«Resurrezione», l’ultimo e più grande romanzo di Lev Tolstoj. Introduzione

Introduzione – I due Tolstoj

I. Esistono due Lev Tolstoj. Un Tolstoj precedente e un Tolstoj successivo alla conversione del 1881. Il primo Tolstoj è autore delle sue opere più celebri, quelle che, di fatto, hanno consegnato il nome dello scrittore russo all’immortalità e che subito vengono in mente pensando a lui, Guerra e pace e Anna Karenina, opere artisticamente grandiose, monumentali, ma in tutto e per tutto aristocratiche (Dostoevskij, in una lettera a Strachov del maggio 1871, a proposito di Tolstoj, di cui era un appassionato e ammirato lettore, parla di «letteratura di proprietari terrieri» [1]) dunque soggette ad invecchiamento (nella stessa lettera Dostoevskij scrive che questa «letteratura di proprietari terrieri» «ha già detto tutto ciò che aveva da dire» [2]), segnate – inquinate – inevitabilmente dall’esclusivismo e dall’autoreferenzialità (altrove ho definito Guerra e pace il poema della Russia e dei suoi salotti, in cui Tolstoj ci dà sì la possibilità di entrare, ma in cui non ci sentiremo mai a nostro agio; ricorrendo invece di nuovo a Dostoevskij, in una pagina del Diario di uno scrittore – 1877 egli definisce l’illustre e ricco collega lo «storico» del nobile ambiente moscovita [3], così distante dalla fertile massa popolare e dai suoi temi, dalle sue esigenze, così distante dai profondi e laceranti problemi propri della modernità), dalla rettorica ovvero dall’inautenticità, dalla vanità, dalla frivolezza, dalla superficialità.

Il secondo Tolstoj è completamente diverso. Smessi con rabbia e ripugnanza i lussuosi abiti del conte, del proprietario terriero, Tolstoj indossa quelli ben più modesti e, al tempo stesso, luminosi e grandiosi di «apostolo del popolo», come lo definisce Carlo Michelstaedter in un articolo del 1908, scritto in occasione degli ottant’anni dello scrittore russo [4]. Nelle opere del secondo Tolstoj, opere davvero grandi, secondo il dostoevskiano punto di vista del sottoscritto, come La morte di Ivan Il’ič, La sonata a Kreutzer [5], Padre Sergij [6], Resurrezione, all’esercizio artistico, spesso fine a se stesso nel primo Tolstoj, si affianca un intenso e profondo impegno filosofico e morale: la sostanza eguaglia la forma, prevalendo concettualmente. Servendoci ancora delle illuminanti parole di Michelstaedter, il passaggio dal primo al secondo Tolstoj è il risultato di quella «lenta e faticosa evoluzione dall’uomo assiepato dai principi di classe, circondato da seduzioni e attrattive mondane d’ogni genere – all'”uomo”, all’uomo libero nel suo unico amore verso tutta l’umanità, libero nella ferma volontà di non aver bisogno delle fatiche degli altri», caratteristica di tutta la vita dello scrittore russo. E dall’«arte esuberante dei primi romanzi all’arte sobria degli ultimi», continua Michelstaedter, «c’è quel caratteristico processo di purificazione che avviene negli uomini di pensiero. Quanto più il pensiero s’approfondisce, tanto meno l’arte divaga in rappresentazioni inutili, ma incide forme classiche in rapporto a un’intuizione più vasta e più perfetta». Forme classiche che non invecchiano – come, secondo il pensatore goriziano, non invecchia Tolstoj, «giovane d’una giovinezza immortale», eternamente vivo «in un mondo di cadaveri; cadaveri che mangiano, bevono, dormono, parlano, ma non per ciò cessano di essere cadaveri» -, ma la cui bruciante attualità resta e resterà immutata nei secoli, malgrado tutto.

