Tolstoj in un ritratto di Nikolaj Ge

Lev Tolstoj, «La confessione»: o Dio o la morte

«”E allora cosa stai cercando ancora?” gridò a un tratto una voce dentro di me. “Eccolo dunque, il tuo Dio: egli è colui senza il quale non si può vivere. Conoscere Dio significa poter vivere. Dio è la vita. Vivi cercando Dio, e allora non ci sarà vita senza Dio.” E più forte che mai sentii che tutto s’illuminava in me e intorno a me, e quella luce non mi abbandonò più».

I. Scritto tra il 1879 e il 1882, La confessione è il testo che formalizza e annuncia la conversione di Tolstoj, ovvero quel processo di rivolgimento spirituale e filosofico totale che spacca perfettamente in due la vita dello scrittore russo, permettendo di distinguere nettamente tra un primo e un secondo Tolstoj. In questa breve, ma intensa e fondamentale opera, lo scrittore realizza una sorta di storia del proprio percorso filosofico-spirituale, illustrandone le varie fasi, i vari sviluppi, fino all’approdo definitivo a quella fede in Dio, intesa innanzitutto come ricerca, che sola è garanzia di vita, e senza la quale l’esistenza dell’uomo si perde nell’abisso del nulla. La confessione segna così un momento di svolta radicale, estrema – dostoevskiana oserei dire, in riferimento al procedere per strappi di molti dei più grandi personaggi di Dostoevskij, da Raskòl’nikov ad Aleksèj e Ivàn Karamazov -, dopo il quale niente sarà più come prima, anche e soprattutto a livello letterario, con Tolstoj che smette rabbiosamente gli sfarzosi e ridondanti abiti di «storico», come lo definisce Dostoevskij [1], dell’aristocrazia moscovita, per indossare quelli ben più umili, essenziali e necessari di «apostolo del popolo», come lo definisce Michelstaedter [2]. Insomma, conclusa la vanagloriosa, autoreferenziale fase dell’epica aristocratica, che trova in Guerra e pace e Anna Karenina i due massimi e più celebri risultati, si apre quella dell’etica cristiana, culminante in Resurrezione, l’ultimo e più grande romanzo di Tolstoj [3].

II. È l’ambiente aristocratico, con i suoi disvalori, quali «l’ambizione, l’avidità di potere, l’interesse, la sensualità, l’orgoglio, la collera, il desiderio di vendetta», a sviare il giovane Tolstoj dalla ricerca del bene, a reprimere la sua brama di giustizia e di rettitudine morale, potenzialmente propria di ogni uomo (contrario alla logica pessimistica dell’homo homini lupus, lo scrittore si caratterizza per una fiducia incondizionata nei confronti del genere umano, quella fiducia sulla quale si basano il cristianesimo e l’anarchia, la concezione cui è riconducibile il pensiero politico del secondo Tolstoj, come emerge, tra le tante opere dedicate a questo tema, dal saggio Guerra e rivoluzione [4]): «Ogni volta che tentavo di esprimere la mia aspirazione più profonda e sentita, ossia ad essere moralmente buono, non incontravo altro che disprezzo e irrisione, mentre venivo lodato e incoraggiato se mi abbandonavo alle passioni più disgustose» [5]. L’alta società si fonda su un paradosso, o meglio, su una vera e propria assurdità morale, che porta al completo rovesciamento dei valori: mentre si esaltano le più basse e turpi depravazioni, si biasimano e irridono le aspirazioni di bontà, di giustizia, di rettitudine. L’individuo nato e cresciuto in questo ambiente distopico è dunque costretto, pena l’esclusione, l’emarginazione e il pubblico dileggio, a una sorta di involuzione morale che lo porta a reprimere la parte migliore di se stesso, quella «spirituale», come Tolstoj la definirà in Resurrezione, lasciando campo libero alla sua parte peggiore, quella «animale» [6], il cui senso è perfettamente compendiato nel motto del vecchio Karamazov «après moi le déluge». Il giovane Tolstoj è dunque vittima di una metamorfosi immorale – come Nechljudov, che a causa dell’influenza negativa del bel mondo finisce per sedurre e abbandonare la povera Katjuša, decretando la rovina della donna – che segna l’intera sua giovinezza, macchiata inoltre dall’esperienza della guerra:

«Non posso ricordarmi di quegli anni senza orrore, senza disgusto, senza un profondo dolore. Uccisi degli uomini in guerra e altri ne sfidai a duello per ucciderli; giocavo e perdevo al gioco dilapidando il frutto del lavoro dei contadini, e per giunta li punivo, fornicavo, ingannavo. Menzogne, furti, adulteri, ubriachezza, violenze, omicidi… non ci fu delitto che io non abbia commesso, e per tutto questo venivo lodato e i miei coetanei mi consideravano – e tuttora mi considerano – come un uomo relativamente morale» (14).

