Giacomo Leopardi.

Giacomo Leopardi, «Cantico del gallo silvestre»: dell’infelicità permanente e della distruzione

Scritta a Recanati tra il 10 e il 16 novembre del 1824, l’operetta morale Cantico del gallo silvestre rappresenta uno degli esiti negativamente più radicali, più estremi della grandiosa attività filosofico-letteraria di Giacomo Leopardi, forse il più radicale ed estremo in assoluto insieme con il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia [1].

Con il suo Cantico, rinvenuto «in una cartapecora antica, scritto in lettera ebraica e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica», come spiega Leopardi nell’ironica introduzione filologica, Cantico che non è chiaro se il gigantesco gallo «salvatico», «il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo» [2], ripeta tutte le sacrosante, maledette mattine oppure abbia solennemente recitato una sola volta, la mitica e grottesca creatura risveglia gli uomini, i «mortali», da quella che s’impone, di fatto, come l’unica consolazione concessa loro, il sonno, esortandoli a tornare a farsi carico della «soma della vita», riconducendoli «dal mondo falso nel vero». Il momento del risveglio è caratterizzato dalla speranza e dal desiderio, il desiderio «di ritrovar pure nella […] mente aspettative gioconde, e pensieri dolci», ma la graduale e inesorabile ripresa di coscienza, come scrive Binni, porta l’uomo a fare i conti, in modo ancor più acuto e pungente del solito, con il suo stato irrimediabilmente miserevole, sicché «a tutti il risvegliarsi è danno» – tutti, senza distinzioni. Il bizzarro animale si rivolge quindi al sole, interrogandolo sul destino degli uomini, domandandogli se abbia mai visto «un solo infra i viventi essere beato», se delle innumerevoli opere dei mortali viste sinora almeno una abbia prodotto soddisfazione nella creatura che l’ha realizzata, se, in definitiva, vede oppure abbia mai visto «la felicità dentro ai confini del mondo». Dove si trova la felicità? In «qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto»? O forse si nasconde «e siede nell’imo delle spelonche, o nel profondo della terra o del mare?» E tu stesso, sole, domanda infine il gallo, «sei tu beato o infelice?» Ma il sole non risponde e il gallo torna a rivolgersi a quegli uomini «non ancora liberi dalla vita», ai quali la morte non è stata ancora concessa, ma è concesso «solo di tratto in tratto […] per qualche spazio di tempo una somiglianza di quella». Il sonno, unica consolazione, senza la quale «conservare» la vita sarebbe impossibile, e ben al di là delle mere ragioni fisiologiche, perché «tal cosa è la vita» – e questo «tal» dice davvero tutto, come un profondissimo e prolungato sospiro – «che a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte». La vita si porta, la vita si sostiene, si trascina, perché la vita è una «soma», un peso, insostenibile se non lo si depone per qualche ora di riposo, di sonno, di morte temporanea.

Da questo momento (sesto capoverso) in poi il Cantico presenta una serie di verità negative, a un ritmo battente, incalzante, che non lasciano neppure il minimo spazio alla speranza e, di fatto, spiegano perché il risveglio sia un danno e la vita nient’altro che un peso, perfettamente inutile peraltro: l’unico scopo dell’essere è la morte; l’essere scaturisce dal nulla [3]; causa dell’essere non è la felicità, «perché niuna cosa è felice»; eppure, nonostante questo dato incontrovertibile e familiare a ogni singolo individuo, la felicità è il fine di ogni attività umana, senza tuttavia che nessuna attività permetta effettivamente di raggiungerla; in tutta la sua vita, «ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre», l’uomo si affanna e si addolora «se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte». Con spietatezza e a un ritmo incalzante, battente, martellante Leopardi ricorda all’uomo quanto sia misera e disperata la sua condizione, immutabile e uguale per tutti, ribadendo per l’ennesima volta verità negative secolari che il genere umano è incapace di accettare, e anzi allontana da sé fabbricandosi illusioni d’ogni sorta, e della peggior specie, sulle quali ergere la propria insignificante e inutile vita, insensata parentesi tra due infiniti nulla, alla ricerca di quella felicità, senza mezzi termini, impossibile – la felicità non esiste; trasciniamo qua e là la nostra carcassa – la vita – per qualche decina d’anni in uno stato di infelicità permanente.

