Vasilij Grigor'evič Perov, Ritratto di Dostoevskij, 1872

Fëdor Dostoevskij, «Il villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti»: Fomà Fomìč, il parassita morso dal serpente dell’amor proprio letterario

Il ritorno di Dostoevskij alla letteratura, dopo la forzata inattività dovuta ai quattro anni di katorga, rievocati artisticamente nelle Memorie di una casa morta [1], avviene nel segno del comico, con i romanzi Il sogno dello zietto e Il villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti, pubblicati entrambi nel 1859, nella «Parola russa» il primo, negli «Annali della Patria» il secondo. Il principale motivo d’interesse del Villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti, l’opera sulla quale concentriamo oggi la nostra attenzione, è costituito senza dubbio dalla figura di Fomà Fomìč Opìškin, il protagonista. Priživàlščik ovvero parassita d’origine nobile, ma decaduta, come Fëdor Pàvlovič Karamazov in giovinezza [2], Fomà Fomìč, cinquantenne piccolo di statura, mingherlino, il naso ricurvo e il volto presuntuoso crivellato di piccole rughe, un grosso porro sul mento, è un ex funzionario che ha sofferto «per la verità», che ha fallito, sistematicamente, incapace di essere all’altezza delle proprie ambizioni letterarie. In vita non gli è riuscito nulla, e così entra alle dipendenze del generale Krachòtkin, «in qualità di lettore e di martire». In realtà, del generale Krachòtkin Fomà è il buffone, ma un buffone capace di conquistare un grande potere nella metà femminile della casa, soprattutto per la sua inclinazione religiosa, o meglio, mistica e per il suo contegno severamente moraleggiante: «Egli leggeva ad alta voce dei libri per la salvezza dell’anima, discorreva con lacrime eloquenti delle varie virtù cristiane; raccontava la sua vita e le sue gesta; andava a messa e perfino a mattutino, prediceva un poco l’avvenire; era particolarmente abile a spiegare i sogni e criticava magistralmente il prossimo» [3]. Alla morte del generale Krachòtkin Fomà si trasferisce dal figlio della generalessa, il colonnello Egòr Il’ìč Rostanëv, nel villaggio di Stepànčikovo, e qui smette di essere un buffone, esercitando un’influenza straordinaria sul padrone di casa e l’intera sua cerchia. Fomà spadroneggia e rivela tutta la sua spregevole, insopportabile natura, senza che nessuno ad essa si opponga, anzi.

«Figuratevi il più insignificante, il più meschino degli uomini, un rifiuto della società, non necessario ad alcuno, del tutto inutile, del tutto ripugnante, ma di un amor proprio smisurato e, per giunta, senza la minima dote con cui possa comunque giustificare il suo amor proprio morbosamente irritabile. Avverto fin d’ora: Fomà Fomìč è l’incarnazione dell’amor proprio più illimitato, ma, nello stesso tempo, di un amor proprio speciale, e precisamente di quello che si accompagna alla più completa nullità, e, come di solito accade in simile caso, di un amor proprio offeso, schiacciato dai duri insuccessi precedenti, venuto a suppurazione da un pezzo, e da allora schizzante invidia e veleno a ogni nuovo incontro, a ogni riuscita altrui. Non è il caso di dire che tutto questo è condito dalla più mostruosa permalosità, dalla più pazzesca diffidenza» (19).

Fomà Fomìč ha in passato composto un romanzetto, a Mosca, un romanzetto «molto simile a quelli che là si cucinavano, negli anni dopo il ’30, a diecine per anno, del genere delle varie Liberazioni di Mosca, dei vari Atamàn Tempesta e I Figli dell’amore, ovvero I russi nell’anno 1104, ecc. ecc., romanzi che offrivano a suo tempo un piacevole alimento all’arguzia di Barone Brambeus». Morso e roso nel profondo dal «serpente dell’amor proprio letterario», in casa del povero colonnello si prende la sua attesissima rivincita, e dopo essere stato oppresso per anni e anni si fa crudele oppressore.

