Dipinto di Vladimir Makovskij

Fëdor Dostoevskij, «Povera gente»: la nascita del genio

«A voi la verità è aperta ed annunciata perché siete un artista, vi è stata data in dono, apprezzate il vostro dono, restate ad esso fedele e sarete un grande scrittore!…».

1. Il momento più incantevole della mia vita

Il 1846 è un anno cruciale nella storia della letteratura; nasce infatti il genio di Fëdor Dostoevskij, che esordisce con il romanzo Povera gente, inserito nell’almanacco «Peterburgskij sbornik» [1]. Alla pubblicazione, o meglio, in una fase ancora preliminare, alla diffusione dell’opera prima dello scrittore russo, è legato uno dei suoi ricordi più cari e importanti, che Dostoevskij stesso rievoca – ispirato da una recente visita al poeta Nekrasov, malato – nel fascicolo di gennaio del Diario di uno scrittore 1877, definendolo il «momento più incantevole» della sua vita. Leggiamo.

«Allora (trent’anni fa!) avvenne qualche cosa di così giovanile, fresco, buono, una di quelle cose che rimangono per sempre nel cuore di chi vi partecipa. Avevamo allora poco più di vent’anni. Io vivevo a Pietroburgo, dimissionario già da un anno dal corpo degli ingegneri, non sapendo io stesso perché, con gli scopi meno chiari e precisi che sia possibile immaginare. Era il mese di maggio del quarantacinque. Al principio dell’inverno avevo cominciato a un tratto a scrivere Povera gente; era il mio primo racconto, non avendo fino ad allora scritto ancora nulla. Finito il racconto non sapevo cosa farne e a chi darlo. Non avevo quasi nessun conoscente fra i letterati, ad eccezione di D. V. Grigorovič, ma anche lui allora non aveva ancora scritto nulla, oltre il piccolo bozzetto Organetti di Pietroburgo pubblicato in un almanacco. Se non mi sbaglio egli si accingeva allora ad andare a passare l’estate nella propria casa di campagna, ma intanto, da qualche tempo, viveva presso Nekrasov. Venuto a trovarmi, mi disse: “Portate il manoscritto – egli stesso non l’aveva ancora letto; – Nekrasov vuol pubblicare l’anno venturo una raccolta; glielo mostrerò”. Io portai il manoscritto, vidi Nekrasov per un minuto, ci stringemmo la mano. Ero imbarazzato all’idea di essere venuto con la mia opera e me ne andai in fretta senza aver scambiato con Nekrasov quasi neppure una parola. Pensavo poco al successo e temevo il partito delle “Otèčestvennye Zapiski”, come allora si diceva. Belinskij lo leggevo già da alcuni anni, ma mi pareva minaccioso e terribile e: “riderà della mia Povera gente!”, m’era venuto qualche volta in mente. Ma soltanto qualche volta; io avevo scritto il mio racconto con passione, quasi con le lacrime agli occhi; “ma davvero tutto questo, tutti questi minuti che io ho vissuto con la penna in mano scrivendo questo racconto, non sono altro che menzogna, miraggio, falso sentimento?”. Ma pensavo così, si capisce, solo a tratti, e l’apprensione immediatamente ritornava. La sera di quello stesso giorno in cui avevo dato il manoscritto, andai in qualche posto lontano da uno dei miei compagni d’una volta; tutta la notte parlammo de Le anime morte e ne leggemmo le pagine non ricordo quante volte. Allora avveniva questo tra i giovani. Si riuniscono in due, tre e: “Se leggessimo Gogol’, signori?”, e si siedono e leggono, perfino tutta la notte. Allora tra i giovani moltissimi erano come afferrati da qualche cosa, come in attesa di qualche cosa. Ritornai a casa ch’erano già le quattro, in una notte bianca di Pietroburgo, chiara come il giorno. Era un tempo bellissimo, tiepido, ed entrato in casa non mi misi a dormire, ma aprii la finestra e mi sedetti presso la finestra. Ed ecco a un tratto il campanello, con mia grandissima sorpresa, ed ecco Grigorovič e Nekrasov che si buttano ad abbracciarmi, in uno stato d’entusiasmo, e tutti e due per poco non piangono. La sera precedente erano tornati a casa presto, avevano preso il mio manoscritto e s’erano messi a leggere, per prova: “dopo dieci pagine si vedrà”. Ma lette dieci pagine, avevano deciso di leggerne altre dieci e poi, senza interrompere, erano rimasti tutta la notte, fino alla mattina, a leggere ad alta voce, a turno quando uno era stanco. “Egli legge della morte dello studente – mi riferì poi a quattr’occhi Grigorovič – e a un tratto noto che in quel punto, dove il padre corre dietro alla bara, la sua voce si spezza una, due volte, poi egli non resiste, batte con la palma della mano sul manoscritto: ‘Che gli…!’. Questo si riferiva a voi. E così tutta la notte”. Dopo aver finito (sette fogli di stampa!) avevano deciso di venir subito da me: “Cosa importa che dorma, lo sveglieremo; questo è più importante del sonno!”. Più tardi, familiarizzandomi col carattere di Nekrasov, spesso ripensai con meraviglia a quel momento; il suo carattere è chiuso, quasi apprensivo, cauto, poco comunicativo. Così, per lo meno, egli mi è sembrato sempre, cosicché il momento di quel nostro primo incontro fu veramente la manifestazione del più profondo sentimento. Essi rimasero da me, allora, una mezz’ora circa, e in questa mezz’ora Dio sa quanto ci dicemmo, comprendendoci l’un l’altro a mezze parole, con esclamazioni, di furia: parlammo della poesia, della verità, della “situazione del momento” e, s’intende, di Gogol’, citando dal suo Ispettore generale e da Le anime morte, ma soprattutto di Belinskij. “Gli porterò oggi il vostro racconto e vedrete che uomo, che uomo! Farete conoscenza, e vedrete che anima!” diceva Nekrasov entusiasta, scuotendomi per le spalle con tutte e due le mani. “Bene, adesso dormite, dormite, noi andiamo via, ma domani venite!”. Come se io potessi dormire dopo la loro visita! Quale entusiasmo, quale successo, ma soprattutto mi era caro il sentimento, lo ricordo chiaramente: “Un altro ha successo, lo lodano, gli vanno incontro, si congratulano con lui, ma questi sono accorsi con le lacrime agli occhi, alle quattro del mattino, per svegliarmi perché ciò è superiore al sonno… Ah, che bellezza!”. Ecco quel che pensavo, altro che sonno!
