere un carattere generale, investendo tutti gli uomini che lo circondano, così pieni di salute e indifferenti non solo al suo stato miserevole (tra le tante cose, a causa della malattia il protagonista sperimenta per la prima volta nella sua vita l’incomprensione, perché solo tu, tu e nessun altro, puoi comprendere davvero il tuo male e sentire l’effetto distruttivo che ha su di te), ma anche al destino che li attende tutti, indistintamente, buoni o cattivi, belli o brutti – «coglioni» tutti:
«”Non ci sarò più. E cosa ci sarà? Non ci sarà niente. E dove sarò, quando non ci sarò più? Davvero la morte? No, non voglio.” Era saltato in piedi, avrebbe voluto accendere la candela, aveva frugato in giro con le mani tremanti, aveva fatto cadere candela e candelabro sul pavimento e si era lasciato cadere, all’indietro, sul cuscino. “Perché? È lo stesso…” si era detto, guardando nel buio con gli occhi aperti. “È la morte. Sì, la morte. E nessuno di loro lo sa, e non vogliono saperlo, e non hanno pietà. Giocano. (Sentiva, lontano, oltre la porta, rumore di voci, canzoni.) Per loro è lo stesso, eppure moriranno anche loro. Coglioni. Oggi tocca a me, domani a loro; toccherà anche a loro. E si divertono. Bestie!” La rabbia lo soffocava. E aveva addosso un tormento straziante, un peso insopportabile. E non era possibile che tutti, sempre, fossero condannati a un orrore del genere. Si era alzato.
“Non è possibile: bisogna calmarsi, ripensare a tutto dall’inizio.” E si era messo a pensare: “Sì, l’inizio della malattia. Ho picchiato il fianco ma ero quello di sempre; mi faceva un po’ male, poi di più, poi i dottori, poi la tristezza, l’angoscia, ancora i dottori: e ero sempre più vicino all’abisso. Calavano le forze. Sempre più vicino, sempre più vicino. E adesso sono indebolito, e non ho più luce negli occhi. E è la morte, e io penso all’intestino. Penso a come guarire l’intestino, e invece è la morte. Davvero è la morte?”. L’aveva preso di nuovo il terrore, respirava a fatica, ansimava, si era piegato in avanti, cercava i fiammiferi, aveva urtato col gomito il comodino. Gli aveva fatto male, e si era arrabbiato col comodino, e per la rabbia gli aveva dato un colpo più forte, e il comodino si era rovesciato. E disperato, ansimando, era ricaduto sulla schiena, aspettando, adesso, la morte» (64-65).
Ivan Il’ič sprofonda «in uno stato di permanente disperazione», in una sabbia mobile d’inconsolabilità dovuta alla scoperta della propria fine, della propria mortalità, fino a questo momento ignorata come se non si trattasse in realtà dell’unica verità accessibile all’uomo:
«Quell’esempio di sillogismo che aveva studiato nel manuale di logica del Kiesewetter, Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, perciò Caio è mortale, gli era sembrato, per tutta la vita, valido solo in rapporto a Caio, e in alcun modo in rapporto a se stesso» (66).
Ormai tutti gli schermi utilizzati in passato per mascherare la morte, per nascondere questo naturalissimo scandalo, come l’impegno lavorativo indefesso e stordente, non funzionano più. Ormai la verità – la morte – si è rivelata a Ivan Il’ič e ogni suo sforzo per distrarsi è perfettamente, spaventosamente vano:
«[…] d’un tratto, nel mezzo della seduta, il dolore al fianco, che non aveva nessun rispetto dei lavori processuali, ricominciava il suo lavoro, quel succhiare. Ivan Il’ič si era messo in ascolto, aveva cercato di respingere il pensiero di lei, ma il lavoro al fianco era continuato, e lei era arrivata, gli si era fermata proprio di fronte, e lo guardava, e lui si era fatto di pietra, il fuoco gli si era spento negli occhi e aveva ricominciato a chiedersi: “Possibile che sia solo lei la verità?”. E i colleghi e i subordinati vedevano con stupore e dispiacere che lui, un così brillante, così sottile giudice, si confondeva, si sbagliava. Ivan Il’ič si riscuoteva, cercava di riaversi, arrivava, in qualche modo, alla fine dell’udienza e tornava a casa con la triste consapevolezza che il suo lavoro in tribunale non riusciva più, come prima, a nascondergli quello che lui voleva nascondere, che il suo lavoro in tribunale non lo salvava da lei. E quel che era peggio era il fatto che lei l’attirava a sé non perché facesse qualcosa, ma solo perché lui la guardasse dritto negli occhi, perché la guardasse e, senza far niente, si tormentasse in modo indescrivibile» (68).