Proprio in questo momento, il più immorale della sua vita, segnato da una serie di delitti il cui ricordo suscita vergogna e nausea, Tolstoj inizia a scrivere, ma senza una particolare vocazione superiore, etica, sociale, senza una missione, bensì solo ed esclusivamente «per vanagloria, per interesse e per orgoglio». Così, a ventisei anni, dopo la guerra, Tolstoj entra a far parte di quella congrega degli scrittori di cui ora vede con chiarezza tutta l’assurdità:

«Era una cosa assurda, ma che ora mi è perfettamente chiara. La nostra più intima e autentica aspirazione era quella di ricevere quanto più denaro e lodi fosse possibile, e per raggiungere questo fine non sapevamo far altro che scrivere libri e articoli per i giornali. E questo appunto facevamo. Ma per poterci dedicare a un’opera così inutile e avere al tempo stesso la convinzione di essere molto importanti, ci era anche indispensabile un qualche principio che giustificasse la nostra attività. E così l’individuammo in questo: tutto ciò che è reale è razionale e si evolve; il mezzo di tale evoluzione è l’istruzione e l’istruzione si misura in base al grado di diffusione di libri e di giornali. E noi venivamo pagati e rispettati perché scrivevamo libri e giornali, e quindi eravamo gli individui più utili, i migliori» (17-18).

Se Tolstoj fino a questo momento aveva basato la propria esistenza sull’aspirazione al perfezionamento personale, individuale, ora, divenuto ufficialmente scrittore, abbraccia una nuova fede, che s’impone come una vera e propria dottrina religiosa: la fede nel perfezionamento del genere umano, ovvero nel più celebre e al tempo stesso inconsistente, contraddittorio e deleterio mito moderno, il progresso. In realtà la fede nel progresso non è altro che una «superstizione […] con cui si nasconde a se stessi la propria incomprensione della vita» (19), e due eventi in particolare rivelano al giovane Tolstoj tutta l’inconsistenza, tutta l’insufficienza di questa sua nuova fede: il macabro spettacolo di un’esecuzione capitale, cui assiste durante il suo soggiorno parigino, e la dolorosa perdita del fratello:

«Quando vidi la testa dividersi dal tronco e l’uno e l’altra piombare separati nella cassa, compresi – non con l’intelligenza, ma con tutto il mio essere – che nessuna teoria della razionalità del reale e del progresso poteva giustificare un atto simile, e che se anche tutti gli uomini dell’universo, dalla creazione stessa del mondo, fondandosi su una qualsiasi teoria avessero sostenuto che era necessario, ebbene, io sapevo che non lo era, che era male, e che dunque il giudizio su ciò che era buono e necessario non poteva fondarsi su quello che gli uomini dicono o fanno, e neppure sul progresso, ma soltanto su di me, sul mio cuore. Un’altra occasione per riconoscere che la fede superstiziosa nel progresso era insufficiente per vivere fu la morte di mio fratello. Quest’uomo buono, serio, intelligente si ammalò in giovane età, soffrì per più di un anno e morì tra le sofferenze senza comprendere perché aveva vissuto e ancor meno perché doveva morire. Nessuna teoria poteva offrire una qualsiasi risposta a queste domande, né a me né a lui, durante il periodo della sua lenta e tormentosa agonia» (20).

Ma né lo spettacolo della pena di morte, né la morte del fratello, con tutte le domande scomode che questi due eventi-limite si trascinano dietro, distruggono la superstiziosa fede nel progresso del giovane Tolstoj, che resta convinto dell’evoluzione individuale e generale, rimandando a data da destinarsi la piena comprensione di questo fenomeno.

