Terza parte
1. Katjuša tra i detenuti politici
Grazie alle sue conoscenze illustri, Nechljudov riesce a procurare a Katjuša il trasferimento tra i detenuti politici, meglio alloggiati, meglio nutriti e soggetti a minori brutalità. Tra di loro Katjuša non è continuamente importunata, insidiata, e inoltre ha l’opportunità di conoscere persone che avranno su di lei un’influenza decisiva e salutare. Dopo gli ultimi sette anni di vita dissoluta e i due mesi di prigione insieme con i detenuti comuni, a Katjuša questa nuova vita sembra bellissima. Le quotidiane marce di venti, trenta verste la rinvigoriscono fisicamente e la compagnia dei detenuti politici le rivela interessi di cui prima ignorava completamente l’esistenza. Katjuša trova i detenuti politici persone meravigliose, persone che mai ha incontrato prima e che non poteva neppure immaginare nella sua condizione di completo inasprimento. La donna giunge persino a ringraziare Dio per essere stata condannata, perché grazie alla condanna sta imparando cose che altrimenti non avrebbe mai imparato in tutta la vita. «Capiva che quella gente stava dalla parte del popolo, contro i signori; e il fatto che fossero signori essi stessi e sacrificassero i propri privilegi, la libertà e la vita per il popolo, glieli faceva particolarmente apprezzare e ammirare» [1].
1.1. Mar’ja Pavlovna
Tra i detenuti politici vi sono persone davvero straordinarie, come Mar’ja Pavlovna, la bellissima figlia di un ricco generale. A diciannove anni Mar’ja Pavlovna lascia la famiglia e va a lavorare in fabbrica, dopo vive in campagna e infine si ristabilisce in città, in un appartamento sede di una tipografia clandestina. Qui viene arrestata e condannata ai lavori forzati, per essersi assunta la responsabilità di un colpo di pistola sparato da un rivoluzionario contro una guardia, nel buio, durante una retata. «Era diventata una rivoluzionaria, a quanto raccontava, perché fin dall’infanzia detestava la vita signorile e amava invece la vita della gente semplice» (395). Mar’ja Pavlovna ha un carattere splendido, luminosissimo, dominato dalla vocazione all’aiuto del prossimo:
«Da quando Katjuša l’aveva conosciuta, aveva visto che ovunque, in qualsiasi situazione, non pensava mai a se stessa, ma si preoccupava soltanto di rendersi utile, aiutare gli altri nelle grandi come nelle piccole cose. Uno dei suoi attuali compagni, Novodvorov, scherzando diceva che s’era votata allo sport della beneficenza. Ed era vero. Tutto lo scopo della sua vita consisteva, come per il cacciatore nel trovare la selvaggina, nel trovare un’occasione di servire gli altri. E questo sport era diventato un’abitudine, era diventato la missione della sua vita. E lo faceva così naturalmente che tutti quelli che la conoscevano ormai non lo apprezzavano più ma lo pretendevano» (396).
Mar’ja Pavlovna rappresenta per Katjuša un modello luminoso, che la protagonista si sforza con tutta se stessa di imitare. Tra le due donne nasce e si consolida giorno dopo giorno un legame forte, di amicizia, caratterizzato in particolar modo dal disprezzo dell’amore carnale, che Katjuša odia dopo averne conosciuto tutto l’orrore e la violenza, Mar’ja Pavlovna perché, pur «non avendolo mai sperimentato, lo guardava come qualcosa di incomprensibile e nello stesso tempo ripugnante e offensivo della dignità umana» (396). Chiunque sia pienamente consapevole della dignità umana propria e altrui, non può che trovare il sesso «ripugnante e offensivo», come Mar’ja Pavlovna e come Tolstoj stesso, che alla critica feroce dell’amore carnale, e del sacramento che lo legittima, il matrimonio, dedica una delle opere più impressionanti, per il fervore negativo, davvero spietato, della sua produzione letteraria successiva alla conversione del 1881, La sonata a Kreutzer [2].
