Richard Rothwell, Ritratto di Mary Shelley, 1840

«Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno» di Mary Shelley: il lato oscuro della scienza

«Imparate da me – se non dai miei consigli, dal mio esempio – quanto pericoloso sia l’acquisto della scienza, quanto più felice sia chi crede mondo la sua città, di chi aspira ad elevarsi più di quanto la sua natura consenta».

Concepito da Mary Shelley a neppure vent’anni sul lago di Ginevra nella mancata estate del 1816, il romanzo Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno mette in guardia da un uso sregolato, smodato della scienza, mostrandone con efficacia conturbante il lato oscuro. Il giovane scienziato ginevrino Frankenstein, scoperto il modo di creare la vita, decide di assemblare un uomo mettendo insieme pezzi di cadaveri. Ne viene fuori un mostro, che suscita immediatamente la profonda ripugnanza del suo creatore e diffonde, dopo la mancata integrazione nell’umano consorzio, dolore e morte, uccidendo il fratello, la moglie e il migliore amico di Frankenstein.

Dopo questa breve introduzione, leggiamo i passi del romanzo dedicati alla creazione della creatura da parte del giovane scienziato, che nella narrazione in prima persona, quando ormai è ad un passo dalla morte, sfinito dalla ricerca del mostro, ripercorre le tappe di quella innaturale e insana impresa, mostrando se stesso vittima di un ardore scientifico che lo allontana appunto dalla natura e dagli affetti, in una dimensione prometeica, ma di Prometeo moderno, e questo secondo termine è sempre sinonimo di irreparabili sciagure.