III. Con grande precisione Tolstoj distingue tra le varie fasi della sua vita, mettendo ordine a posteriori in ciò che in fieri è dominato dal disordine, ovvero lo sviluppo interiore di un uomo. Alla prima, giovanile fase dell’aspirazione al perfezionamento individuale, segue una seconda fase caratterizzata dall’aspirazione al perfezionamento generale (il progresso). Con il matrimonio si apre una terza fase, contraddistinta dall’aspirazione a procurare a se stesso e alla sua famiglia la migliore vita possibile. Tolstoj confessa – e la sua sincerità, tra le principali dimostrazioni dell’autenticità e della portata della svolta dovuta alla conversione, è davvero apprezzabile – di ritenere la letteratura, in questa terza fase della sua vita, nient’altro che una «sciocchezza», alla quale non rinuncia solo per migliorare le condizioni materiali proprie e della sua famiglia e distrarsi dalle insistenti domande sul senso della vita che iniziano pian piano ad assediarlo. Nelle opere di questo periodo Tolstoj insegna quella che per lui è l’unica verità: «che bisognava vivere in modo da procurare la migliore esistenza possibile a sé e alla propria famiglia» (23). Viene in mente la vicenda di Levin in Anna Karenina, che alla fine del romanzo antepone la soddisfazione familiare a tutto il resto, e il giudizio severo che di questo approdo dà Dostoevskij nel fascicolo di luglio-agosto del Diario di uno scrittore – 1877, concluso con una domanda che risuona come un’implacabile accusa: «Uomini come l’autore di Anna Karenina sono maestri della società, nostri maestri, e noi loro allievi. E che cosa ci insegnano?» [7].

Le scomode, infide, striscianti domande sul senso della vita – domande semplicissime, ma inesorabili, come perché? e poi? – finiscono per prendere il sopravvento e corrodere dall’interno il sistema di vita e di valori – o piuttosto disvalori – di Tolstoj, fino a metterlo definitivamente in crisi: «Sentivo che il basamento su cui poggiavo si era spezzato, che non avevo più nulla su cui fondarmi, che ciò di cui avevo vissuto non esisteva più e che non mi restava più nulla per cui vivere» (25). Perché? e poi? Domande che svuotano Tolstoj, privo di aspettative, di desideri, di sogni, giunto sull’orlo di un precipizio oltre il quale non è che la morte:

«Se anche mi accadeva, in momenti di entusiasmo, non tanto di avere dei veri desideri, ma semplicemente di riprendere l’abitudine a quelli antichi, in seguito, nei momenti di lucidità, mi rendevo conto che si trattava soltanto di un’illusione e che in realtà non c’era nulla da desiderare. Non potevo neppure desiderare di conoscere la verità, intuendo in cosa consistesse: nel fatto che la vita era un’assurdità. Era come se avessi vissuto avanzando incessantemente, sino a trovarmi sull’orlo di un precipizio, senza più nulla davanti, tranne la morte. Ma fermarsi non era possibile, e neppure tornare indietro, e neppure chiudere gli occhi per non vedere che davanti non c’era altro che sofferenza e la reale, autentica morte: l’annullamento totale» (26).

Da questo passo emerge come, in assenza di fede, la verità, l’unica verità accessibile all’uomo non possa che essere questa: l’assurdità della vita. Verità accolta, dopo la morte di Dio – annunciata da Stirner e Mainländer [8] ancor prima che da Nietzsche -, da alcuni degli autori più importanti del Novecento, come Kafka, Sartre, Camus [9], e ammessa già, in ambito russo, da Dostoevskij nel Sosia, dove non c’è ancora spazio per il Credo in Cristo [10]. In questo momento di profondissima crisi, di vuoto e di buio totali, è naturale, fisiologico per Tolstoj, come per qualunque altro uomo, pensare al suicidio:

«Tendevo con tutte le mie forze a staccarmi dalla vita, e l’idea del suicidio divenne per me così naturale come lo era stata un tempo quella del perfezionamento della vita. Anzi, era così affascinante che dovetti ricorrere a molteplici astuzie per non rischiare di attuarla troppo precipitosamente. Non volevo farmi fretta solo perché intendevo compiere ogni sforzo per risolvere quel problema; se non ci fossi riuscito, avrei sempre avuto il tempo di uccidermi. E così io, uomo felice, nascondevo tutte le corde perché non mi venisse la voglia d’impiccarmi ad un’asse appoggiata a due armadi nella stanza in cui la sera restavo solo per spogliarmi, e smisi di andare a caccia col fucile per non cedere alla tentazione di servirmi di un così semplice mezzo per liberarmi della vita. Io stesso non sapevo quel che volevo: da una parte avevo paura della vita e aspiravo a liberarmene, dall’altra riponevo ancora qualche speranza in essa» (27).