1.2. Simonson
L’altro detenuto politico che esercita un’importante e decisiva influenza su Katjuša è Simonson. Quando è ancora uno studente del ginnasio Simonson comprende che il denaro accumulato dal padre, ex funzionario, non è stato guadagnato onestamente, e che bisogna restituire il patrimonio a chi spetta di diritto, il popolo. Egli ne parla al genitore, che ovviamente non è d’accordo con lui e gli risponde con una paternale che ha il solo effetto di portare il figlio alla fuga da casa. Simonson smette di farsi mantenere dal padre e, convinto che il male esistente derivi dall’ignoranza del popolo, dopo essersi unito ai populisti, va a fare il maestro in un villaggio, predicando ciò che ritiene giusto e negando ciò che ritiene falso e dannoso. Naturalmente viene arrestato e processato. Durante il processo si rende conto che i giudici non hanno nessun diritto di giudicarlo e lo fa presente, ma i giudici si dimostrano in disaccordo con lui e continuano a processarlo, così Simonson smette di rispondere alle loro domande, trincerandosi in un ostinato e irriducibile silenzio di protesta. Deportato nel governatorato di Arcangelo, qui concepisce una propria dottrina religiosa, secondo cui niente è morto, e in base alla quale determina e orienta l’intera sua attività:
«Questa dottrina religiosa considerava viva ogni cosa al mondo: nulla è morto, e tutti gli oggetti che crediamo morti, inorganici, sono solo parti di un immenso corpo organico che non possiamo abbracciare, e perciò il compito dell’uomo, in quanto particella di un grande organismo, consiste nel favorire la vita di questo organismo e di tutte le sue parti viventi. E per questo considerava un delitto distruggere la vita: era contro la guerra, la pena di morte e qualsiasi uccisione non solo di uomini, ma anche di animali. Anche rispetto al matrimonio aveva una sua teoria, secondo la quale la riproduzione è solo una funzione inferiore dell’uomo, mentre superiore è il servizio della vita già esistente. Trovava conferma a questa idea nell’esistenza dei fagociti nel sangue. I celibi, secondo lui, erano come quei fagociti, la cui missione consisteva nell’aiutare le parti deboli, malate dell’organismo. E così aveva vissuto da quando era arrivato a quella conclusione, benché prima, da giovane, fosse stato un libertino. Adesso considerava se stesso e Mar’ja Pavlovna “fagociti del mondo”» (397).
Simonson ama Katjuša, Katjuša lo ha capito e la consapevolezza di essere riuscita a ispirare amore in un uomo così straordinario, la rivaluta ai suoi stessi occhi. Se Nechljudov le ha proposto il matrimonio in nome del passato, per riparare l’offesa e riscattare il proprio peccato, Simonson la ama per quello che è ora, e la porta a migliorarsi continuamente, di giorno in giorno:
«E proprio quest’uomo aveva un’influenza decisiva sulla Maslova, perché l’amava. La Maslova col suo intuito femminile se ne era accorta molto presto, e la consapevolezza di poter ispirare l’amore di un uomo così straordinario l’aveva rivalutata ai suoi stessi occhi. Nechljudov le aveva proposto il matrimonio per magnanimità e in nome del passato; ma Simonson l’amava così com’era adesso, e l’amava semplicemente perché l’amava. Inoltre sentiva che Simonson la considerava una donna straordinaria, diversa da tutte le altre, dotata di particolari, alte virtù morali. Non sapeva bene quali virtù le attribuisse, ma in ogni caso per non ingannarlo cercava con tutte le forze di suscitare in sé le migliori qualità che riusciva a immaginare. E in questo modo si sforzava continuamente di migliorarsi» (398).
L’influsso benefico di Mar’ja Pavlovna e di Simonson migliora Katjuša, sotto ogni aspetto. In lei ad esempio non c’è più traccia di quella volgare civetteria retaggio della vita da prostituta e che le era rimasta appiccicata addosso anche in carcere, e ciò suscita in Nechljudov una sensazione di gioia particolare. Ora egli nei confronti di Katjuša prova in modo costante, definitivo, e con rinnovata intensità, quel sentimento misto di compassione e di tenerezza provato, ma allora solo momentaneamente, in seguito alla notizia della presunta relazione della donna con l’infermiere, e che si estende all’intero genere umano:
«Adesso provava per lei un sentimento mai provato prima. Questo sentimento non aveva nulla in comune né con il primo poetico innamoramento né ancor meno con la passione sensuale che aveva provato poi, e neppure con la coscienza del dovere compiuto, mista ad autocompiacimento, con cui aveva deciso di sposarla dopo il processo. Questo sentimento ero lo stesso, semplice sentimento di compassione e tenerezza che aveva provato per la prima volta durante l’incontro in carcere e poi, con nuova intensità, dopo l’infermeria, quando, vinta la propria avversione, l’aveva perdonata per la presunta storia con l’infermiere (la cui inconsistenza si era chiarita in seguito); era lo stesso sentimento, con la sola differenza che prima era passeggero, mentre adesso era diventato costante. A qualunque cosa pensasse, ora, qualunque cosa facesse, il suo umore di fondo era quel sentimento di compassione e tenerezza non solo per lei, ma per tutti gli uomini» (399-400).
È questo ora il lieto sentimento dominante in Nechljudov, che contribuisce a rendere il suo viaggio in Siberia accanto a Katjuša e agli altri detenuti, un’esperienza-di-vita eccezionalmente formativa, una sorta di perfezionamento morale e spirituale dopo la resurrezione.