II. La confessione, breve e intenso saggio iniziato nel 1879, completato e diffuso tre anni più tardi e subito censurato per la sua violenta carica anti-ecclesiastica, formalizza e annuncia la conversione di Tolstoj, che non investe solamente la sfera religiosa e spirituale, ma anche quella sociale. Come lo scrittore prende congedo dalla Chiesa ortodossa – e da qualunque altra Chiesa -, definita «menzogna, crudeltà e inganno» in un appunto del 30 settembre 1879 contenuto nel Diario [7], dai suoi dogmi, dai suoi riti fuorvianti e inutili, e da ogni forma di misticismo, colpevole di distogliere l’attenzione da questa vita, così prende congedo dalla propria classe, da quella società di cui è stato un illustre rappresentante e il massimo «storico» in letteratura, ricordando Dostoevskij. La vita dei ricchi «non è vita, ma un simulacro di vita», essi non sono altro che «parassiti della vita» [8], e in quanto tali Tolstoj li sferza e li rinnega, sferzando e rinnegando se stesso e tutto ciò che ha fatto, scritto, pensato fino a questo momento. Il primo Tolstoj muore, nasce il secondo, che mette a disposizione del popolo il proprio genio, quel «popolo semplice e lavoratore» che vive davvero, che fatica, soffre e muore per garantire ai suoi crudeli aguzzini, i «parassiti della vita», ricchezza e benessere, trovando nel Vangelo il senso ultimo e definitivo dell’esistenza, la bussola morale in base alla quale orientare i propri pensieri, i propri comportamenti, qui e ora, recuperandone il significato più autentico e profondo, sepolto, disperso sotto le sovrastrutture ecclesiastiche.

Tolstoj, partecipando come volontario al censimento della popolazione di Mosca, nel gennaio 1882, fa i conti in prima persona con «la dostoevskiana realtà dell’inferno cittadino protocapitalistico», visitando «i quartieri dei diseredati e dei paria, la periferia dell’umanità», e la «scoperta di una nuova faccia dell’abbruttimento umano», la drammatica faccia moderna, conferma allo scrittore «l’urgenza del ritorno a un modello di vita cristiano patriarcale» [9]. In Che cosa dobbiamo fare? (1886), altro importante saggio filosofico-morale, Tolstoj esprime con ardore la necessità impellente, bruciante di un rivolgimento interiore dell’uomo, che lo porti a rinunciare a quei beni – la ricchezza, l’arte, la scienza – e a quei presunti valori – il progresso, funesto mito moderno, perché, come scrive Michelstaedter ne La persuasione e la rettorica, «Tutti i progressi della civiltà sono regressi dell’individuo» [10] – non solo superflui ma dannosi, che lo porti a liberarsi dal velenoso influsso cittadino, dai suoi fetidi e inquinanti miasmi, in favore di una dimensione esistenziale popolare. Vivere come, con e per il popolo, è questo il messaggio sociale di Tolstoj, che non si limita a fare teoria, a fare professione di populismo: Lev Tolstoj, il celebre e ricchissimo scrittore fregiato del titolo di conte, si spoglia dei costosi abiti signorili, indossandone di ben più modesti, da mužik, smette di bere e di fumare, segue una rigorosa dieta vegetariana, sottoponendosi quotidianamente a un severo esercizio di rinuncia, falcia e ara il terreno insieme ai contadini, come testimonia questo splendido dipinto dell’amico Repin.

Rinnegati per sempre i dogmi della Chiesa ortodossa, Tolstoj crea una propria dottrina religiosa, il cosiddetto tolstojsmo, che mette al centro Cristo, ma depurato dal misticismo e dal mistero, secondo un’idea pratica di religione, di fede, che non si lancia in fantomatiche promesse di futura ed eterna beatitudine, ma che intende incidere qui e ora, in questa vita presente, migliorando concretamente la condizione umana. Perché Cristo non è un’iperbole, le sue parole non sono ideali e utopiche, ma facilmente attuabili, costituendo, come vedremo analizzando Resurrezione, il senso più profondo e autentico dell’esperienza umana.