La morte, di nuovo, è l’unica verità. La morte compenetra tutto e niente può oscurarla. E con la morte non c’è niente da fare, «solo guardarla e rabbrividire». In questo stato di irreversibile disfacimento, di lento ma inesorabile dissolvimento psico-fisico, Ivan Il’ič non può contare neppure sul conforto degli affetti, perché «tutto l’interesse che gli altri provavano per lui consisteva nella domanda se avrebbe lasciato libero presto, finalmente, il proprio posto, se avrebbe liberato i vivi dall’imbarazzo prodotto dalla propria presenza, e se avrebbe liberato se stesso dalle proprie sofferenze» (70). Eppure, a ben vedere, una figura consolante vicino al moribondo Ivan Il’ič c’è: il giovane servo Gerasim, che si prende cura di lui senza farglielo pesare, con amorevole premura. E la salute, l’energia, la forza vitale del giovane e forte Gerasim non offendono il protagonista, ma lo tranquillizzano. Solo il giovane servo ha pietà di lui, mentre per tutti gli altri la sua malattia, la sua agonia non è altro che un fatto casuale, sgradevole e indecoroso. Gerasim è l’unico che non mente, mentre tutti gli altri uomini che si muovono attorno a Ivan Il’ič sono uniti nella menzogna della sua guarigione, perché Gerasim comprende davvero la situazione, la domina, sperando «che anche per lui qualcuno, a suo tempo, avrebbe fatto la stessa cosa». In questo senso, è emblematico che sia proprio un uomo del popolo a imporsi come l’unica figura positiva del racconto. Su di essa Tolstoj concentra tutta la propria fiducia, tutto il proprio amore nei confronti del popolo russo, di cui, dopo la conversione del 1881, diviene l’«apostolo», citando Michelstaedter [9], quel popolo che, al contrario dei ricchi, colti, appagati «parassiti» aristocratici e alto borghesi come Ivan Il’ič, nonostante la fame, nonostante l’ignoranza, attraverso l’incondizionata fede in Dio, possiede la conoscenza, la verità, che lo porta ad accettare con serena, pacifica rassegnazione e persino gioia le disgrazie della vita, morte compresa, di cui è perfettamente consapevole: «Solo agli esseri intransitivi e incolpevoli, ai “non proprietari”, potrà forse spettare (secondo l’essenziale metafora del racconto) il privilegio di morire di una morte giusta e gratuita, istantanea e incosciente. Gli altri, gli Ivan Il’ič, devono conquistare, anzi acquistare il diritto alla morte, lentamente e costosamente, come una salvezza altrimenti impossibile» [10].
V. La malattia conduce Ivan Il’ič a una monotonia terribile, in cui i giorni della settimana sono tutti uguali e non c’è altro oltre al dolore continuo, ininterrotto, sordo, tormentoso, e alla morte, che s’impone come l’unica realtà: «Sempre la stessa cosa. Brillava una goccia di speranza, e si gonfiava un mare di disperazione, e sempre quel dolore, sempre quel dolore, sempre quell’angoscia e sempre, sempre la stessa cosa» (77). La scrittura battente, martellante, quasi ossessionante di Tolstoj rappresenta alla perfezione quella piatta, grigia e dolorosissima uniformità che caratterizza la lenta agonia del protagonista, il suo processo di disfacimento al rallentatore.