2. Nechljudov tra i detenuti politici
Conoscendoli di persona, passando in loro compagnia molto tempo, Nechljudov cambia completamente opinione sui rivoluzionari, prima disprezzati. Su di loro le autorità si accaniscono con una particolare spietatezza, senza curarsi neppure di serbare quell’illusoria patina di legalità riservata ai criminali comuni, e dopo l’arresto sono vittime di un destino terribile:
«Per quanto assurde e atroci fossero le sofferenze a cui erano sottoposti i cosiddetti delinquenti comuni, tuttavia prima e dopo la condanna si procedeva nei loro confronti con una parvenza di legalità; nelle cause dei politici invece non c’era neppure questa parvenza […]. Con queste persone si faceva come si fa nella pesca a strascico: si trascina a riva tutto quel che capita, e poi si scelgono i pesci grossi, che servono, senza curarsi della minutaglia che muore seccando sulla riva. Così, dopo aver rastrellato centinaia di persone non solo innocenti, ma anche evidentemente innocue per il governo, le tenevano a volte per anni in carcere, dove si ammalavano di tisi, impazzivano o si suicidavano; e le tenevano solo perché non c’era motivo di rilasciarle, mentre restando a portata di mano in prigione potevano tornar utili per chiarire qualche questione durante un’inchiesta. Il destino di tutti costoro, spesso innocenti perfino dal punto di vista del governo, dipendeva dall’arbitrio, dal tempo, dall’umore dell’ufficiale dei gendarmi o della polizia, della spia, del procuratore, del giudice istruttore, del governatore, del ministro. Il tale funzionario si annoia o vuole mettersi in mostra: arresta, e a seconda dell’umore suo o dei superiori, tiene in prigione oppure rilascia. E il superiore, pure a seconda del bisogno che ha di mettersi in mostra, o dei suoi rapporti con il ministro, confina in capo al mondo, o tiene in segregazione cellulare, o condanna alla deportazione, ai lavori forzati, a morte, oppure rimette in libertà, se glielo chiede qualche dama» (400-401).
Nechljudov, frequentandoli ora quotidianamente, comprende che i rivoluzionari non possono comportarsi in modo diverso: trattati come in guerra, sono costretti a utilizzare gli stessi mezzi militari utilizzati contro di loro. Sulla loro presunzione, caratteristica di molti rivoluzionari e che prima infastidiva tanto Nechljudov causando il suo disprezzo nei loro confronti, beh, essi devono necessariamente «avere un’alta opinione di sé per avere la forza di sopportare quello che sopportavano» (402).
Nechljudov si affeziona a un detenuto politico in particolare, il giovane Kryl’cov, arrestato la prima volta solamente per aver finanziato la causa. In prigione è testimone dell’esecuzione capitale di due giovani compagni: un trauma che lo convince a farsi rivoluzionario, per combattere in prima persona e sovvertire quel sistema basato sulla crudeltà e la violenza. Scontata la prima pena si reca a Pietroburgo e all’estero, a Kiev, a Odessa; con la sua attività rivoluzionaria ottiene grandi successi, ma un uomo di fiducia lo tradisce ed egli viene condannato ai lavori forzati a vita. In prigione, prima di iniziare il viaggio verso la Siberia, meta ultima, definitiva della sua giovane esistenza, Kryl’cov si ammala di tubercolosi, e ora non gli restano che alcuni mesi di vita. Egli lo sa, ne è perfettamente consapevole, eppure non si pente di ciò che ha fatto, non rinnega il suo impegno rivoluzionario, che lo ha condotto a una fine prematura, anzi: «diceva che se avesse avuto un’altra vita l’avrebbe spesa per lo stesso scopo: la distruzione dell’ordine di cose in cui era possibile quello che aveva visto» (406).
Mar’ja Pavlovna, Simonson, Kryl’cov: uomini luminosi, la cui conoscenza fa da contraltare a quella di tanti funzionari ipocriti, moralmente corrotti fatta da Nechljudov a Pietroburgo, in uffici e salotti sontuosi. In questa terza e ultima parte di Resurrezione emerge tutta la solidarietà di Tolstoj verso i rivoluzionari – solidarietà manifestata attivamente dallo scrittore già dopo lo zaricidio del 1881, con Tolstoj che si espone in prima persona e chiede alle autorità la grazia per i terroristi di Narodnaja Volja responsabili della morte di Alessandro II, naturalmente senza essere ascoltato -, costretti a utilizzare la violenza da quello Stato che gli dà la caccia e li bracca e li stermina, dopo un’atroce e lunga tortura, come se non fossero uomini, ma bestie, e il cui scopo, il sovvertimento dell’ordine attuale delle cose, in nome del popolo, è lo stesso perseguito dallo scrittore con i suoi libri.
