Luigi Pirandello: siamo tutti in trappola

«Siamo tanti morti affaccendati, che c’illudiamo di fabbricarci la vita».

Pubblicata nel 1912 sul «Corriere della Sera» e tre anni più tardi in volume, la novella La trappola è uno dei testi più neri e spietati di Pirandello, se non il più nero e spietato in assoluto. In essa la critica negativa del proprio tempo, della propria società e dell’idea inautentica di vita che essa veicola, costitutiva, fondativa dell’attività letteraria e filosofica dello scrittore siciliano, conosce il suo esito più radicale, estremo, tragico – completamente tragico, una volta tanto, privo dell’attenuazione umoristica -, nichilistico. La trappola si presenta come un concentrato e serrato grumo di riflessioni negative che ammette infine un’unica soluzione: il suicidio. Non la scrittura come nel Fu Mattia Pascal, non la reificazione come nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, non la follia come in Uno, nessuno e centomila [1], non il riso come in Quando s’è capito il giuoco, ma l’autodistruzione: questa la conclusione cui giunge l’anonima voce monologante della Trappola, e anche questo solo dato basterebbe a confermare quanto scritto sopra.

Consapevole, dell’illusorietà, dell’inautenticità, della vanità del tutto, come i protagonisti dei testi sin qui citati – Mattia Pascal, Serafino Gubbio, Vitangelo Moscarda e Memmo Viola -, il protagonista della Trappola rifiuta la borghese e minorata soluzione della rassegnazione proposta evidentemente dall’imprecisato interlocutore, borghese e minorato. Se avesse «qualche dovere verso altri, forse sì», ma non ne ha. «E allora perché?» [2]. Perché? La domanda terribile che rivela l’insensatezza della vita e dunque di ogni singola attività umana. La domanda terribile che svuota e distrugge di colpo tutta la storia, tutta la civiltà. Non resta che una sterminata distesa di macerie. Il muto, dunque reificato interlocutore, non può dargli torto. Nessuno può dargli torto, perché ciò che sente lui – la vanità, l’insensatezza – lo sentono tutti. Tutti, indistintamente, e in un momento in particolare delle loro squallide, ridicole e vuote giornate: la notte, quando si svegliano di soprassalto, privati del conforto del sole e sono costretti a fare i conti, faccia a faccia, con la terrorizzante consapevolezza di essere niente, di valere niente, mentre tutta la loro realtà, fittizia, inconsistente e artificiale trema, scossa dalle fragili fondamenta poggiate sul nulla:

«Perché avete tanta paura di svegliarvi la notte? Perché per voi la forza alle ragioni della vita viene dalla luce del giorno. Dalle illusioni della luce.
Il buio, il silenzio, vi atterriscono. E accendete la candela. Ma vi par triste, eh? triste quella luce di candela. Perché non è quella la luce che ci vuole per voi. Il sole! il sole! Chiedete angosciosamente il sole, voialtri! Perché le illusioni non sorgono più spontanee con una luce artificiale, procacciata da voi stessi con mano tremante.
Come la mano, trema tutta la vostra realtà. Vi si scopre fittizia e inconsistente. Artificiale come quella luce di candela. E tutti i vostri sensi vigilano tesi con ispasimo, nella paura che sotto a questa realtà, di cui scoprite la vana inconsistenza, un’altra realtà non vi si riveli, oscura, orribile: la vera. Un alito… che cos’è? Che cos’è questo scricchiolio?
E, sospesi nell’orrore di quell’ignota attesa, tra brividi e sudorini, ecco davanti a voi in quella luce vedete nella camera muoversi con aspetto e andatura spettrale le vostre illusioni del giorno. Guardatele bene: hanno le vostre stesse occhiaie enfiate e acquose, e la giallezza della vostra insonnia, e anche i vostri dolori artritici. Sì, il rodio sordo dei tofi alle giunture delle dita.
E che vista, che vista assumono gli oggetti della camera! Sono come sospesi anch’essi in una immobilità attonita, che v’inquieta.
Dormivate con essi lì attorno.
Ma essi non dormono. Stanno lì, così di giorno, come di notte.
La vostra mano li apre e li chiude, per ora. Domani li aprirà e chiuderà un’altra mano. Chi sa quale altra mano… Ma per loro è lo stesso. Tengono dentro, per ora, i vostri abiti, vuote spoglie appese, che hanno preso il grinzo, le pieghe dei vostri ginocchi stanchi, dei vostri gomiti aguzzi. Domani terranno appese le spoglie aggrinzite d’un altro. Lo specchio di quell’armadio ora riflette la vostra immagine, e non ne serba traccia; non serberà traccia domani di quella d’un altro».

