Introduzione
La nave intrappolata nel profondo Sud, immersa nella nebbia e sferzata dalla neve. Irrigidita dal freddo eccezionale, insostenibile, la ciurma tremante, circondata da ghiaccio, ghiaccio e ancora ghiaccio, che s’allunga verso il cielo inclemente in vere e proprie montagne galleggianti e abbaglianti. Uno sterminato deserto bianco e gelido, privo d’ogni forma di vita: una trappola mortale. Ma ecco che un albatro, in tutta la sua regale eleganza e bellezza, compare dal nulla, apparizione divina, guidando la nave fuori dall’inferno glaciale. Favorevole è il vento, esulta la ciurma, scampato il pericolo, e gioca, grata, con il miracoloso uccello.
Ma ecco che contro il provvidenziale volatile il vecchio marinaio, senza svelarne la misteriosa ragione, leva la sua minacciosa balestra. Scocca l’implacabile, insana freccia e abbatte l’albatro, che precipita, morto. Incombe sull’ingrata nave una terribile maledizione: la Morte e la Vita nella Morte si giocano l’intera ciurma ai dadi: la seconda vince solo il vecchio marinaio, l’assassino, che vede perire uno per uno i suoi compagni di sventure ed è condannato a raccontare a chiunque incontri la sua terribile storia.
Questa, in breve, la trama della celebre Ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge, scampata miracolosamente a quella «tragedia della volontà», come la definisce Praz, di cui fu vittima il poeta, spirito dispersivo, divoratore cronico d’oppio, animato da propositi, progetti, sogni, ma incapace di realizzarli. E per un uomo non c’è maledizione peggiore che non essere all’altezza della propria ambizione.
Tornando al componimento, in un tale groviglio di simboli, in una tale densità allusiva, è impossibile fare chiarezza con certezza, sdipanare l’intricata matassa simbolica e spiegare razionalmente, logicamente ogni singolo riferimento. E allora, prima di lasciarvi alla lettura della Ballata, del suo cuore pulsante, l’uccisione dell’albatro e la maledizione della ciurma, mi limito a ricordare come, parole di Coleridge nella sua Biografia letteraria, «Un’idea, nel senso più alto del termine, non può essere espressa se non attraverso un simbolo».
Testo (e illustrazioni, di Gustave Doré)
Parte seconda
… «E poi ci venne nebbia e neve insieme,
faceva freddo straordinariamente:
e montagne di ghiaccio, quanto gli alberi alte,
ci flottavano accanto, verdi smeraldo.
[La terra del ghiaccio e degli spaventevoli fragori, sulla quale non si scorgeva cosa vivente.]
Tra il turbinare le rocce innevate
facevano un lugubrissimo vedere:
non avvistavi forma d’uomo o bestia –
il ghiaccio era dovunque.
Ghiaccio qui, ghiaccio là,
era dovunque, il ghiaccio:
e crosciava, ringhiava, ruggiva ed ululava,
i rumori che intendi da svenuto!

[Finché un grande uccello marino, un Albatro, apparì di tra la bruma nevosa e venne accolto con gioia ed ospitalità grandi.]
Alla fine incrociammo un Albatro,
sbucò di tra la bruma;
lo salutammo in nome del Signore,
quasi che fosse un’anima cristiana.
Mangiò del cibo che mai aveva assaggiato,
e ci volava intorno di continuo.
Il ghiaccio si fendé scoppiando in tuono:
il timoniere ci passò nel bel mezzo!
[Ed ecco che l’Albatro si rivela uccello di buon augurio e segue la nave nel suo ritorno a nord, tra foschia e banchi di ghiaccio galleggianti.]

Ci nacque a poppa un vento benigno;
l’Albatro ci teneva compagnia,
ed ogni giorno, per cibo o per gioco,
compariva al richiamo di noi.
Facesse nebbia o nuvolo, sull’albero o su sartia,
si stette appollaiato nove sere;
mentre di notte la bruma bianca
baluginava la luce della luna».
[Il vecchio Marinaio slealmente uccise il pio uccello di buon augurio.]
«Dio ti scampi, mio vecchio Marinaio,
dai diavoli che ti torturano così!
Perché fai quella faccia?» Con la balestra
io abbattei quell’Albatro.
[…]