3. Simonson tra Nechljudov e Katjuša
Simonson, che lo ritiene un dovere morale, rivela a Nechljudov la sua volontà di sposare Katjuša: «io voglio soltanto che quell’anima tormentata trovi un po’ di pace», spiega il detenuto. Nechljudov dà il suo consenso, quindi si rivolge a Mar’ja Pavlovna, domandandole come la prenderà Katjuša: «Ama lei, Dmitrij Ivanovič, l’ama di un amore buono, ed è contenta di poterle fare se non altro il bene negativo di non rovinarle la vita» (435), risponde la donna evidenziando ancora una volta quella vocazione al sacrificio che caratterizza l’amore di Katjuša per Nechljudov, un amore ancora più puro, perché più maturo e forgiato da tante sofferenze, di quello giovanile. La proposta di matrimonio di Simonson cambia tutto, rimescola tutto e Nechljudov, che vede il suo obbligo sciolto, prova gelosia e dolore:
«Ciò che gli aveva detto Simonson lo liberava dall’impegno che si era assunto, e che nei momenti di debolezza gli era parso gravoso e strano, eppure provava non solo una sensazione sgradevole, ma addirittura dolore. C’entrava anche il fatto che la proposta di Simonson distruggeva l’eccezionalità del suo gesto, sminuiva agli occhi suoi e altrui l’importanza del sacrificio che era pronto a fare: se un uomo, e di quel valore, senza avere alcun obbligo verso di lei, voleva unire il suo destino al suo, allora quel sacrificio non era poi così notevole. C’era anche, forse, un semplice sentimento di gelosia: era così abituato all’amore di Katjuša, che non riusciva ad ammettere che ella potesse amare un altro. La cosa poi mandava a monte il suo piano di vivere con lei finché non avesse scontato la pena. Se avesse sposato Simonson, la sua presenza diventava inutile, ed egli doveva farsi un nuovo piano di vita» (436).
Nechljudov ne parla direttamente a Katjuša, che però non risponde e fugge via. La storia d’amore tra i due protagonisti, l’altro principale sostegno narrativo del romanzo, insieme con le loro rispettive resurrezioni, è a un momento di svolta.
4. Sul sistema penale
Il viaggio di Nechljudov al seguito dei detenuti – il suo ultimo viaggio, dopo quelli in campagna e a Pietroburgo – è motivo di arricchimento filosofico e perfezionamento morale. Di tutto ciò che ha potuto osservare negli ultimi tre mesi, ormai a poche pagine dalla fine di Resurrezione, egli traccia il seguente bilancio, relativo naturalmente al tema della giustizia, del sistema penale vigente:
«[…] di tutti gli uomini che vivevano in libertà, tramite il tribunale e l’amministrazione si sceglievano i più nervosi, passionali, eccitabili, dotati e forti, e i meno furbi e prudenti, e costoro, nient’affatto più colpevoli o pericolosi per la società degli altri che restavano in libertà, venivano in primo luogo rinchiusi in carceri, stazioni di tappa, bagni penali, dove venivano tenuti per mesi e anni in ozio assoluto, senza preoccupazioni materiali e lontano dalla natura, dalla famiglia, dal lavoro, cioè al di fuori di tutte le condizioni di una vita naturale e morale. Questo in primo luogo. In secondo luogo in questi istituti erano sottoposti a ogni genere di umiliazioni inutili: catene, teste rasate, divisa infamante, venivano cioè privati di quello che per i deboli è lo stimolo principale a una vita onesta: l’opinione della gente, la vergogna, la coscienza della dignità umana. In terzo luogo, essendo esposti a un continuo pericolo di vita per le malattie contagiose endemiche nei luoghi di reclusione, lo sfinimento, le percosse (senza parlare dei casi eccezionali di insolazione, annegamento, incendio), essi si trovavano costantemente in una situazione in cui il migliore, il più morale degli uomini per istinto di sopravvivenza commette e giustifica negli altri gli atti più atroci e crudeli. In quarto luogo erano forzatamente riuniti a depravati, assassini e malfattori eccezionalmente corrotti dalla vita (e in particolare da quelle stesse istituzioni), che agivano come il lievito nella pasta su tutti coloro che i mezzi impiegati non avevano ancora completamente corrotto. E in quinto luogo, infine, in tutte le persone soggette a queste azioni si inculcava nel modo più convincente, e cioè per mezzo di ogni genere di atti disumani perpetrati su di loro, come la tortura dei bambini, delle donne, dei vecchi, le percosse, la fustigazione con le verghe e con le fruste, la ricompensa per chi consegnava vivo o morto un ricercato, la separazione dei mariti dalle mogli e la convivenza forzata con mogli e mariti altrui, la fucilazione, l’impiccagione – s’inculcava nel modo più convincente l’idea che qualsiasi violenza, crudeltà, atrocità non solo non è proibita, anzi è autorizzata dal governo, quando gli torni utile, e perciò è tanto più lecita per chi si trova in prigionia, nell’indigenza e nella sventura» (441-442).