Le riflessioni di Tolstoj non riguardano solamente la società e la religione, ma anche l’economia e la politica. Dal punto di vista economico lo scrittore individua nella proprietà privata la causa primaria, originaria di ogni forma di sfruttamento: dalla privazione della terra, sottratta da pochi privilegiati, i «parassiti della vita», alla sterminata moltitudine di contadini che la lavorano, curvi, spezzati ogni sacrosanto giorno su di essa, derivano tutte le altre forme di schiavitù che incatenano l’uomo, la schiavitù industriale, statale, militare, clericale. Dal punto di vista politico Tolstoj giunge invece alla negazione di qualunque forma di governo, perché qualunque forma di governo, democrazia compresa, non è altro che un regime, una dittatura imposta da pochi a danno di molti. L’idea della necessità dell’esistenza dello stato è una mera «superstizione», come scrive lo scrittore nel saggio Guerra e rivoluzione [11], secondo una visione filosofico-politica profondamente anarchica – sebbene Tolstoj non utilizzi mai questa parola – fondata sul recupero del vero, autentico messaggio cristiano e delle idee pacificamente sovversive di pensatori come La Boétie e Thoreau.

Tutti questi spunti filosofico-morali, sociali, religiosi, economici e politici, come già annunciato nel primo paragrafo, caratterizzano non solo la produzione saggistica del secondo Tolstoj, ma anche la sua grandiosa produzione narrativa, inseriti in contesti creativi che ne esaltano la validità, l’attualità, la necessità, l’applicabilità. In questo senso, lo scarto tra il primo e il secondo Tolstoj è evidentissimo; la sua non è più una letteratura aristocratica, ma popolare, e seppure numerosi personaggi appartengono pur sempre all’alta società, rientrano nella categoria di «parassiti della vita», ad essi lo scrittore «si volge non più per eleggerli a protagonisti di idilli nobiliari [come in Guerra e pace e in Anna Karenina], ma per coglierli nel momento di “crisi” resurrezionali (il momento esplosivo della crisi ha sostituito, in generale, quello rettilineo dello sviluppo) se non, addirittura, per relegarli al ruolo di comparse, in un disegno satirico o di violenta condanna» [12]. Crisi resurrezionali: è il caso del principe Kasatskij in Padre Sergij; è il caso, soprattutto, del principe Nechljudov in Resurrezione, l’ultimo romanzo di Tolstoj, oscurato, soverchiato dai celebri Guerra e pace e Anna Karenina, ma ben più grande, davvero grande nella sua febbrile tensione filosofico-morale esaltata dallo straordinario talento artistico dello scrittore. Rispetto a Guerra e pace e Anna Karenina, dove resta comodamente ancorato alla superficie, «storico» dei lussuosi salotti moscoviti, in Resurrezione Tolstoj, come in tutte le altre opere successive alla conversione del 1881, fa della penna un piccone con il quale scavare in profondità – l’uomo, la vita – fino a raggiungere il senso ultimo e definitivo dell’esistenza.