[La nave entra subitamente in bonaccia.]
Cadde la brezza, caddero le vele:
più triste di così era impossibile;
noi si parlava solamente per rompere
il silenzio del mare!
In un cielo rovente, di rame,
il sanguigno Sole, a mezzodì,
stava a piombo sul maestro,
non più grosso della Luna.
Un giorno e un altro, un giorno dopo l’altro
stemmo, senza un alito, una scossa;
fermi come una nave dipinta
sopra un oceano dipinto.
[E si inizia la vendicazione dell’Albatro.]
Acqua, acqua in ogni dove,
ed il fasciame s’imbarcava tutto;
acqua, e soltanto acqua,
e neanche una goccia da bere.
Marciva perfin l’abisso. O Cristo!
Che dovesse succederci questa!
Cose vischiose strisciavano,
con mille piedi, sul vischioso mare.
Intorno a noi, a sciami vorticanti,
fuochi di morte ballavano a notte;
e l’acqua, come gli oli delle streghe,
ardeva verde, azzurra e bianca.
[Uno Spirito li aveva seguiti: uno degli invisibili abitatori di questo pianeta, non anime dipartite né angeli; riguardo ai quali si può consultare il dotto ebreo Giuseppe e Michele Psello, Platonico Costantinopolitano. Sono numerosissimi e non v’è clima od elemento che non ne conti uno o più.]
Certuni in sogno presero coscienza
dello Spirito che così ci tribolava:
ci aveva seguiti, nove braccia sotto,
dalla terra della bruma e della neve.
Ed ogni lingua, per la sete estrema,
s’era seccata alla radice;
non cacciavamo fuori la parola,
peggio che fossimo ingozzati di fuliggine.
[I compagni, nella loro ambascia, non esitano a gettar l’intera colpa sul vecchio Marinaio; in segno di che, gli appendono al collo l’uccello morto.]
Povero me! Che truci sguardate
mi toccarono da giovani e vecchi!
Al collo, al posto della croce,
mi venne appeso l’Albatro.
Parte terza
Passarono giorni di pena. Riarsa
la gola d’ognuno, l’occhio invetrato.
Giorni di pena! Giorni di pena!
[Il vecchio Marinaio scorge, lontanissimo, un segno sulle acque.]
Come vitrei gli stanchi occhi
quando, fissandoli a ponente,
vidi qualcosa contro il cielo.
Sulle prime mi parve un puntolino,
quindi un cencio di nebbia;
e si muoveva, e finalmente prese,
salvo mio abbaglio, una sua qualche forma.
Un puntolino, una nebbia, una forma!
E s’accostava, s’accostava:
come eludendo un folletto marino,
beccheggiava, virava e bordeggiava.
[Da più presso, gli sembra una nave; e a caro prezzo libera la favella dai ceppi.]
La gola stretta, le nere labbra cotte,
non potevamo ridere né piangere,
ammutiti per l’estrema arsione!
Mi morsi il braccio, ne succhiai il sangue
e: Vela! urlai, una vela!
La gola stretta, le nere labbra cotte,
a bocca larga m’udirono urlare:
[Un lampo di gioia,]
Gran Dio! digrignarono i denti per la gioia,
e tutt’insieme respirarono profondo,
proprio come bevessero tutti.
[cui segue l’orrore. Perché può essere una nave che s’avanzi senza vento e senza flusso?]
Là, (gridavo), guardate là! Più non bordeggia!
Ma certo punta al nostro soccorso;
senza bava di vento, senza spinta di flutto,
vien diritta e liscia liscia.
Tutta avvampava l’onda di ponente.
Il giorno se ne stava per morire.
Quasi in bilico sull’onda di ponente
si stava il Sole largo e risplendente;
quando quella strana sagoma s’infilò di colpo
tra noi e il Sole.
[Gli pare soltanto lo scheletro d’una nave.]

E tosto il Sole si striò di sbarre,
(Madre celeste, facci protezione!)
Come guardasse da grata di galera
con tonda faccia e fiammeggiante.
Ahimè! (pensai, e il cuor mi martellava)
come presto s’avvicina!
son le sue vele a riflettersi nel Sole
come spiritate ragnatele?
[Si vedon le coste della nave come sbarre sulla faccia del Sole all’occaso. La Donna spettro e la sua compagna in morte sono, sole, a bordo della nave-scheletro. Tale la nave, tale la ciurma!]
Son le sue coste quelle tra le quali
guardava il Sole, come da una grata?
E quella Donna è tutta la sua ciurma?
Quella è la Morte? E ce ne sono due?
È la Morte la socia della donna?
Aveva rosse le labbra, e franco l’occhio,
e i ricci come l’oro:
la pelle bianca, com’è dei lebbrosi:
ella era l’orrida Vita nella Morte,
che congela agli uomini il sangue.
[La Morte e la Vita nella Morte si son giocata ai dadi la ciurma della nave, e la seconda vince il vecchio Marinaio.]

Ci abbordò quel bastimento nudo,
e le due stavan buttando i dadi;
«La partita è finita! Ho vinto, ho vinto!»
Gridò, e dà tre fischi.
[Non c’è crepuscolo dentro le corti del Sole.]
S’immerge il Sole: le stelle erompono;
d’un passo solo sopravviene il buio;
con un sibilo udito di lontano,
saettò via il vascello spettrale.
[Al sorgere della Luna,]
Ascoltammo e guardammo in su di sbieco!
Al mio cuor la paura, come a una coppa,
sembrava sorseggiarmi tutto il sangue!
Le stelle smorte, densa era la notte,
bianco, sotto la sua lanterna,
balenava il volto del timoniere;
la rugiada gocciolava dalle vele –
finché ascese da levante
la Luna cornuta, con una stella brillante
ancorata sulla sua punta bassa.
[Un dopo l’altro]
Un dopo l’altro, sotto la Luna e la stella
sua scorta, senza tempo per rantolo o sospiro,
ognun voltò la faccia in uno spasimo atroce
e con gli occhi mi maledì.
[I suoi compagni cadono morti.]
Quattro volte cinquanta uomini vivi,
(e non intesi rantolo o sospiro)
con tonfo greve, come ciocchi secchi,
l’un dopo l’altro, caddero.
[Ma la Vita nella Morte dà inizio all’opera sua sul vecchio Marinaio.]
L’anime si dipartirono dai corpi, –
volando a beatitudine o a tormento!
E ciascun’anima accanto mi passò
come il frullo della mia balestra!
(Samuel Taylor Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, traduzione di B. Fenoglio, Einaudi, Torino 1964)