L’attuale sistema penale – è questa la sostanza delle riflessioni di Nechljudov, che si impone come uno dei messaggi principali di Resurrezione, particolarmente caro a Tolstoj – non solo è perfettamente inutile, ma anche, e soprattutto, nocivo, il cui risultato non è altro che perdere, distruggere moralmente per sempre i detenuti, affatto peggiori e più pericolosi degli uomini liberi che ne decretano i destini. Ne risulta un paradosso assurdo e insensato, per ogni uomo dotato di una coscienza critica capace di vedere e di giudicare secondo giustizia, quale è Nechljudov ora: «Centinaia di migliaia di persone ogni anno erano portate al massimo grado di depravazione, e quando erano pronte le si lasciava in libertà, perché poi propagassero fra tutto il popolo la depravazione assimilata nelle prigioni» (442). Le carceri sono scuole di depravazione, anziché correggere corrompono definitivamente, irreversibilmente il detenuto, che poi, una volta liberato al termine della pena, contagia il popolo. Perché il sistema penale abolisce tutte le leggi morali di rispetto e compassione per il prossimo, secondo Nechljudov e Tolstoj necessariamente alla base di un mondo giusto ed equo: «Gli uomini che avevano vissuto nelle prigioni avevano imparato con tutto il loro essere che, a giudicare da quanto accadeva sulla loro pelle, tutte le leggi morali di rispetto e compassione per il prossimo che venivano predicate dagli insegnanti sia di religione che di morale, nella realtà erano abolite, e perciò non andavano osservate» (ibidem).
Nel corso di Resurrezione abbiamo visto Tolstoj elogiare, attraverso Nechljudov, filosofi come Spencer, George, Thoreau. Ora lo vediamo scagliarsi contro Nietzsche, violentemente, legando il pensiero del grande filosofo tedesco persino all’immoralità dei vagabondi cannibali: «Solo coltivando in maniera speciale il vizio come si faceva in quelle istituzioni si poteva ridurre un russo nello stato in cui erano ridotti i vagabondi, che precorrendo la nuovissima dottrina di Nietzsche ritenevano tutto ammesso e nulla proibito e avevano diffuso questa dottrina prima fra i detenuti, e poi in mezzo al popolo» (443). In realtà, leggendo queste parole, più che Nietzsche viene in mente Ivan Karamazov e la sua nichilistica, distruttiva e autodistruttiva idea che se Dio non esiste – egli, è bene sempre ricordarlo, ammette l’esistenza di Dio, ma non accetta il suo mondo, approccio che per Dostoevskij rappresenta l’estrema negazione – tutto è permesso, che ispira a Smerdjakov l’assassinio di Fëdor Pavlovič [3].
Il sistema penale uccide spiritualmente e fisicamente milioni di persone – la prima morte è ancor più grave della prima, perché permette alla depravazione di propagarsi come un’epidemia -. Tutti i vizi e i crimini che si sviluppano e si propagano tra i detenuti non sono che «l’inevitabile conseguenza dell’incomprensibile, erronea convinzione che si possa punire il prossimo» (444). Tutto è mosso dall’interesse personale, dal denaro, dal guadagno, anche l’attività dei magistrati, dei funzionari, che ad esso sacrificano ciò che per loro dovrebbe essere sacro: il bene del popolo. La geniale intuizione di Goethe, che nel Faust affida a Mefistofele l’invenzione del denaro, appare più che mai giusta [4].