Ivan Il’ič finisce inevitabilmente per ripercorrere la propria esistenza, ripassando i suoi momenti migliori, e trova autentica gioia solo nell’infanzia. Tutto il resto, ovvero i presunti ricordi piacevoli legati all’Ivan Il’ič contemporaneo si sciolgono e si trasformano, assumendo l’inconsistenza di qualcosa «di insignificante e spesso di repellente». Più il protagonista procede avanti nella sua rievocazione ed esplorazione del passato e meno trova del buono:
«Il matrimonio… era stato un caso, e la delusione, e l’odore della bocca della moglie, e la sensualità, una finzione! E quel lavoro morto, e le preoccupazioni per i soldi, e così un anno, e due, e dieci, e venti, sempre uguale. E più si andava avanti, più si incontravano delle cose morte. Come se fossi sceso da una montagna, immaginando di salire. Era stato così. Per la pubblica opinione io salivo e sotto di me, la vita, parallelamente, se ne andava… E adesso, fatto, muori!» (85).
Ivan Il’ič si avvede così di quanto la sua vita, dall’infanzia in poi, sia stata «orribile» (si ricordi la prima frase del secondo capitolo del racconto). Immerso in una solitudine totale, tanto più radicale perché in una città piena di gente, circondato da familiari, conoscenti, medici e servi, Ivan Il’ič vive la propria agonia, la propria morte «solo immaginando il passato», e ogni giorno di più si rende conto che l’unico punto luminoso della sua vita è rappresentato dall’infanzia, oltre e dopo la quale tutto è nero e veloce, «inversamente proporzionale al quadrato delle distanze della morte». Ivan Il’ič si domanda perché tutto ciò, perché tanto strazio, perché tanta immeritata – secondo il suo punto di vista di borghese benpensante – sofferenza, ma ovviamente non trova risposta. Passano i giorni, tutti spaventosamente uguali e tetri, e le sofferenze morali finiscono per prendere il sopravvento su quelle fisiche, alimentandole come benzina il fuoco. Osservando Gerasim, il suo bel volto assonnato, bonario, Ivan Il’ič è trafitto – finalmente, verrebbe da dire – da un pensiero terribile: che la sua vita sia stata davvero tutta sbagliata. E ciò che all’inizio si manifesta come un subdolo e sgradevole sospetto, riesaminando la vita da cima a fondo diviene ben presto implacabile e dolorosissima verità, confermata senza scampo dalla vista dei familiari e dei conoscenti:
«Gli era venuto in mente che quello che prima gli sembrava impossibile, l’idea di non aver vissuto la propria vita come avrebbe dovuto, poteva essere la verità. Gli erano venute in mente certe sue pretese di lotta, appena percepibili, contro quello che veniva considerato buono dalle persone altolocate, pretese appena accennate che lui aveva subito allontanato da sé; gli era venuto in mente che proprio quelle potevano essere giuste, e tutto il resto poteva essere sbagliato. E il suo lavoro, il suo modo di stare al mondo, e la sua famiglia, e gli interessi sociali e professionali: tutto questo poteva essere sbagliato. Aveva tentato di difendere, di fronte a se stesso, queste cose. E d’un tratto aveva sentito tutta la debolezza di quello che difendeva. Non c’era niente da difendere» (90).
Ivan Il’ič ricorda, rievoca e, così facendo, di fatto, si processa, ponendosi per la prima volta dall’altra parte, sul banco degli imputati. E si scopre colpevole, lui che ha sempre uniformato la propria vita a quella delle persone altolocate, dei «parassiti» aristocratici, soffocando quelle autentiche e giuste «pretese di lotta» che rappresentavano la parte migliore di se stesso, sepolta sotto un cumulo di convenienze e di interessi sociali e professionali. Ivan Il’ič scopre che nella sua vita è stato tutto sbagliato, scopre che tutto ciò di cui e per cui è vissuto non è stato altro che una menzogna, una menzogna che gli ha nascosto la vita, la vita autentica di Gerasim, e la morte, che ora lo trascina via come la corrente, e tra tutte le figure che gli gravitano mollemente attorno, una in particolare glielo ribadisce con forza e spietatezza: la figura della moglie, complessivamente, il suo vestito, la sua costituzione fisica, con quel seno prosperoso, abbondante, l’espressione del suo volto, il suono della sua voce. Ivan Il’ič finalmente si ravvede, ma non ha tempo per imprimere alla sua vita quella svolta che costituisce uno degli espedienti narrativi principali del secondo Tolstoj, e si ricordino ancora i casi emblematici di Nechljudov in Resurrezione e di Kasatskij in Padre Sergij. La morte ormai lo ha afferrato e lo trascina giù, sempre più giù, in un abisso di sofferenza psico-fisica senza fondo.