«Dalla vostra ansia, dalla meraviglia e dalla speranza che i vostri occhi esprimono, amico mio, vedo che vi aspettate di conoscere il segreto che vi ho svelato. È impossibile: ascoltatemi con pazienza fino al termine del mio racconto e comprenderete facilmente perché sono riservato su questo punto. Non voglio condurvi, inesperto ed ardente come ero io allora, a una sicura rovina. Imparate da me – se non dai miei consigli, dal mio esempio – quanto pericoloso sia l’acquisto della scienza, quanto più felice sia chi crede mondo la sua città, di chi aspira ad elevarsi più di quanto la sua natura consenta.
Come mi trovai fra le mani un potere così sbalorditivo, esitai a lungo circa il modo di utilizzarlo. Per quanto possedessi la capacità di suscitare la vita, pure la creazione di una forma atta a riceverla, con tutti i suoi intrichi di fibre, di muscoli e di vene, restava sempre un’impresa di difficoltà e di fatica inconcepibili. Fui incerto dapprima se tentare la creazione di un essere come me o quella di un organismo più semplice, ma la mia immaginazione era troppo esaltata dal successo conseguito, per permettermi di dubitare della mia capacità di dar vita ad un animale complesso e meraviglioso come l’uomo. I materiali cui potevo in quel momento ricorrere apparivano inadeguati ad un’impresa così ardua. Mi preparai a una serie di insuccessi: forse i miei sforzi sarebbero stati continuamente delusi, e forse alla fine la mia opera sarebbe riuscita imperfetta; pure, quando consideravo i quotidiani progressi della scienza e della meccanica, ero incoraggiato a sperare che i miei tentativi avrebbero almeno gettato le basi di una futura vittoria. Né la grandezza e la complessità del mio piano mi apparivano come indici della sua pratica inattuabilità. Così mi accinsi alla creazione di un essere umano. Poiché la piccolezza degli organi rappresentava un grande ostacolo alla mia fretta, decisi, contrariamente alla mia intenzione, di costruire una creatura gigantesca, alta otto piedi circa e robusta in proporzione. Presa questa risoluzione, impiegai proficuamente alcuni mesi a raccogliere e ad apprestare ciò che mi era necessario, poi mi misi all’opera.
Nessuno può immaginare la complessità dei sentimenti che, come un uragano, mi travolsero nel primo entusiasmo del successo. Vita e morte mi apparivano legami ideali che io per primo avrei potuto spezzare, rovesciando sul nostro buio mondo un torrente di luce. Una nuova specie mi avrebbe benedetto come sua origine e creatore; molti esseri eccellenti e felici avrebbero dovuta a me la loro esistenza. Nessun padre avrebbe avuto diritto alla gratitudine dei figli così completamente come io mi sarei meritato da loro. Seguendo il corso di tali riflessioni, pensai che, se potevo animare materia inerte, avrei potuto con l’andare del tempo (anche se ciò mi era per il momento impossibile), rinnovare la vita là dove la morte sembrava aver votato il corpo alla distruzione.
Tali pensieri valsero a sostenere il mio spirito mentre continuavo nella mia impresa con ardore instancabile. Le mie guance si erano fatte pallide per lo studio, il mio corpo emaciato per l’isolamento. Spesso, sull’orlo della certezza, fallivo; pure mi abbarbicavo alla speranza che il giorno o l’ora seguente potessero segnare il mio successo. Io solo possedevo il segreto della mia attività, e la luna era spettatrice delle mie fatiche notturne mentre, con costanza incrollabile e ansiosa, penetravo nei misteri della natura. Chi può immaginare gli orrori del mio lavoro segreto, quando mi calavo nelle umide profondità di una tomba, o torturavo gli animali vivi per animare la creta inerte? Al ricordo, le ginocchia mi tremano e tutto mi ondeggia davanti agli occhi, ma allora un impulso irresistibile e quasi frenetico mi spingeva innanzi; sembrava che anima e sensi mi fossero rimasti per quest’unico scopo. Ma fu solo una esaltazione passeggera, che valse unicamente ad acuire la mia sensibilità quando, scomparso lo stimolo innaturale, mi riuscì di tornare alle vecchie abitudini. Raccolsi ossa da cripte e profanai i segreti del corpo umano. Attrezzai il mio misterioso laboratorio in una camera solitaria, o meglio in una soffitta, separata dagli appartamenti mediante un corridoio e una rampa di scale. Gli occhi quasi mi schizzavano dalle orbite mentre seguivo i particolari del mio lavoro. Sala anatomica e mattatoio mi fornivano buona parte di ciò che mi occorreva; spesso la mia natura si ritraeva disgustata da quello di cui mi stavo occupando, mentre, spinto da un’ansia sempre crescente, progredivo nel mio lavoro e lo avviavo alla conclusione.
I mesi estivi passarono mentre mi dedicavo corpo e anima a questo solo scopo. Fu una stagione splendida: mai i campi diedero messe più abbondante, mai le viti fornirono più ricca vendemmia: ma i miei occhi erano insensibili alle grazie della natura. E gli stessi sentimenti che mi facevano trascurare il mondo circostante, mi spinsero a dimenticare gli amici lontani che non vedevo da tanto tempo.
[…] Ma non potevo distogliere i miei pensieri dal lavoro che, repugnante in se stesso, si era impadronito irresistibilmente della mia immaginazione. Desideravo rimandare ogni manifestazione di affetto al giorno in cui avessi raggiunto l’obiettivo che teneva occupata ogni fibra del mio essere.
Pensavo che mio padre sarebbe stato ingiusto se avesse attribuito a colpa o a negligenza la mia trascuratezza; oggi invece sono convinto che aveva ragione a immaginare che io non fossi esente da colpa. Un essere umano perfetto deve sempre conservare equilibrio e serenità, senza permettere a passione o a desiderio transitori di turbar la sua quiete. Non credo che la ricerca del sapere rappresenti un’eccezione a questa regola. Se lo studio cui vi dedicate tende a indebolire i vostri affetti e a distruggere la vostra inclinazione per le gioie più semplici e più pure, quello studio è certo illecito, cioè non si adatta alla mente umana. […] Passarono così inverno, primavera ed estate; ma io non seguii il graduale fiorire delle piante – spettacolo che sempre mi aveva colmato di gioia – tanto profondamente ero occupato nei miei studi. Le foglie, quell’anno, si disseccarono prima che il mio lavoro s’avvicinasse alla meta, ma ogni giorno più mi vedevo vicino al successo. Pure il mio entusiasmo era ottenebrato dall’ansia, ed io, più che un artista che si dedichi alla sua occupazione favorita, sembravo uno schiavo condannato a faticare nelle miniere o a qualche altro triste commercio. Ogni notte era tormentato da una febbre leggera, e inoltre mi ero fatto nervosissimo: disturbi, questi, che tanto più temevo in quanto avevo fino allora goduto ottima salute e sempre avevo giurato sulla solidità dei miei nervi. Ma pensavo che moto e svaghi avrebbero presto fatto scomparire tali sintomi, e mi ripromisi l’uno e gli altri, quando la mia creazione fosse stata compiuta.
Era una cupa notte di novembre quando vidi il coronamento delle mie fatiche. Con un’ansia che assomigliava all’angoscia, raccolsi attorno a me gli strumenti atti ad infondere la scintilla di vita nell’essere inanimato che giaceva a miei piedi. Era quasi l’una del mattino; la pioggia batteva monotona contro le imposte e la candela avrebbe presto dato i suoi ultimi guizzi quando, alla luce che stava per spegnersi, vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; respirò a fatica, e un moto convulso le agitò le membra.
Come descrivere le mie emozioni dinanzi a questa catastrofe, o come dare un’idea dell’infelice che, con cura e pena infinite, mi ero sforzato di creare? Le sue membra erano proporzionate, ed avevo scelto i suoi lineamenti in modo che risultassero belli. Belli! Gran Dio! La sua pelle giallastra nascondeva a malapena il lavorio sottostante dei muscoli e delle arterie; i suoi capelli erano folti e di un nero lucido, i suoi denti di un bianco perlaceo; ma tutti questi particolari non facevano che rendere più orribile il contrasto con i suoi occhi acquosi, i quali apparivano quasi dello stesso colore delle orbite, di un pallore terreo, in cui erano collocati, con la sua pelle grinzosa e con le sue labbra nere e diritte.
I casi della vita non sono così mutevoli come i sentimenti della natura umana. Avevo lavorato duramente per quasi due anni al solo scopo di infondere la vita a un corpo inanimato. Per questo mi ero negato riposo e salute. Avevo desiderato il successo con un ardore che trascendeva ogni moderazione; ma ora che vi ero giunto, la bellezza del sogno svaniva, e il mio cuore era pieno di un orrore e di un disgusto indicibili. Incapace di sopportare la vista dell’essere che avevo creato, mi precipitai fuori del laboratorio e passeggiai a lungo su e giù per la mia camera da letto, senza decidermi a prender sonno. Alla fine la stanchezza subentrò al tumulto che prima mi aveva scosso, e mi gettai sul letto, vestito com’ero, sforzandomi di trovare qualche istante d’oblio. Invano: dormii, sì, ma il mio sonno fu disturbato dagli incubi più spaventosi. Mi pareva di vedere Elisabetta che, nel fiore della salute, passeggiava per le strade di Ingolstad. La abbracciavo con gioiosa sorpresa, ma le labbra, che le sfioravo nel primo bacio, assumevano il pallore livido della morte, i suoi lineamenti mutavano, ed ecco che io stringevo fra le braccia il cadavere di mia madre; un sudario ne ricopriva le forme, ed io potevo vedere i vermi che strisciavano sotto i lembi della stoffa. Inorridito, mi scossi dal sonno; un sudore gelido mi copriva la fronte, i denti mi battevano, tremavo convulso in tutte le membra; poi, al chiarore incerto e giallo della luna che filtrava attraverso le imposte, scorsi lo sciagurato, il miserabile mostro che io avevo creato. Sollevò le cortine del letto, ed i suoi occhi, se occhi possono chiamarsi, si fissarono su di me. Dischiuse le mascelle e mormorò qualche suono inarticolato, mentre una smorfia gli contraeva le guance.
Forse parlò, ma io non lo sentii; aveva una mano tesa in avanti, forse per trattenermi, ma fuggii e mi precipitai giù per le scale. Mi rifugiai nel cortile della casa dove abitavo, e lì rimasi per il resto della notte, camminando in su e in giù agitatissimo, tendendo ansiosamente l’orecchio e sussultando di paura ad ogni rumore, quasi esso mi annunciasse l’avvicinarsi dell’essere demoniaco cui così follemente avevo dato la vita.
Oh, nessun mortale avrebbe potuto reggere all’orrore di quel volto! Una mummia ritornata a vita non avrebbe potuto essere più spaventosa. Lo avevo osservato quando era incompiuto: era già brutto allora; ma quando muscoli e giunture erano stati resi capaci di moto, era diventato qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire» [1].