Per Tolstoj, oramai cinquantenne vigoroso e celebre, ma completamente svuotato, privo di aspirazioni, di desideri e assediato dall’assurdità, la vita non è altro che «uno scherzo stupido e malvagio giocatomi da qualcuno» (28). Lo scrittore ora vede chiaramente la vanità e l’insensatezza della vita e non ha più niente da contrapporvi come schermo: «nella vita non c’era nulla, non c’era mai stato nulla, non ci sarebbe mai stato nulla» (ibidem). Tolstoj ormai non può più attribuire un senso a nessun atto della sua vita. Tutto si è sgretolato:

«Non potevo più attribuire un senso ragionevole a nessun atto della mia vita. Quel che mi stupiva era che non l’avessi capito fin dal principio. E si tratta, infatti, di una cosa ben nota a tutti da gran tempo. Un giorno o l’altro giungerà la malattia o la morte (e del resto era già accaduto) a colpire le persone che amo o me stesso, e di noi non rimarranno altro che i vermi e il fetore. Le mie azioni prima o poi verranno tutte dimenticate, e io non ci sarò più. E allora perché affannarsi tanto? È davvero stupefacente che un uomo possa vivere e non vedere tutto questo! È possibile vivere solo finché si è ubriachi di vita, ma non appena si torna sobri, non si può fare a meno di vedere come tutto sia solo un inganno, e uno stupido inganno! E in tutto ciò, e questo è il peggio, non v’è nulla di buffo né di spiritoso, ma tutto è semplicemente crudele e sciocco» (28-29).

Non più ebbro di vita, Tolstoj si avvede dell’inganno, dello «stupido inganno», in cui tutto è spietato e ridicolo; percepisce nitidamente il vuoto che avvolge la vita di ogni uomo, quel nulla dal quale siamo fuoriusciti casualmente e nel quale, altrettanto casualmente, un giorno come tanti, faremo ritorno, e che in un simile stato di crudele consapevolezza, ricordando Leopardi, può farsi sentimento dominante dalla consistenza fisica, materialmente e non solo spiritualmente asfissiante [11].

IV. Tuttavia Tolstoj non si rassegna alla vanità, all’insensatezza, al vuoto, al nulla, non smette di porsi domande e cerca le risposte nella scienza, ma senza trovarle. Non solo, attraverso lo studio egli scopre che ciò che lo ha condotto alla disperazione, l’assurdità della vita, è, come accennato in precedenza, «in realtà l’unica verità certa accessibile all’uomo» (33). Il tentativo di ricorrere alla scienza dunque fallisce, perché nella scienza non si trovano le risposte alle domande che pone la vita, soprattutto a quelle relative al suo senso. La scienza sperimentale, di fatto, distrugge qualsiasi possibilità di senso. Tolstoj torna così a rivolgersi alla scienza speculativa, ma tutta la vera filosofia, la filosofia «rigorosa», opposta a quella «professorale», giunge a una sola conclusione, sempre la stessa: l’insensatezza della vita. Tolstoj cita i casi di Salomone autore del Qoelet, di Buddha, Socrate e Schopenhauer, che confermano tutti, inesorabilmente, l’esito raggiunto dallo scrittore, affondandolo ancor di più nella disperazione, dalla quale ormai non sembra proprio esserci via d’uscita.

Fallito il tentativo di trovare risposte nella scienza, sia essa sperimentale oppure speculativa, Tolstoj inizia a osservare direttamente gli uomini e individua quattro soluzioni al problema: 1) l’ignoranza; 2) il piacere, la soluzione più diffusa nell’ambiente aristocratico; 3) il suicidio, la soluzione in assoluto più dignitosa; 4) la debolezza, propria di chi sa, ma non ha la forza di uccidersi e procede per inerzia, proprio come Tolstoj: «E infatti noi, che siamo convinti della necessità di ucciderci e non ci decidiamo a farlo, cos’altro siamo se non i più deboli, i più incongruenti e – per dirla alla buona – i più stupidi, che se ne vanno in giro ostentando la propria stupidità come un selvaggio il suo anello al naso?» (57).

Dal punto di vista esclusivamente razionale il ragionamento dei filosofi negativi sopracitati – ai quali possiamo aggiungere i nostri Leopardi e Michelstaedter, creando così una secolare rete di persuasi, secondo la distinzione del pensatore goriziano [12] – è perfettamente convincente, ma non a tal punto da condurre Tolstoj al suicidio. Perché nello scrittore, oltre alla ragione, non smette mai di lavorare anche un’altra forza, quella «coscienza della vita» che sola riesce a trarlo fuori dalle sabbie mobili della disperazione. Abbandonandosi a questa forza primigenia e istintiva, Tolstoj si avvede di non conoscere in realtà la vita dell’umanità, quell’umanità che, nonostante tutto, nonostante l’assurdità, l’insensatezza, il nulla è vissuta, vive e vivrà. Egli stesso è venuto al mondo perché l’umanità non ha smesso di vivere. Tolstoj diviene così finalmente consapevole dell’equivoco generato dal suo orgoglio classista, dovuto all’appartenenza alla parte migliore e più ricca della società: credere che solamente lui e i suoi simili, gli individui appartenenti al suo stesso ambiente aristocratico, ricchi e colti, siano davvero uomini, mentre tutti gli altri miliardi di uomini che hanno avuto la sfortuna di nascere nella parte sbagliata della società non siano altro che bestie. Riconosciuto e distrutto finalmente questo pregiudizio di classe, Tolstoj percepisce istintivamente che se vuole vivere e comprendere il senso della vita non deve rivolgersi verso coloro che lo hanno perduto e individuano nel suicidio il solo rimedio possibile all’assurdità dell’esistenza, bensì verso quegli uomini «infiniti», ovvero che costituiscono la stragrande maggioranza dell’umanità, che sono vissuti e vivono tuttora «lavorando e portando su di sé il peso della propria e della nostra esistenza» (61). Come in Dostoevskij, che lo scopre nel peggiore dei luoghi, il carcere siberiano, durante i quattro anni di lavori forzati rievocati nelle Memorie di una casa morta [13], anche in Tolstoj, nel suo lento e complesso processo di conversione, il popolo recita un ruolo fondamentale. Egli non è più lo storico della nobiltà moscovita, ma diviene «l’apostolo del popolo».