Un passo che ricorda moltissimo certi luoghi e temi de La persuasione e la rettorica di Michelstaedter [3] – in questo senso possiamo considerare La trappola il più michelstaedteriano dei testi di Pirandello, assumendo il filosofo, scrittore e poeta goriziano come massimo, più radicale ed estremo punto di riferimento del pensiero critico e negativo, tutto di matrice leopardiana [4], del primo Novecento italiano, cui va iscritto anche l’autore siciliano – dove è proprio nell’oscurità della notte, immersi nelle tenebre, che gli uomini tremano, «quando la trama dell’illusione s’affina, si disorganizza, si squarcia», quando «fatti impotenti, si sentono in balia di ciò che è fuori della loro potenza, di ciò che non sanno: temono senza sapere di che tremano. Si trovano a voler fuggire la morte senza più aver la via consueta che finge cose finite da fuggire, cose finite cercando» [5]. Sono queste le «spaventevoli soste», quando gli uomini nel sonno sono visitati dai sogni, e il «ghigno sarcastico» gli scaraventa addosso tutta la loro miseria, tutta la loro nullità: «ùuùuùuùu… niente, niente, niente, non sei niente, so che non sei niente, so che qui t’affidi ed io ti distruggerò sotto il piede il terreno, so quello che riprometti a te stesso e non ti sarà mantenuto, come tu hai sempre promesso e mai tenuto, non hai mai tenuto – perché non sei niente, e non puoi niente, io so che non puoi niente, niente, niente…» [6]. Come ho già scritto altrove, Michelstaedter qui si spinge oltre Leopardi, lo attraversa e ne radicalizza il pensiero, privando l’uomo persino del conforto del sonno, mantenuto intatto dal recanatese, e anche nella più radicale e severa delle Operette morali, il Cantico del gallo silvestre.

Oggetto della serrata e radicale critica di Michelstaedter è la «rettorica», definita «inadeguata affermazione d’individualità» [7]. E di «inadeguata affermazione d’individualità», sostanzialmente, sebbene con altri termini, di inautenticità, di artificiosità la voce monologante della novella di Pirandello accusa il suo muto interlocutore e la società e, più in generale, l’epoca che esso rappresenta, in cui ognuno si dà una propria realtà, illudendosi che si tratti dell’unica, della sola vera, e così facendo formalizzandosi e dunque uccidendosi. Perché la forma è la morte, la forma è quella trappola in cui ognuno di noi finisce inevitabilmente da subito, dalla nascita, suo malgrado:

«Voi pregiate sopra ogni cosa e non vi stancate mai di lodare la costanza dei sentimenti e la coerenza del carattere. E perché? Ma sempre per la stessa ragione! Perché siete vigliacchi, perché avete paura di voi stessi, cioè di perdere – mutando – la realtà che vi siete data, e di riconoscere, quindi, che essa non era altro che una vostra illusione, che dunque non esiste alcuna realtà, se non quella che ci diamo noi.
Ma che vuol dire, domando io, darsi una realtà, se non fissarsi in un sentimento, rapprendersi, irrigidirsi, incrostarsi in esso? E dunque, arrestare in noi il perpetuo movimento vitale, far di noi tanti piccoli e miseri stagni in attesa di putrefazione, mentre la vita è flusso continuo, incandescente e indistinto.
Vedi, è questo il pensiero che mi sconvolge e mi rende feroce!
La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco; non la terra che si incrosta e assume forma.
Ogni forma è la morte.
Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprende, in questo flusso continuo, incandescente e indistinto, è la morte.
Noi tutti siamo esseri presi in trappola, staccati dal flusso che non s’arresta mai, e fissati per la morte.
Dura ancora per un breve spazio di tempo il movimento di quel flusso in noi, nella nostra forma separata, staccata e fissata; ma ecco, a poco a poco si rallenta; il fuoco si raffredda; la forma si dissecca; finché il movimento non cessa del tutto nella forma irrigidita.
Abbiamo finito di morire. E questo abbiamo chiamato vita!
Io mi sento preso in questa trappola della morte, che mi ha staccato dal flusso della vita in cui scorrevo senza forma, e mi ha fissato nel tempo, in questo tempo!».

A differenza della stragrande maggioranza dei suoi simili, il protagonista della novella sente di essere preso, imprigionato in quella trappola della forma che uccide. E non uomini vivi, ma morti si muovono, o piuttosto trascinano, in società, inconsapevoli di essere morti e illudendosi di essere vivi, fabbricandosi una vita apparente che non esiste e non può esistere entro i confini della trappola. Morti che si trascinano e si accoppiano e accoppiandosi non generano la vita ma la morte:

«Siamo tanti morti affaccendati, che c’illudiamo di fabbricarci la vita.
Ci accoppiamo, un morto e una morta, e crediamo di dar la vita, e diamo la morte… Un altro essere in trappola!
– Qua, caro, qua; comincia a morire, caro, comincia a morire… Piangi, eh? Piangi e sguizzi… Avresti voluto scorrere ancora? Sta’ bonino, caro! Che vuoi farci? Preso, co-a-gu-la-to, fissato… Durerà un pezzetto! Sta’ bonino…».

Anche in questo caso viene in mente Michelstaedter, in particolar modo un passo dell’articolo Tolstoi, pubblicato sul «Corriere friulano» nel 1908, in occasione degli ottant’anni del grande scrittore russo:

«Guardiamo intorno a noi: da ogni parte la moltitudine degli “arrivati”, di coloro che si trovano sulla “retta via che conduce – come dice Tolstoi – a un utile sicuro”, di coloro cui l’abitudine degli altri è la coscienza morale, cui è criterio di ragionamento un esempio tratto dalla propria o dall’altrui esperienza, cui è scopo nella vita la vita stessa. Costoro sono vecchi prima che il corpo arrivi al completo sviluppo della piena giovinezza, sono vecchi perché la loro anima cristallizzata non osa più guardare innanzi a sé, sono vecchi perché il peso del loro ottimismo li costringe alla forma di vita acquisita come la fame costringe il ragno a girar ventiquattro volte intorno al centro per far la tela nel suo angolo polveroso.
Di fronte a questi Tolstoi, che non desistette mai dalla fatica intellettuale per armonizzare in una più vasta visione ogni elemento della vita all’ideale dell’amore universale, che poi non desistette mai dalla fatica morale di ridurre la sua vita alla forma che questa visione gli imponeva, è giovane d’una giovinezza immortale. Giovane è tutto ciò che diviene; vecchio non solo ma morto è ciò che è già divenuto. Guardiamo intorno a noi: noi viviamo in un mondo di cadaveri; cadaveri che mangiano, bevono, dormono, parlano, ma non per ciò cessano di essere cadaveri» [8].