«[…] il serpente dell’amor proprio letterario punge talvolta profondamente e insanabilmente, specie gli uomini insignificanti e sciocchi. Fomà Fomìč era stato amareggiato fin dal primo passo letterario e si era già allora definitivamente unito a quell’enorme falange di delusi da cui escono poi tutti gli stravaganti, tutti i vagabondi e i randagi. Sempre da allora, credo, si sviluppò in lui quella mostruosa vanità, quella sete di elogi e di distinzioni, d’inchini e di ammirazione. Anche da buffone, egli s’era formato un gruppetto d’idioti che lo veneravano. Purché potesse in qualche luogo, in qualche modo primeggiare, profetare, far lazzi e vanterie: ecco il suo maggior bisogno! Non lo lodavano, e lui cominciò a lodarsi da sé. Io stesso ho udito le parole di Fomà nella casa dello zio, a Stepànčikovo, quand’egli già n’era diventato il signore assoluto e il profeta: “Io non sto di casa fra voi”, diceva talvolta con una certa misteriosa importanza, “io non son qui di casa! Ora vi sistemo tutti, vi faccio vedere, v’insegno, e poi addio: a Mosca, a pubblicare una rivista! Trentamila persone converranno ogni mese alle mie lezioni. Echeggerà, infine, il mio nome, e allora… guai ai miei nemici!” Ma il genio, mentre ancora si accingeva a coprirsi di gloria, pretendeva una ricompensa immediata. Fa, in generale, piacere ricevere la paga anticipatamente, ma in questo caso soprattutto. Egli affermò sul serio allo zio (lo so), che lui, Fomà, aveva da compiere una grandissima impresa, impresa per cui era stato chiamato al mondo e al cui compimento lo spingeva un cert’uomo con le ali, o alcunché di simile, che gli appariva di notte. Precisamente: scrivere un’opera profondissima, di genere edificante, che avrebbe prodotto un terremoto universale e fatto scricchiolare tutta la Russia. E quando tutta la Russia avesse scricchiolato, egli, Fomà, sprezzando la gloria, sarebbe andato in un monastero e avrebbe pregato giorno e notte nelle caverne di Kiev per la felicità della patria. Tutto ciò sedusse lo zio.
E ora figuratevi cosa possa diventare un Fomà per tutta la vita oppresso e calpestato, e anzi, forse, realmente pestato, un Fomà in segreto sensuale e pieno d’amor proprio, un Fomà letterato deluso, un Fomà buffone per il pane quotidiano, un Fomà despota nell’animo, a onta di tutta la sua precedente nullità e impotenza, un Fomà millantatore e, in caso di riuscita, insolente, questo Fomà venuto a un tratto in onore e in fama, vezzeggiato e coperto di lodi, grazie all’idiota protettrice e all’abbagliato, accomodante protettore, nella cui casa era infine capitato, dopo lunghi vagabondaggi. […] per Fomà si era avverato il proverbio: fallo sedere a tavola, e lui ci metterà su anche i piedi. Sì, s’era presa la rivincita per il suo passato! Un’anima bassa, uscendo dall’oppressione, opprime a sua volta. Fomà era stato oppresso, e sentì subito il bisogno di opprimere; s’era fatto lo smorfioso con lui, ed egli si mise a far lo smorfioso con gli altri. Era stato buffone, e sentì subito il bisogno di avere anch’egli i suoi buffoni. Si vantava fino all’assurdo, faceva il lezioso fino all’impossibile, pretendeva il latte di gallina, tiranneggiava senza misura, e si arrivò al punto che delle brave persone, non essendo ancora state testimoni di tutte queste gesta, ma udendole solo raccontare, prendevano tutto ciò per un incantesimo, per una diavoleria, si segnavano e sputavano» (20-22).

A Stepànčikovo Fomà si prende la sua rivincita, approfittando della sconfinata, ambigua devozione della generalessa e della natura mite del figlio, il colonnello Rostanëv, zio del narratore, uomo «buono all’eccesso», «un bimbo di quarant’anni» espansivo e allegro «che supponeva tutti gli uomini angeli, che si accusava degli altrui difetti ed esagerava all’estremo le buone qualità degli altri, anzi le presumeva dove nemmeno potevano esserci» (22). Fomà, auto-imponendosi quale supremo esempio di sofferenza, di rettitudine e di conoscenza, ha vita facile con un simile individuo, soprattutto dopo averlo convinto di essere «stato inviato da Dio in persona per la salvezza dell’anima sua e per moderare le sue sfrenate passioni» (24). In verità il colonnello ha un’anima pura, è un uomo virtuoso, nobile e generoso, ma non importa: coadiuvato dalla generalessa Fomà crea un’altra realtà, una realtà in cui lui, sedicente martire perseguitato da fantomatici nemici, un po’ come Goljàdkin [4], spadroneggia liberamente, spietatamente, senza alcun ritegno, conferendo ad ogni suo capriccio la solennità della legge, e contraddirlo non è possibile. Così Fomà pretende che il povero colonnello si radi le fedine, perché poco patriottiche. Quando il padrone di casa mostra entusiasmo per la visita di un suo antico superiore, un generale, Fomà si offende e pretende che lo si chiami Vostra Eccellenza per un’intera giornata. Perché Fomà prende tutto, ma proprio tutto come un’offesa personale, e «irritare i nervi alla gente» è per lui una necessità impellente, fisiologica. Invidioso che si festeggi l’onomastico del figlio del colonnello, dichiara che nello stesso giorno è anche il suo onomastico. Ma l’impresa più grande di Fomà, per il suo ampio respiro culturale e filantropico, è il tentativo di ingentilire, come Orfeo, i costumi locali, ma non con il canto, bensì con la lingua francese. Sì, Fomà pretende di insegnare il francese alla servitù e ai contadini di Stepànčikovo! Il colonnello non si oppone, mai, accetta e asseconda tutti i capricci del suo salvatore, ma giunge inesorabile il momento della ribellione: Fomà offende pubblicamente Nàsten’ka, la giovane governante amata dal colonnello e il colonnello reagisce – finalmente – con violenza, afferrando Fomà e scaraventandolo contro la porta a vetri, che va in frantumi:

«”Ancora una sola mezza parola oltraggiosa per lei e io ti ammazzo, Fomà, te lo giuro!…”
“Io la dico questa parola, poiché di una fanciulla finora innocentissima voi siete riuscito a fare la più depravata delle fanciulle!”
Fomà aveva appena pronunziato l’ultima parola che lo zio lo afferrò per le spalle, lo girò come una pagliuzza e lo gettò con forza contro la porta a vetri che conduceva dallo studio nel cortile della casa. Il colpo fu così forte che la porta socchiusa si spalancò completamente, e Fomà, ruzzolando come una trottola per i sette scalini di pietra, andò lungo disteso nel cortile. I vetri rotti si sparpagliarono in frantumi sui gradini della scaletta.
“Gavrìla, tiralo su!” gridò lo zio, pallido come un cadavere, “mettilo sulla telèga, e che fra due minuti non ci sia più traccia di lui in Stepànčikovo!”
Qualunque cosa avesse meditato Fomà Fomìč, di sicuro non si attendeva un simile scioglimento» (221-222).

Il dominio dispotico del parassita nel villaggio di Stepànčikovo sembra concludersi qui – per l’intima soddisfazione del lettore -, ma Fomà Fomìč ha ancora un asso nella manica, l’ultimo, spettacolare asso. Abbattuto e stordito dal temporale viene ricondotto in casa del colonnello, bagnato dalla testa ai piedi, inzaccherato, e qui, pubblicamente, non solo si scusa con Nàsten’ka, ma benedice la sua unione con Egòr Il’ìč, quando tutta la famiglia, e Fomà stesso in testa, aveva tramato fino al giorno prima alle spalle del padrone di casa per sposarlo alla ricca, ma esaltata, psicologicamente instabile e debole di nervi Tat’jàna Ivànovna. Malmenato, scacciato, umiliato Fomà torna e «crea la felicità generale»: il coup de théâtre che gli permetterà di spadroneggiare nel villaggio di Stepànčikovo per altri sette anni, fino alla morte. Naturalmente, tra le sue carte, di quell’«opera profondissima […] che avrebbe prodotto un terremoto universale e fatto scricchiolare tutta la Russia», «grandissima impresa […] per cui era stato chiamato al mondo e al cui compimento lo spingeva un cert’uomo con le ali […] che gli appariva di notte», non emerge neppure un abbozzo o un semplice disegno, ma ciò non impedisce alla famiglia del colonnello di erigere alla memoria di Fomà, sulla sua tomba, «un prezioso monumento di marmo bianco, tutto screziato da motti funebri e da epigrafi elogiative» (263-264). L’ultimo, definitivo trionfo del geniale parassita maestro della nobile arte della vendetta, nella sua forma più sottile e sopraffina.

L’indiscusso e indiscutibile eroe del Villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti, concepito inizialmente da Dostoevskij non come un romanzo, ma come una commedia, con l’opera che serba numerose tracce dell’aurorale progetto, il parassita morso e roso nel profondo dal serpente dell’amor proprio letterario, Fomà Fomìč Opìškin, rientra in una categoria di personaggi centrale nella letteratura dello scrittore russo, quella dei falliti rancorosi che riversano tutte le loro frustrazioni sul prossimo, vendicandosi così degli innumerevoli insuccessi in realtà imputabili solo ed esclusivamente a se stessi. Pensando alle opere precedenti di Dostoevskij vengono in mente il già citato Goljàdkin, protagonista del Sosia, ed Efimov, il violinista alcolizzato e dispersivo padrino di Netočka Nezvanova nell’omonimo romanzo incompiuto [5]. Pensando invece alle opere successive una figura spicca su tutte le altre, quella dell’uomo del sottosuolo nelle fondamentali Memorie [6], vero e proprio emblema del fallito rancoroso, personaggio – ripeto – centrale in Dostoevskij e di cui Fomà rappresenta un ulteriore grado di sviluppo e di perfezionamento.

NOTE

[1] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Dostoevskij e l’esperienza di vita della katorga: lettura delle «Memorie di una casa morta». Introduzione, Prima parte, Seconda parte.

[2] Per un approfondimento sull’ultimo romanzo dello scrittore russo rimando allo studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso.

[3] Fëdor Dostoevskij, Il villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti, traduzione di Alfredo Polledro, Quodlibet, Macerata 2016, p. 14. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[4] Per un approfondimento su Goljàdkin e il romanzo di cui è protagonista rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Il sosia»: l’annientamento del signor Goljàdkin, il primo uomo del sottosuolo.

[5] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Netočka Nezvanova»: infanzia e adolescenza d’una donna.

[6] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parte, Seconda parte.

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