V. Tolstoj nota che il popolo non rientra nella sua classificazione di soluzioni (l’ignoranza, il piacere, il suicidio, la debolezza) relative al problema dell’assurdità della vita, perché in possesso di una conoscenza – la fede in Dio – che, pur in tutta la sua irrazionalità, fornisce vere risposte, rivela il senso della vita e offre dunque la possibilità di vivere:

«Qualsiasi risposta essa fornisca e di qualsiasi dottrina religiosa si tratti, la fede attribuisce all’esistenza finita dell’uomo il senso dell’infinito, un senso che non viene annullato dalle sofferenze, né dalle privazioni, né dalla morte. Ciò significa che soltanto nella fede si può trovare il senso della vita e la possibilità di vivere. Mi chiesi cosa fosse questa fede. E allora compresi che la fede, contrariamente a quanto generalmente si pensa, non è soltanto credenza nelle cose invisibili, non è la rivelazione (che è solo l’espressione di uno dei suoi attributi), non è il rapporto dell’uomo con Dio (bisogna definire prima la fede e poi Dio, e non definirla attraverso Dio), non è soltanto l’accordo con ciò che è stato rivelato all’uomo, ma è la conoscenza del senso della vita, che impedisce all’uomo di autodistruggersi e gli permette di vivere. Se l’uomo vive, vuol dire che crede in qualcosa. Se non credesse di dover vivere per qualcosa, certo non vivrebbe. Se non coglie, se non comprende il carattere effimero del finito, egli si limita a credere nel finito; se invece egli comprende il carattere effimero del finito, deve credere nell’infinito. Senza fede non si può vivere» (66).

Tolstoj inizia così a comprendere che nelle risposte fornite dalla fede risiede «la più profonda saggezza dell’umanità» e che la tronfia intelligencija non ha nessun diritto di negarle fondandosi sulla ragione, perché solamente queste risposte essenziali offrono «una soluzione al problema della vita» (69). Disposto ora ad accettare qualsiasi fede, senza pregiudizi, Tolstoj si dedica allo studio del buddismo, dell’islamismo e, soprattutto, del cristianesimo. Lo scrittore si rivolge ai credenti del proprio ambiente, ma si avvede ben presto dei loro grossolani errori e delle loro macroscopiche contraddizioni: essi in fondo non sono veri credenti; la loro vita comoda, leggera, opulenta, ammantata di superfluo contrasta clamorosamente con la loro fede, che in realtà non è vera fede, ma solo un modo per mascherare la disperazione e trascinarsi avanti, come il piacere per l’epicureo. Il vero credente, scrive Tolstoj, è quello popolare, il monaco – pensiamo alla monumentale figura di Zòsima nei Fratelli Karamazov [14], oppure a quella di padre Sergij nell’omonimo racconto di Tolstoj [15] -, il pellegrino, il contadino, la cui vita costituisce una conferma inconfutabile «di quel significato ad essa conferito dalla fede» (73). Il popolo possiede il senso della vita e vive, accettando tutto, ogni genere di sofferenza e infine la morte, con serena rassegnazione e persino gioia. È il momento decisivo, il momento dello strappo, della dostoevskiana svolta: Tolstoj rifiuta il proprio mondo, ricco, colto, ma vuoto, e accoglie in sé quello del popolo, che, finalmente libero dal pregiudizio, inizia ad amare:

«E io presi ad amare quegli uomini. Quanto più entravo nella loro vita, sia di quelli che ancora vivevano che di quelli già morti, sul conto dei quali leggevo libri o ascoltavo racconti, tanto più li amavo e tanto più agevole e gioiosa si faceva per me la vita. Vissi così circa due anni, finché si verificò quel cambiamento che ormai da gran tempo si preparava dentro di me e di cui da sempre esistevano in me le premesse. Accadde che il modo in cui si viveva nel nostro ambiente, l’ambiente delle persone ricche e istruite, non soltanto mi divenne odioso, ma perse addirittura ogni senso ai miei occhi. Tutte le nostre azioni, il nostro modo di pensare, la scienza, l’arte, tutto questo assunse ai miei occhi un nuovo significato. Compresi che così ci si trastullava, senza la possibilità di trovare il senso dell’esistenza. E contemporaneamente la vita del popolo lavoratore, di tutta l’umanità che costruiva concretamente la vita, mi apparve nel suo autentico significato. Compresi che quella era la vita autentica, compresi che il senso che le veniva attribuito era la verità, e l’accettai» (74-75).

Tolstoj comprende che assurda e malvagia non è la vita in generale, ma la sua vita, «una vita di lussuria e di connivenza col male», e per giungere al senso della vita è necessario innanzitutto che essa non sia assurda e malvagia. Non attraverso un astratto e vano esercizio filosofico, non attraverso astrusi funambolismi speculativi si giunge alla verità, ma solo ed esclusivamente attraverso la vita, la vita «autentica» del popolo lavoratore, «l’unica vera vita», opposta a quella dei ricchi «parassiti», inutili e nocivi a se stessi e agli altri, esanimi simulacri divorati dal superfluo. Tolstoj, squarciato il velo, recise le palpebre, si avvede dell’ingiustizia e della crudeltà alla base di quel mondo di cui, fino a questo momento, è stato l’illustre e celebrato «storico», fondato sullo sfruttamento sistematico e spietato del popolo, «indispensabile intermediario verso l’assoluto» [16], di cui lo scrittore comprende finalmente il valore, divenendone l’«apostolo».

VI. Solamente la fede, o meglio, il sentimento dell’esistenza di Dio permette a Tolstoj di sentirsi vivo. Non appena questo sentimento svanisce lo scrittore si sente morire. Ma il momento critico è ormai alle spalle e giunge la salvezza definitiva che spazza via per sempre ogni tentazione di autodistruzione:

«”E allora cosa stai cercando ancora?” gridò a un tratto una voce dentro di me. “Eccolo dunque, il tuo Dio: egli è colui senza il quale non si può vivere. Dio è la vita. Vivi cercando Dio, e allora non ci sarà vita senza Dio.” E più forte che mai sentii che tutto s’illuminava in me e intorno a me, e quella luce non mi abbandonò più.
E così mi salvai dal suicidio» (84).

Tolstoj sente riaffiorare dentro di sé una forza vitale fresca e giovanile, quella stessa forza che lo animava nell’infanzia e nell’adolescenza. Egli torna così all’antica idea di «autoperfezionamento morale», in armonia in con la volontà divina, allora accolta inconsciamente, ora invece come l’unico fine, «indispensabile per vivere»:

«Tornavo a credere in quella volontà che mi aveva creato e che esigeva da me qualcosa; tornavo a credere che l’essenziale, unico scopo della mia vita fosse quello di autoperfezionarmi, di vivere in un accordo sempre più pieno con quella volontà superiore; tornavo a credere di poter trovare un’espressione di quella volontà in tutto ciò che l’umanità, fin dai tempi più remoti e a me ignoti, aveva elaborato per definire una norma di condotta, ossia tornavo alla fede in Dio, nell’autoperfezionamento morale, in quella tradizione che conferiva un senso alla vita. L’unica differenza era questa: allora avevo accettato tutto questo inconsciamente, mentre ora sapevo che mi era indispensabile per vivere» (84-85).

Dopo anni e anni di cupa disperazione, Tolstoj finalmente ricomincia a vivere, rifiutando la vita parassitaria del proprio ambiente, che non è la vera vita ma solo una sua parvenza, la cui opulenza impedisce di comprendere e raggiungere la vita autentica, e rivolgendosi al popolo lavoratore «che produce concretamente la vita», con la volontà di comprenderne il senso.

«Questo senso, se pure lo si può esprimere in parole, è il seguente: ogni uomo viene al mondo per volontà di Dio, e Dio ha creato l’uomo in modo tale che ognuno può perdere la propria anima o salvarla. Il compito dell’uomo nella vita è salvare la propria anima, e per salvarla bisogna vivere secondo la volontà di Dio, e per vivere secondo la volontà di Dio bisogna rinunciare a tutti i piaceri della vita, bisogna lavorare, umiliarsi, sopportare ed essere misericordiosi» (87).