5. L’ultimo colloquio tra Nechljudov e Katjuša
Il responso riguardo la domanda di grazia per Katjuša presentata da Nechljudov è favorevole, e la condanna ai lavori forzati è commutata nel confino. Ma tra Nechljudov e Katjuša, nel corso del loro ultimo incontro, è lei a dover comunicare a lui una notizia importante, persino più importante della grazia ricevuta dal sovrano, se possibile. Katjuša rivela infatti a Nechljudov la sua volontà di legarsi per sempre a Simonson, di sposarlo. È l’ultimo atto della loro lunghissima storia d’amore, l’epilogo del loro rapporto tormentato, al quale la donna decide di porre fine per sempre, e non per un malriposto sentimento di rivalsa, di vendetta nei confronti del suo primo, originario offensore, causa di tutte le sue disgrazie – ne avrebbe certo il diritto -, no, ma per troppo amore verso l’uomo che l’ha rovinata, certo, ma che ha messo in discussione tutto e rivoluzionato la sua vita e il suo spirito per lei, per riscattare il proprio peccato e salvare entrambi. Nechljudov stesso dallo sguardo di Katjuša comprende che «ella lo amava e pensava che legandosi a lui gli avrebbe rovinato la vita, mentre andandosene con Simonson lo liberava, e adesso era contenta di aver fatto ciò che voleva, e nello stesso tempo soffriva, nel separarsi da lui» (465). Niente potrebbe far cambiare idea a Katjuša, determinata a sposare Simonson, che la ama per ciò che è ora, non per ciò che è stata e che non sarà mai più, e, così facendo, a liberare Nechljudov, al quale è convinta rovinerebbe la vita – questa convinzione dimostra come Katjuša non comprenda del tutto la metamorfosi avvenuta nel principe, che per lei resta pur sempre tale, dunque, fondamentalmente, un uomo che non le può riguardare -. Nechljudov non si oppone alla decisione di Katjuša, come non si era opposto alla proposta di Simonson, ma questo epilogo inatteso della sua storia con la donna da lui offesa, sedotta e abbandonata, ma pur sempre amata, lo colpisce nel profondo, e dolorosamente.
6. La disperazione di Nechljudov
Subito dopo l’ultimo, breve colloquio con Katjuša, che segna la fine della loro storia d’amore, Nechljudov è preda di una grande stanchezza, una stanchezza esistenziale, più morale e psichica che fisica: «Era stanco non per la notte insonne, non per il viaggio né per l’emozione, ma sentiva di essere terribilmente stanco di tutta la vita» (465). Nechljudov è vittima di una sorta di taedium vitae che si acuisce durante la visita nel carcere siberiano, dove accompagna un filantropo inglese che distribuisce Vangeli ai detenuti. Nella camera mortuaria del carcere Nechljudov trova il cadavere di Kryl’cov ed egli si domanda perché questo giovane stroncato prematuramente dalla tubercolosi abbia sofferto, perché sia vissuto, se lo abbia capito, ora che è morto, e gli sembra che non ci sia risposta ai suoi quesiti, perché non ci sia nient’altro oltre la morte. Tutto d’improvviso naufraga nell’insensatezza, tutto d’improvviso si sgretola sotto i colpi di quella domanda strisciante e inesorabile che svuota di senso l’esistenza di Kryl’cov e di ogni altro uomo: perché? Nechljudov si sente male e lascia il carcere, ricevendo anch’egli in dono dal filantropo inglese una copia del Vangelo.
Il compito di Nechljudov con Katjuša è finito. La donna si avvia verso una nuova vita, al fianco di un altro uomo, Simonson, e lui, Dmitrij Nechljudov, che per lei e grazie a lei ha messo in discussione tutto, lasciandosi alle spalle la vecchia vita da parassita e iniziandone una radicalmente nuova, all’insegna dell’amore e dell’aiuto verso il prossimo, all’insegna di Dio e della sua giustizia, la sola vera giustizia, non le è più necessario. Chissà, nella mente intorbidata di Nechljudov s’insinua forse il sospetto che lui necessario per Katjuša, per la sua resurrezione morale e spirituale, non lo sia neppure mai stato. Nechljudov è vittima della tristezza, della vergogna, e la visita nel carcere, con la conclusiva scoperta del cadavere di Kryl’cov, lo fa sprofondare nella disperazione: il male trionfa, e non solo non s’intravede alcuna possibilità di sconfiggerlo, ma neppure di comprendere come possa essere sconfitto. Tutto sembra andare in perdizione per Nechljudov, tutto sembra disfarsi, sgretolarsi, compresi gli ultimi mesi trascorsi al servizio di Katjuša e degli altri detenuti. Insieme con Katjuša Nechljudov sembra perdere tutto il resto, la vita intera e il suo senso.