III. Pur riconoscendo l’oggettiva grandezza artistica di Anna Karenina (sarebbe disonesto il contrario, e ciò vale anche per Guerra e pace), Dostoevskij, in un fondamentale contributo contenuto nel fascicolo di luglio-agosto del Diario di uno scrittore – 1877, critica aspramente il romanzo di Tolstoj, soprattutto in riferimento al personaggio – autobiografico – di Levin e alle sue riflessioni sul popolo, concludendo la propria analisi con questa domanda: «Uomini come l’autore di Anna Karenina sono maestri della società, nostri maestri, e noi loro allievi. E che cosa ci insegnano?» [13]. Una domanda che suona come un atto d’accusa, quello stesso atto d’accusa che Tolstoj deve aver rivolto a se stesso e che lo ha condotto a un rivolgimento spirituale e artistico totale. Da «storico» dell’alta società Tolstoj diviene scrittore e pensatore popolare, civile, raccogliendo proprio la pesante eredità lasciata da Dostoevskij quale guida artistica e spirituale della Russia (in questo senso, è sorprendente la coincidenza cronologica, con la conversione di Tolstoj che giunge al culmine nello stesso anno in cui muore Dostoevskij, il 1881). È così che due autori fino a quel momento distanti, profondamente differenti, finiscono per avere molti punti in comune, sia a livello filosofico che a livello letterario: l’importanza assoluta riservata a Cristo e al popolo russo (naturalmente, oltre alle analogie esistono profonde divergenze, riguardanti soprattutto il ruolo della Chiesa ortodossa e dello Stato, istituzioni indispensabili per Dostoevskij [14]), la rappresentazione di crisi e strappi interiori che tormentano i personaggi (un aspetto davvero peculiare della poetica dostoesvkiana, si pensi ad esempio all’emblematico caso di Raskol’nikov in Delitto e castigo, che questo stato di lacerazione lo porta impresso già nel nome [15]). Utilizzando un’espressione azzardata, successivamente alla conversione del 1881 Tolstoj si dostoevskizza, e a dimostrazione e suggello di quanto sia davvero forte il legame tra i due più grandi scrittori russi, tra due dei più grandi scrittori di sempre, si ricordi che Tolstoj, nella sua ultima, disperata fuga da Jasnaja Poljana, conclusa nella piccola stazione ferroviaria di Astapovo, dove terminò la sua lunga vita, portò con sé anche un’opera di Dostoevskij, l’ultima, I fratelli Karamazov [16].

IV. Tolstoj scappa di casa a ottantadue anni suonati. A ottantadue anni suonati affronta un viaggio durissimo, in sovraffollati e fumosi vagoni di terza classe. La fuga e il viaggio gli costano la vita. Ma i grandi scrittori non muoiono, mai, e ancora oggi Tolstoj, attraverso le sue opere, attraverso La morte di Ivan Il’ič, attraverso La sonata a Kreutzer, attraverso Padre Sergij, attraverso soprattutto Resurrezione – uno di quei cinquanta o sessanta libri davvero necessari nella storia della letteratura -, continua a prendere «pel petto questa società soffocata dalle menzogne», popolata da una moltitudine di cadaveri, «cadaveri che mangiano, bevono, dormono, parlano, ma non per ciò cessano di essere cadaveri», gridandole dritto in faccia «verità! verità!» [17].

NOTE

[1] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 129.

[2] Ibidem.

[3] Fëdor Dostoevskij, Diario di uno scrittore, traduzione di Ettore Lo Gatto, Bompiani, Milano 2010, p. 1021.

[4] Questa e le seguenti citazioni del filosofo, scrittore e poeta goriziano sono tratte da Carlo Michelstaedter, Tolstoi, in Id., Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, pp. 650-654. Per la lettura integrale del testo e la relativa analisi rimando al capitolo secondo della terza parte dello studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter: Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj.

[5] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo «La sonata a Kreutzer»: Tolstoj contra il matrimonio.

[6] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Padre Sergij, oltre se stessi.

[7] Citato in Serena Vitale, Introduzione a Lev Nikolaevič Tolstoj, Resurrezione, Garzanti, Milano 2013, p. XXV.

[8] Ivi, p. XXVI.

[9] Ibidem.

[10] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 156.

[11] Per un approfondimento sul saggio rimando al contributo Guerra e rivoluzione: l’anarchico Tolstoj contro la superstizione statalista.

[12] Citato in Serena Vitale, Introduzione a Lev Nikolaevič Tolstoj, Resurrezione, cit., p. XXIX.

[13] Fëdor Dostoevskij, Diario di uno scrittore, cit., p. 1047.

[14] Per un approfondimento sulla dostoevskiana Weltanschauung rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.

[15] Per un approfondimento su Raskol’nikov e il celebre romanzo di cui è protagonista rimando al contributo Delitto e castigo, dalla dialettica alla vita.

[16] Eraldo Affinati, Il peso dell’altro ne I fratelli Karamazov, in Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Newton Compton editori, Roma 2011, p. 7. Per un approfondimento sull’ultimo romanzo dello scrittore rimando allo studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso.

[17] Carlo Michelstaedter, Tolstoi, cit.

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