A questo senso della vita Tolstoj si sottomette completamente, accettando anche quelle credenze che esso si trascina dietro inevitabilmente, come i sacramenti, le cerimonie religiose, i digiuni, il culto delle reliquie e delle immagini sacre, credenze ripugnanti e inesplicabili per lo scrittore. Insomma, la chiesa ortodossa diviene il fondamento della fede di Tolstoj. Ma per lo scrittore, che identifica «la verità con l’unione attraverso l’amore», appare ben presto chiaro che l’ortodossia viola questo principio, che dovrebbe essere alla base della sua attività, della sua esistenza, come mostra ad esempio la feroce ostilità e la condanna violenta delle altre dottrine religiose. La chiesa, in poche parole, non fa altro che contraddire i principi su cui si fonda, perseguitando chi crede in modo diverso, autorizzando la violenza, la guerra, l’omicidio. Tolstoj si avvede che se nella dottrina cristiana è contenuta la verità, è contenuta al contempo anche la menzogna, e La confessione si conclude proprio con il proposito di uno studio teologico che separi, all’interno della religione stessa, la verità dalla menzogna, e il cui risultato più importante sarà la riscoperta del Vangelo e del suo messaggio, accolto ed esaltato come il senso ultimo, definitivo della vita, come mostra esemplarmente la conclusione di Resurrezione.

VII. La confessione è il testo che segna la rinascita, o meglio, la resurrezione spirituale e morale di Tolstoj. Ricondotto alla vita, dopo anni e anni di disperazione mortale, dalla fede, Tolstoj si presenta come un uomo nuovo, completamente diverso rispetto al passato, animato da un amore profondo per quel popolo lavoratore che costituisce la stragrande maggioranza dell’umanità eppure è vittima del secolare giogo impostogli da una sparuta minoranza di «parassiti» che sul sistematico e spietato sfruttamento della sterminata moltitudine popolare fonda la propria ricchezza, il proprio simulacro di vita, inautentica e vuota. Rifiutato con sdegno e vergogna il proprio ambiente originario e l’immorale passato ad esso legato, Tolstoj si schiera dalla parte degli umili, degli oppressi, dei diseredati, poveri, affamati, incolti, ma in possesso, grazie all’incondizionata fede in Dio, del senso della vita, di quella verità ultima ricercata invano dai filosofi e distrutta dagli scienziati.

Fino a questo momento illustre e celebrato «storico» della nobiltà moscovita – come ho già scritto altrove. Guerra e pace s’impone davvero come il poema della Russia e dei suoi salotti -, dopo la conversione del 1881 Tolstoj imprime una svolta radicale alla propria produzione filosofico-letteraria, fornendole un indirizzo eminentemente morale. La gloria, il guadagno, il benessere, componenti egoistiche ed egocentriche alla base dell’attività artistica dello scrittore anteriore alla Confessione, lasciano spazio a un compito morale identificabile «in una totale rinuncia a se stesso, in un completo sacrificio della propria personalità, in un autoannullamento spinto al limite estremo a beneficio degli “altri”, così da realizzare la volontà di Dio, che gli farà avvertire la sua presenza in maniera sempre più evidente e incontrovertibile man mano che lo sforzo ascetico verrà portato avanti» [17]. Tolstoj si avvicina così all’altro grande autore e pensatore russo del secolo, di cui eredita il ruolo di guida morale e artistica del paese, Dostoevskij, animato anch’egli da un amore straordinario per il popolo, da una fede incondizionata e dalla convinzione che solamente attraverso una totale disgregazione, vaporizzazione dell’io l’individuo si possa avvicinare al supremo ideale umano rappresentato da Cristo e realizzarne il regno:

«Màša distesa sulla tavola. La rivedrò io mai? Amare l’uomo come se stessi, secondo il comandamento di Cristo, non è possibile. Sulla terra la legge della personalità è d’impaccio. L’io è di ostacolo. Cristo soltanto poteva farlo, ma Cristo era l’ideale eterno sin dall’inizio dei tempi, quell’ideale a cui l’uomo tende, e deve tendere, per legge di natura. Tuttavia, dopo la comparsa di Cristo come ideale dell’uomo incarnato, è diventato chiaro come il giorno che l’evoluzione ultima e suprema della personalità individuale (e questo proprio al culmine dell’evoluzione, anzi nel momento stesso in cui il fine dell’evoluzione sarà raggiunto) in cui l’uomo riconosca, si renda conto e si convinca con tutta la forza della sua natura che l’impiego più alto che egli possa fare della sua individualità, nel momento in cui il suo io abbia raggiunto la pienezza dello sviluppo, consiste nel distruggere questo stesso io, nel donarlo interamente a tutti e a ciascuno indivisibilmente e senza riserve. E in ciò consiste la felicità più sublime… E appunto questo è il paradiso di Cristo» [18].