7. Il senso
Sta andando tutto a rotoli, ma Nechljudov non si abbandona al fascino sinistro, nichilistico della disfatta, della rovina, della catastrofe – fascino che nel naufragio di dolore è capace persino di recare un certo macabro piacere -, prova a resistere e si rifugia nella lettura del Vangelo donatogli – provvidenzialmente – dal filantropo inglese. Una lettura che lo strappa con forza da quelle sabbie mobili della disperazione nelle quali stava affondando. Innanzitutto il Vangelo gli rivela come sconfiggere quel male istituzionale e autoritario rappresentato dal carcere, e la risposta è la stessa fornita dallo starec Zosima nei Fratelli Karamazov [5]:
«Così gli si chiarì l’idea che l’unica e sicura via di salvezza da quel terribile male di cui soffrivano gli uomini era che essi si riconoscessero sempre colpevoli dinanzi a Dio e perciò incapaci tanto di punire, quanto di correggere il prossimo. Gli era chiaro adesso che tutto il male spaventoso di cui era stato testimone nelle prigioni e nelle carceri, e la tranquilla sicurezza dei responsabili di quel male derivavano solo dal fatto che gli uomini volevano fare una cosa impossibile: essendo malvagi, correggere il male. Uomini viziosi volevano correggere uomini viziosi e pensavano di ottenerlo in modo meccanico. Ma il risultato di tutto ciò era soltanto che uomini bisognosi e avidi, facendosi una professione di questo presunto castigo e correzione del prossimo, si erano corrotti essi stessi al massimo grado e corrompevano ininterrottamente anche coloro che tormentavano. Adesso gli era chiaro donde veniva tutto l’orrore che aveva visto, e che cosa bisognava fare per eliminarlo. La risposta che non aveva saputo trovare era la stessa che aveva dato Cristo a Pietro, e consisteva nel perdonare sempre, tutti, perdonare un numero infinito di volte, perché non c’è uomo che non sia egli stesso colpevole e perciò possa punire o correggere» (474).
Questa soluzione, l’unica possibile, rende Nechljudov definitivamente immune dalla consueta obiezione: dunque che fare con i criminali, lasciarli impuniti?
«La solita obiezione: “che fare con i malviventi: si possono forse lasciare impuniti?” non lo turbava più. Quell’obiezione avrebbe avuto senso se fosse stato dimostrato che il castigo riduce i delitti, corregge i delinquenti; ma essendo dimostrato l’esatto contrario ed evidente che non è in potere degli uni correggere gli altri, l’unica cosa ragionevole che si possa fare è cessare di fare quello che è non solo inutile, ma dannoso, oltreché immorale e crudele. “Da secoli punite quelli che giudicate delinquenti. E allora, sono forse stati eliminati? Non sono stati eliminati, anzi il loro numero è accresciuto sia dai delinquenti che sono corrotti dalle pene, sia da quei criminali-magistrati, procuratori, giudici istruttori, aguzzini, che giudicano e puniscono la gente”. Nechljudov capì allora che la società e l’ordine in generale esistono non perché ci siano questi criminali legalizzati, che giudicano e puniscono gli altri, ma perché, nonostante tale aberrazione, gli uomini comunque si compatiscono e si amano vicendevolmente» (475).
Compassione e amore, incondizionati, malgrado tutto: sono questi i due pilastri che devono sostenere la società. Il Vangelo colma i vuoti di Nechljudov, perfeziona e integra il suo pensiero critico. Leggendo ora questo libro, il libro per eccellenza, suprema guida dell’uomo, in generale, non solo di una religione in particolare – tale lo riteneva anche Dostoevskij -, Nechljudov vi trova per la prima volta delle indicazioni pratiche per fondare una nuova società, libera dall’ingiustizia, dalla violenza, dal male che infestano quella attuale, ormai impossibile da sostenere, e che rappresenta in definitiva l’istituzione del regno di Dio in terra. Tolstoj non considera gli insegnamenti di Cristo mere astrazioni, principi iperbolici, utopici, ma indicazioni socio-spirituali perfettamente attuabili, pratiche, di nuovo, le sole capaci di rendere l’uomo felice qui e ora, in questa vita, su questa terra, ciò che preme di più allo scrittore, ostile a ogni forma di mistero, di misticismo rettorico, fumoso, fine a se stesso, fondamentalmente vuoto e irrealizzabile, dunque inutile e nocivo, perché non fa altro che snaturare il messaggio di Cristo, distruggendone l’essenza e la portata sociale – quanto la figura di Cristo e le sue parole non abbiano nulla a che fare con il misticismo, con la Chiesa e i suoi dogmi, come sostiene Tolstoj, lo dimostra meglio di ogni altra cosa l’ammirazione che hanno nutrito nei suoi confronti pensatori dichiaratamente atei, come Stirner, che nell’Unico e la sua proprietà lo cita quale emblematico esempio storico del ribelle [6], Nietzsche e Michelstaedter, che nella Persuasione e la rettorica lo elegge, insieme con Socrate, supremo modello del persuaso [7].
Un passo del Vangelo colpisce in particolare Nechljudov, quel celebre discorso della montagna tenuto da Cristo su una collina nei pressi di Cafarnao. Tutto è nei cinque comandamenti esposti nel sermone:
«Primo comandamento (Matteo V, 21-26): l’uomo non solo non deve uccidere, ma non deve andare in collera col fratello, non deve considerare nessuno spregevole, “raca”, e se litigherà con qualcuno, dovrà riconciliarsi prima di presentare offerte a Dio, cioè di pregare.