L’affinità tra Pirandello e Michelstaedter, i due maggiori discepoli leopardiani del Novecento italiano, è qui evidentissima. Nelle parole del goriziano ritroviamo quell’idea di vita intesa come perpetuo divenire, opposta all’idea di forma intesa come morte, costitutiva della riflessione letteraria e filosofica di Pirandello, e che troverà nella non-conclusione di Uno, nessuno e centomila – di cui La trappola anticipa tutti i temi – la sua massima affermazione. L’altrui «abitudine», scrive Michelstaedter, rispecchia la «coscienza morale» degli «arrivati», cadaverica «moltitudine», ed è anche l’abitudine che il protagonista della novella pirandelliana si sforza di allontanare da sé, insieme con gli altri ipocriti lacci – i doveri, gli affetti – che incrostano lo spirito:

«Io vedo, con ribrezzo, il mio spirito dibattersi in questa trappola, per non fissarsi anch’esso nel corpo già leso dagli anni e appesito. Scaccio subito ogni idea che tenda a raffermarsi in me; interrompo subito ogni atto che tenda a divenire in me un’abitudine; non voglio doveri, non voglio affetti, non voglio che lo spirito mi s’indurisca anch’esso in una crosta di concetti. Ma sento che il corpo di giorno in giorno stenta vie più a seguire lo spirito irrequieto; casca, casca, ha i ginocchi stanchi e le mani grevi… vuole il riposo! Glielo darò».

La forma è la trappola e la trappola, per gli uomini, è nelle donne, che «ci rimettono per un momento nello stato d’incandescenza, per cavar da noi un altro essere condannato alla morte. Tanto fanno e tanto dicono, che alla fine ci fanno cascare, ciechi, infocati e violenti, là nella loro trappola». Anche il protagonista della novella c’è cascato, e di recente – per questo è così «feroce», tanto da voler affondare le unghie «nella faccia d’ogni femmina bella che passi per via, stuzzicando gli uomini, aizzosa» -, con una «madonnina» umile e timida, l’infermiera di suo padre, rimbrottata di continuo dal marito «imbecille» perché incapace di dargli un figlio (è questo il succinto spunto narrativo della novella, a sostegno del predominante impianto riflessivo, filosofico):

«Ma capisci com’è? Quando uno comincia a irrigidirsi, a non potersi più muovere come prima, vuol vedersi attorno altri piccoli morti, teneri teneri, che si muovano ancora, come si moveva lui quand’era tenero tenero; altri piccoli morti che gli somiglino e facciano tutti quegli attucci che lui non può più fare.
È uno spasso lavar la faccia ai piccoli morti, che non sanno ancora d’esser presi in trappola, e pettinarli e portarseli a spassino».

Il protagonista ammira la «madonnina» perché incapace di dare «al marito la soddisfazione di mettere in trappola un altro infelice». Un errore, perché l’improduttività non è nella donna, ma nell’«imbecille», e così è proprio lui, il protagonista, vinta la ferocia dalle lusinghe della «madonnina», a donare alla coppia di morti un piccolo morto, «tenero tenero» – spietata e macabra ironia della sorte, ironia della morte. Nascere significa cadere in trappola, essere presi nella trappola e uccisi, e il protagonista ha la tentazione d’impedire che accada anche a colui che definisce, con una spietatezza bruciante, il proprio «rimorso»:

«Io non vedrò il mio rimorso. Non lo vedrò. Ma ho la tentazione, in certi momenti, di correre a raggiungere quella malvagia e di strozzarla prima che metta in trappola quell’infelice cavato così a tradimento da me».

Mattia Pascal trova rifugio nella vecchia chiesa riadattata a biblioteca, afferra carta e penna e scrive la propria rocambolesca storia; Serafino Gubbio ammutolisce divenendo perfetto per il proprio tempo; Vitangelo Moscarda naufraga nella follia e in un eterno presente nascendo e morendo in ogni cosa in ogni attimo; Memmo Viola, compreso il giuoco, trova conforto nel riso e nel divertimento. In tutti questi casi l’esistenza è accettata, nonostante tutto, e si tira avanti, in un modo o nell’altro. Ciò non vale per il protagonista della Trappola, che, stanco più di tutti, e forse proprio per questo più di tutti autenticamente umano, vede nel suicidio l’unica via d’uscita dallo strazio quotidiano – per chi, come lui, ne è consapevole – della forma, l’unica possibile liberazione dalla trappola.