Il secondo Tolstoj, di cui La confessione rappresenta il vero e proprio certificato di nascita, rompe completamente con il primo, di cui rinnega tutto, azioni – ovvero crimini -, pensieri e, soprattutto, libri. Lo scrittore ripudia se stesso, le proprie opere, il proprio ambiente, che ora non può fare altro che guardare e giudicare con disgusto, e abbraccia Dio, «colui senza il quale non si può vivere» (una delle definizioni più efficaci di Dio, che coglie e racchiude perfettamente la necessità tutta umana – troppo umana – di credere in qualcosa per poter vivere), e il suo popolo, spogliandosi degli abiti sfarzosi di aristocratico, di «storico» dell’ambiente aristocratico, e indossandone di umili, da contadino (lo scrittore non si limita a fare professione di populismo, mai). La sua letteratura ne trae benefici enormi, per certi versi sorprendenti, perché tra i due Tolstoj quello davvero grande non è il primo, autore di opere oggettivamente importanti e apprezzabili, certo, come Guerra e pace e Anna Karenina, ma contagiate da quella malattia del superfluo di cui soffre – senza possibilità di guarigione – il mondo che rappresentano, ma il secondo, autore della Morte di Ivan Il’ič, della Sonata a Kreutzer [19], di Padre Sergij e di Resurrezione, opere in cui arte, filosofia e morale – con una radicalizzazione profonda, persino spietata dei temi esposti in Confessione, e si ricordi a mero titolo esemplificativo la critica feroce della chiesa, rea di aver fondato se stessa sul traviamento sistematico degli insegnamenti di Cristo, oppure la critica, altrettanto feroce, del bel mondo, che per il proprio benessere sfrutta il popolo lavoratore fino a condurlo sull’orlo dell’estinzione – raggiungono una sintesi pressoché perfetta, difficilmente eguagliabile.

NOTE

[1] Fëdor Dostoevskij, Diario di uno scrittore, traduzione di Ettore Lo Gatto, Bompiani, Milano 2010, p. 1021.

[2] Carlo Michelstaedter, Tolstoj, in Id., Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, pp. 650-654. Per la lettura integrale dell’articolo e la sua analisi rimando al capitolo secondo della terza parte dello studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter, Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj.

[3] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo «Resurrezione», l’ultimo e più grande romanzo di Lev Tolstoj. Introduzione, Prima parte, Seconda parte, Terza parte.

[4] Per un approfondimento sul saggio rimando al contributo Guerra e rivoluzione: l’anarchico Tolstoj contro la superstizione statalista.

[5] Lev Tolstoj, La confessione, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2019, p. 13. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[6] Lev Tolstoj, Resurrezione, traduzione di Emanuela Guercetti, Garzanti, Milano 2013, p. 56.

[7] Fëdor Dostoevskij, Diario di uno scrittore, cit., p. 1047.

[8] Per un approfondimento sui due pensatori tedeschi rimando ai contributi Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, Philipp Mainländer, il suicidio come redenzione dall’esistenza.

[9] Per un approfondimento sui tre scrittori rimando ai contributi Franz Kafka, Il processo: colpevole senza colpa e per legge di natura, Jean-Paul Sartre, La nausea: l’Assurdità chiave dell’Esistenza, Albert Camus, Lo straniero: dall’insensibilità alla vita.

[10] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Il sosia»: l’annientamento del signor Goljàdkin, il primo uomo del sottosuolo.

[11] «Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla» (Giacomo Leopardi, Zibaldone, edizione integrale diretta da Lucio Felici, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 90. Per un approfondimento sul tema rimando al contributo Giacomo Leopardi, il nulla).

[12] Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando al già citato studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

[13] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Dostoevskij e l’esperienza di vita della katorga: lettura delle «Memorie di una casa morta». Introduzione, Prima parte, Seconda parte.

[14] Per un approfondimento sul personaggio rimando al capitolo settimo dello studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso, Zòsima, il monaco russo.

[15] Per un approfondimento sul personaggio e l’opera di cui è protagonista rimando al contributo Padre Sergij, oltre se stessi.

[16] Gianlorenzo Pacini, Postfazione a Lev Tolstoj, La confessione, cit., p. 127.

[17] Ivi, p. 115.

[18] Fëdor Dostoevskij, Pensieri sulla morte e sull’immortalità, citato in Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, pp. 153-154. Per un approfondimento sul Dostoevskij pensatore rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.

[19] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo «La sonata a Kreutzer»: Tolstoj contra il matrimonio.

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