Secondo comandamento (Matteo V, 27-32): l’uomo non solo non deve commettere adulterio, ma deve evitare di godere della bellezza femminile, e una volta unitosi con una donna, non deve tradirla mai.
Terzo comandamento (Matteo V, 33-37): l’uomo non deve impegnarsi mai col giuramento.
Quarto comandamento (Matteo V, 38-42): l’uomo non solo non deve rendere occhio per occhio, ma deve porgere l’altra guancia, quando lo percuotono sulla prima, deve perdonare le offese e sopportarle con rassegnazione e non rifiutare nulla di quel che il prossimo gli chiede.
Quinto comandamento (Matteo V, 43-48): l’uomo non solo non deve odiare i nemici, non deve combattere contro di loro, ma deve amarli, aiutarli, servirli» (475-476).
Nechljudov, fino a pochi istanti prima sprofondato nella disperazione più nera, trova nel Vangelo quella verità ricercata a lungo e invano nei testi scientifici. Una verità «necessaria, importante e gioiosa», di cui egli s’imbeve come la spugna s’imbeve d’acqua. Una verità che egli, come ogni altro uomo, portava già dentro di sé e che lo ha portato a ribellarsi alla sua precedente vita da parassita, ma senza esserne consapevole e senza crederci davvero. Ora invece Nechljudov acquisisce una consapevolezza piena, totale, universale e crede con tutto se stesso, con ogni singola fibra del suo corpo. Delle parole del Vangelo, lette e rilette prima di questo momento decisivo, di estrema lucidità, ma senza coglierne il senso e la portata rivoluzionaria, Nechljudov comprende ora tutto il significato, ed è come se raggiunga di colpo la vera pace e la vera libertà, trovando in esse, nella loro attuazione pratica, «l’unico senso razionale della vita umana». Ecco l’approdo ultimo, definitivo di Resurrezione. Terminata l’opera di rinascita morale e spirituale di Katjuša e di sé medesimo, dinanzi a Nechljudov si spalanca una nuova opera: contribuire affinché gli uomini mettano finalmente in pratica le parole di Cristo e si stabilisca così il regno di Dio in terra. Inizia così per il principe Dmitrij Nechljudov un’esistenza completamente nuova, in cui tutto assumerà un significato completamente diverso rispetto al passato. Si conclude così Resurrezione, l’ultimo e più grande romanzo di Lev Tolstoj, attraversato dall’inizio alla fine, senza interruzioni, da una continua alta-tensione morale che scuote il lettore, costringendolo a guardare in faccia la realtà, rivelandogli quanto essa sia ingiusta, violenta, assurda e dimostrandogli quanto basterebbe poco per cambiare tutto, in meglio, qui e ora. Davvero, non c’è una sola pagina superflua in questo straordinario capolavoro – un ordigno che sconquassa e risveglia bruscamente le nostre coscienze intorpidite, perfettamente confezionato da quel grande attentatore filosofico-letterario che è il secondo Tolstoj.
NOTE
[1] Lev Tolstoj, Resurrezione, traduzione di Emanuela Guercetti, Garzanti, Milano 2013, p. 394. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[2] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo «La sonata a Kreutzer»: Tolstoj contra il matrimonio.
[3] Per un approfondimento sul personaggio dostoevskiano e il suo pensiero rimando al capitolo quinto dello studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso: Ivàn, il nichilista estremo – I-IV, V-VI, VII-IX.
[4] Per un approfondimento sul capolavoro goethiano rimando al contributo Alcune superflue considerazioni sul monumentale Faust di Goethe.
[5] «Tieni soprattutto a mente che non puoi essere giudice di nessuno. Infatti, nessuno su questa terra può giudicare il delinquente senza aver prima riconosciuto di essere egli stesso un delinquente come colui che gli sta davanti, e che di quel delitto egli è forse più responsabile di chiunque altro» (Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, pp. 328-329). Per un approfondimento sul personaggio dostoevskiano rimando al capitolo settimo del già citato studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso: Zòsima, il monaco russo.
[6] «Egli non era un rivoluzionario, come per esempio Cesare, bensì un ribelle, non uno che rovescia gli Stati, ma uno che si sollevava. Per questo il suo principio era solo: “Siate astuti come serpenti”, che esprime la stessa cosa dell’altro principio, più specifico: “Date a Cesare ciò che è di Cesare”; egli non conduceva alcuna battaglia liberale o politica contro l’autorità costituita, ma voleva, incurante di quell’autorità e da essa indisturbato, percorrere la propria strada» (Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, traduzione di Leonardo Amoroso, Adelphi, Milano 2009, p. 332). Per un approfondimento sul pensatore tedesco e la sua opera rimando al contributo Max Stirner, L’unico e la sua proprietà.
[7] Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.