«Vieni, vieni; entra qua con me, in quest’altra stanza. Guarda!
Questo è mio padre.
Da sette anni, sta lì. Non è più niente. Due occhi che piangono; una bocca che mangia. Non parla, non ode, non si muove più. Mangia e piange. Mangia imboccato; piange da solo; senza ragione; o forse perché c’è ancora qualche cosa in lui, un ultimo resto che, pur avendo da settantasei anni principato a morire, non vuole ancora finire.
Non ti sembra atroce restar così, per un punto solo, ancor preso nella trappola, senza potersi liberare?
Egli non può pensare a suo padre che lo fissò settantasei anni addietro per questa morte, la quale tarda così spaventosamente a compiersi. Ma io, io posso pensare a lui; e penso che sono un germe di quest’uomo che non si muove più; che se sono intrappolato in questo tempo e non in un altro, lo debbo a lui!
Piange, vedi? Piange sempre così… e fa piangere anche me! Forse vuol essere liberato. Lo libererò, qualche sera, insieme con me. Ora comincia a far freddo; accenderemo, una di queste sere, un po’ di fuoco… Se ne vuoi profittare…
No, eh? Mi ringrazii? Sì, sì, andiamo fuori, andiamo fuori, amico mio. Vedo che tu hai bisogno di rivedere il sole, per via».

Luperini sostiene che la principale differenza tra Pirandello e Michelstaedter, accomunati dall’energica carica critica e negativa, consista negli esiti differenti di queste due fondamentali esperienze filosofico-letterarie del Novecento italiano – e non solo -: a differenza del goriziano, Pirandello non giunge mai al nichilismo; l’esistenza non ha alcun senso, ma va accettata [9]. Un approdo cui giungono la stragrande maggioranza dei testi narrativi dello scrittore siciliano, ma non La trappola, novella profondamente michelstaedteriana e nichilistica, in cui tutto, dalla prima all’ultima parola, è nero – anche e soprattutto, nervalianamente [10], quel sole che rassicura gli illusi, gli inconsapevoli, i veri morti -, e l’unico barlume di luce è rappresentato dal suicidio, cui allude non a caso la conclusiva immagine del fuoco.

NOTE

[1] Per un approfondimento sui tre maggiori romanzi di Pirandello rimando agli articoli Vivo morto, morto vivo… insomma, Mattia Pascal, Luigi Pirandello, «Quaderni di Serafino Gubbio operatore» ovvero della reificazione, Luigi Pirandello, «Uno, nessuno e centomila»: dall’illusione alla dissociazione e infine alla dissoluzione.

[2] Le citazioni sono tratte da Luigi Pirandello, Novelle per un anno, Newton Compton editori, Roma 2016.

[3] Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

[4] Per un approfondimento sul pensiero leopardiano rimando agli articoli Giacomo Leopardi, il nulla, Giacomo Leopardi, «Canto notturno» ovvero l’inconveniente di essere nati, Sulle Operette morali.

[5] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 1982, p. 56.

[6] Ivi, pp. 58-59.

[7] Ivi, p. 98.

[8] Carlo Michelstaedter, Tolstoi, in Id., Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, pp. 650-654. Per la lettura integrale dell’articolo e la relativa analisi rimando al capitolo secondo della terza parte dello studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter: Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj.

[9] Romano Luperini, Il Novecento, vol. I, Loescher, Torino 1981.

[10] Mi riferisco naturalmente alla poesia di Nerval El desdichado («l’astro mio solo è morto, e il leuto stellato / ha impresso il sole nero della Melanconia», traduzione di Mario Praz, in Mario Praz, Ettore Lo Gatto, Antologia delle letterature straniere, vol. II, Sansoni, Firenze 1955). Per la lettura del componimento e un approfondimento sul poeta francese rimando all’articolo Gérard de Nerval, il poeta diseredato.

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