Leopardi, tornando sul momento del risveglio, opera un’analogia tra il mattino e la gioventù, caratterizzata anch’essa da brevi, labili e illusorie speranze, anch’essa «brevissima e fuggitiva». «In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire», perché «tanto in ogni opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte», e «ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile». L’universo stesso è soggetto a un irriducibile, irreversibile processo di invecchiamento che lo condurrà alla distruzione:

«Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi».

Lo spietato materialismo leopardiano giunge in queste righe memorabili al suo esito più estremo: la distruzione del mondo e dell’intero universo, che invalida e svuota completamento di senso ogni singola attività umana, dalla più anonima e banale alla più grandiosa, con quel silenzio «nudo» e assordante, spaventoso che s’impone quale emblema conclusivo, definitivo dell’intera riflessione filosofica di Leopardi.

Come ho scritto altrove, uno degli scopi principali della grandiosa attività filosofico-letteraria di Leopardi – insieme con Dante il più grande pensatore, oltre che poeta, italiano – è la distruzione di tutti quei miti religiosi, filosofici, politici, sociali che l’uomo ha fabbricato nel corso dei secoli nel disperato, vano e ridicolo tentativo di mascherare la propria miseria, la propria insignificanza, di colmare il vuoto irriducibile e spaventoso che lo circonda, e le Operette morali sono l’opera di Leopardi che più di ogni altra si fonda su questa sistematica, metodica distruzione, trovando nel Cantico del gallo silvestre il risultato più radicale, oscuro, angosciante.

Come scrive Severino, Leopardi «per primo […] porta alla luce l’impossibilità e l’illusorietà del quadro grandioso della tradizione occidentale» [4], rivelandone con spietatezza, ancor più dell’irrealizzabilità, la falsità, l’inautenticità, l’assurdità, attraverso l’utilizzo, soprattutto nelle Operette morali, di un’ironia caustica, persino crudele, che non risparmia niente e nessuno, che abbatte inesorabilmente tutte le sovrastrutture mitiche, spirituali e ideologiche erette dal genere umano, riportando alla luce quel nulla che in definitiva s’impone come l’unico, vero principio e stato dell’esistenza, di ogni esistenza – umana, animale, vegetale, universale -, assumendo persino una consistenza fisica per colui che ne è consapevole:

«Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla» [5].

Ricorrendo ancora a Severino, alla base della conclusione leopardiana «che il non sapere […] è l’unico bene», «sta la scoperta angosciante che non può esistere alcun Principio eterno, incorruttibile, divino, e che quindi tutte le cose sono nulla, perché sono circondate dal nulla infinito che le precede, le segue e le attraversa. Se esistesse un Essere eterno e divino, incorruttibile custode di tutte le cose che nascono e muoiono – si è qui al cuore dell'”ultrafilosofia” di Leopardi -, il loro provvisorio sporgere dal nulla sarebbe una semplice e illusoria apparenza; laddove l’uscire dal nulla e il ritornarvi sta al centro della verità che per l’intero Occidente è l’assolutamente innegabile. Proprio perché l’esistenza del divenire è innegabile, la verità è che l’Eterno, l’Infinito è impossibile. Il nulla è il Principio di tutte le cose. Meglio allora per l’uomo non saperla, la verità, che saperla […]» [6].

Resta il silenzio, quel silenzio «nudo» e assordante, spaventoso che termina il Cantico del gallo silvestre e che s’impone, di nuovo, quale emblema conclusivo, definitivo dell’intera riflessione filosofica di Leopardi.

NOTE

[1] Per la lettura e l’analisi del componimento rimando al contributo Giacomo Leopardi, «Canto notturno» ovvero l’inconveniente di essere nati.

[2] Le citazioni sono tratte da Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici ed Emanuele Trevi, Newton Compton editori, Roma 2016, pp. 575-577.

[3] Per un approfondimento sulla presenza e sulla valenza del nulla all’interno della riflessione filosofica leopardiana rimando al contributo Giacomo Leopardi, il nulla.

[4] Emanuele Severino, Prefazione a Giacomo Leopardi, Il sentimento del nulla, Rizzoli, Milano 2009, p. 6.

[5] Giacomo Leopardi, Zibaldone, edizione integrale diretta da Lucio Felici, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 90.

[6] Emanuele Severino, Prefazione a Giacomo Leopardi, Il sentimento del nulla, cit., pp. 7-8.

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