Emerge chiaramente da queste pagine il tema fondamentale del romanzo di Mary Shelley: la critica alla scienza quando questa si spinge oltre l’etica, approdando in zone oscure, seminando terrore e morte. In particolar modo spicca l’opposizione tra scienza e natura, sottolineata con chiarezza dallo stesso Frankenstein, e subito, con parole che risuonano prepotenti, imponendosi come un monito, il monito proprio dello scienziato che ha osato e fatto i conti in prima persona con il male generato da questa sua immorale temerità: «Imparate da me – se non dai miei consigli, dal mio esempio – quanto pericoloso sia l’acquisto della scienza, quanto più felice sia chi crede mondo la sua città, di chi aspira ad elevarsi più di quanto la sua natura consenta». L’esperienza di Frankenstein è stata talmente dolorosa, talmente devastante – lo ha privato dei suoi affetti più cari: il fratello, la moglie, il migliore amico – da condurlo persino all’esaltazione di uno stato di minorità in cui dominerà pure l’ignoranza, ma dove almeno non si corrono rischi. Si tratta di fatto di una reazione caratteristica di colui il quale, sperimentato l’estremo e avendone saggiato l’orrore, si getta nel suo opposto, rifiutando qualsiasi compromesso. Ed anche più avanti in questo passo Frankenstein, prosternato dal dolore e dalla fatica, avverte tutti i ricercatori del sapere di non sacrificare all’altare dello studio gli affetti e le gioie più semplici e pure, esortandoli a mantenere sempre una condizione di equilibrio e serenità: «Un essere umano perfetto deve sempre conservare equilibrio e serenità, senza permettere a passione o a desiderio transitori di turbar la sua quiete. Non credo che la ricerca del sapere rappresenti un’eccezione a questa regola. Se lo studio cui vi dedicate tende a indebolire i vostri affetti e a distruggere la vostra inclinazione per le gioie più semplici e più pure, quello studio è certo illecito, cioè non si adatta alla mente umana». Consumato dall’errore, errore che potremmo definire faustiano – anche se nel capolavoro goethiano è l’allievo Wagner a creare artificialmente l’uomo, l’Homunculus, che peraltro si contraddistingue per un impeto vitale positivo e gioioso [2] -, e dalla disperazione. Frankenstein approda ad un ideale di aurea mediocritas che può solo limitarsi ad esporre e non a vivere, vista la prossimità della sua fine.