VI. Nell’ultima ora della sua vita, dopo tre giorni senza tempo segnati da un unico, ininterrotto e straziante grido di disperazione che abbatte le pareti dello sfarzoso appartamento pietroburghese dei Golovin, Ivan Il’ič, ormai perfettamente consapevole del fatto che la sua vita non è stata come avrebbe dovuto essere, si accorge che a questo, nonostante la fine imminente, si può ancora rimediare. Sente il figlio – distrutto da un dolore autentico – baciargli la mano, lo osserva e prova pietà per lui. Vede la moglie, con la bocca spalancata, le lacrime che sgorgano e scorrono libere sul naso e sulle guance, senza che lei le trattenga o le asciughi, il suo sguardo disperato, e prova pietà per lei, l’essere che più di tutti ha odiato al mondo. Allora Ivan Il’ič si scusa con la moglie per tutto il tormento che ha dovuto subire per causa sua, per la sua malattia e il suo dolore incessante e insopportabile, e quell’«usami» estenuato, persino ridicolo in luogo dello «scusami» concepito ma storpiato dallo sfinimento, pronunciato dal protagonista, s’impone come un esito narrativo straordinario e memorabile, al pari del bacio di Cristo in conclusione del Grande Inquisitore di Dostoevskij [11]. Ivan Il’ič ora, perfettamente tranquillo, sa cosa bisogna fare: liberare se stesso e i familiari dalle sofferenze. E la paura della morte, che lo ha tormentato ogni singolo giorno, ogni singola ora, ogni singolo minuto negli ultimi mesi, svanisce, perché non c’è più nessuna morte. Invece della morte c’è la luce. Ciò che finisce non è la vita ma la morte. «È finita la morte», dice Ivan Il’ič a se stesso, «Non c’è più», e muore, a metà del suo ultimo respiro.
Tra i tanti, innumerevoli spunti forniti da Tolstoj nel racconto, in conclusione ne scelgo uno: se ogni uomo avesse la possibilità di vivere la propria agonia, di vivere la propria morte per poi riprendersi e tornare alla vita, il mondo sarebbe di certo un posto migliore, meno falso e più autentico.
NOTE
[1] Per un approfondimento sulla conversione dello scrittore russo rimando al contributo Lev Tolstoj, «La confessione»: o Dio o la morte.
[2] Serena Vitale, Introduzione a Lev Tolstoj, Resurrezione, Garzanti, Milano 2013, p. XXXVI.
[3] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo «Resurrezione», l’ultimo e più grande romanzo di Lev Tolstoj. Introduzione, Prima parte, Seconda parte, Terza parte.
[4] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Padre Sergij, oltre se stessi.
[5] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Albert Camus, Lo straniero: dall’insensibilità alla vita.
[6] Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, a cura di Paolo Nori, Feltrinelli, Milano 2014, p. 25. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[7] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, pp. 328-329. Per un approfondimento sull’ultimo romanzo di Dostoevskij rimando allo studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso.
[8] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo «La sonata a Kreutzer»: Tolstoj contra il matrimonio.
[9] Carlo Michelstaedter, Tolstoj, in Id., Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, pp. 650-654. Per la lettura integrale dell’articolo e la sua analisi rimando al capitolo secondo della terza parte dello studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter, Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj.
[10] Serena Vitale, Introduzione a Lev Tolstoj, Resurrezione, cit., p. XXXVI.
[11] Per un approfondimento sul testo rimando al paragrafo sesto del capitolo quinto del già citato studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso, Ivàn, il nichilista estremo – V-VI.