Ora, una simile critica alla scienza può essere compresa appieno – anche se noi lettori del XXI secolo potremmo semplicemente limitarci a riandare con la mente agli orrori della Seconda guerra mondiale – solo se contestualizzata. L’Ottocento è il secolo degli stravolgimenti, del progresso tecnologico, della Rivoluzione industriale, che concepisce proprio lo sterminato e devastante mostro dell’industrialismo: il passato viene spazzato via, sostituito da un presente avvilente, alienante. La creatura forgiata da Frankenstein, da questo incosciente Prometeo moderno, potrebbe allora imporsi come la rappresentazione allegorica di quel mostro dell’industrialismo e della macchina che tanti danni ha fatto, o addirittura della nascente classe operaia, comunque sempre figlia del progresso ottocentesco, come propone Moretti [3]. In ogni caso, Mary Shelley riesce nella straordinaria impresa di condensare nel proprio, giustamente celebre romanzo le paure della propria epoca, paure che in fondo sono anche le nostre, fondate sulla consapevolezza che l’uomo, così sciocco nella sua genialità, è innatamente propenso alla creazione di mostri di cui egli stesso sarà vittima.

NOTE

[1] Mary Shelley, Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno, traduzione di B. Tasso, Rizzoli, Milano 1975.

[2] Per un approfondimento sull’opus magnum del poeta tedesco rimando al contributo Alcune superflue considerazioni sul monumentale Faust di Goethe.

[3] Franco Moretti, Dialettica della paura, in Id., Segni e stili del moderno, Einaudi, Torino 1987.

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