Nekrasov portò il manoscritto a Belinskij quello stesso giorno. Egli era in adorazione davanti a Belinskij e lo amò sopra tutti nel corso di tutta la sua vita. Allora Nekrasov non aveva scritto ancora niente di tanto rilievo, come gli riuscì di scrivere un anno dopo. Nekrasov era capitato a Pietroburgo, a quanto so, a sedici anni, completamente solo. E scriveva anche dall’età di sedici anni. Della sua conoscenza con Belinskij so poco, ma Belinskij lo aveva scoperto fin da principio e, forse, influì fortemente sull’umore della sua poesia. Nonostante la giovinezza di Nekrasov e la differenza di età, anche tra loro certamente capitavano tali momenti, ed erano già state dette quelle parole che influiscono per sempre e legano indissolubilmente. “È apparso un nuovo Gogol’!” gridò Nekrasov entrando da Belinskij con Povera gente. “Questi Gogol’ nascono come funghi”, notò severamente Belinskij, ma prese il manoscritto. Quando Nekrasov di nuovo andò da lui la sera, Belinskij lo accolse “addirittura agitato”: “Portatelo, portatelo al più presto!”.
E così (era già il terzo giorno) mi accompagnarono da lui. Ricordo che al primo sguardo mi colpì molto il suo aspetto esteriore, il suo naso, la sua fronte: io me l’ero immaginato, chissà perché, del tutto diverso, “questo spaventevole, questo terribile critico”. Egli mi accolse con aria straordinariamente grave e riservata: “Dovrà essere così” pensai io, ma non era passato un minuto che tutto si trasformava: la gravità non era della persona, del grande critico che va incontro ad uno scrittore principiante di ventidue anni, ma per così dire derivata dal rispetto di lui per quei sentimenti che egli voleva riversare in me al più presto possibile, per le parole importanti che si accingeva a dirmi in fretta. Egli cominciò a parlare con ardore, con occhi fiammeggianti: “Ma capite voi – mi ripetette egli varie volte, con dei piccoli strilli, secondo la sua abitudine – capite voi che cos’è quello che avete scritto?”. – Egli parlava sempre strillando, quando lo agitava un forte sentimento. – Voi avete potuto scrivere questo soltanto con l’istinto immediato dell’artista, ma vi siete reso conto voi stesso della terribile verità, che ci avete mostrato? Non può essere che voi coi vostri venti anni l’abbiate capito. Questo vostro infelice impiegato ha lavorato a tal punto e si è ridotto in tali condizioni che non osa neppure, a causa della sua umiliazione, ritenersi infelice e considera quasi una manifestazione di libero pensiero il minimo lamento e non osa neppure riconoscere per sé il diritto all’infelicità e quando un uomo buono, il suo generale, gli dà quei cento rubli, egli si sente spezzato, annientato dallo stupore che la “loro eccellenza” al plurale, non “sua eccellenza” al singolare, come egli si esprime, abbia potuto avere pietà di uno come lui. E quel bottone strappato, l’istante in cui egli bacia la manina al generale; qui non c’è, no, pietà per questo infelice, ma orrore, orrore! In questa gratitudine appunto è il suo orrore! È una tragedia! Voi avete toccato la sostanza stessa della cosa, avete mostrato in un attimo solo il punto più rilevante. Noi pubblicisti e critici ragioniamo soltanto, ci sforziamo di spiegar con parole, ma voi, artista, con un tratto solo, in un solo istante, in un’immagine presentate la sostanza stessa della cosa, affinché sia possibile toccar con mano, affinché anche al lettore meno incline a riflettere tutto sia ad un tratto comprensibile! Ecco il segreto del processo artistico, ecco la verità nell’arte! Ecco il servizio che l’artista rende alla verità! A voi la verità è aperta ed annunciata perché siete un artista, vi è stata data in dono, apprezzate il vostro dono, restate ad esso fedele e sarete un grande scrittore!…”.
Tutto ciò egli mi disse allora. Tutto ciò egli disse poi su di me a molti altri, ancora vivi adesso e in grado di testimoniare. Io uscii da casa sua come ubriaco. Mi fermai all’angolo della strada, guardai il cielo, il giorno chiaro, la gente che passava e con tutto il mio essere sentii che nella mia vita era arrivato un momento solenne, un mutamento per sempre, che era cominciato qualcosa di assolutamente nuovo, ma qualcosa che io non avrei supposto allora nei miei sogni più appassionati (ed io ero allora un terribile sognatore). “Ma sarò proprio davvero così grande!” pensavo, con un senso di vergogna, tra me e me, in uno stato di timido entusiasmo. Oh, non ridete, mai dopo di allora io ho pensato di essere grande, ma allora… era mai possibile sostenere un tale elogio? “Oh, sarò degno di queste lodi, e che uomini, che uomini! Ecco dove sono gli uomini! Io le meriterò, mi sforzerò di essere così perfetto come loro, rimarrò ‘fedele’! Oh, come sono frivolo, se Belinskij soltanto sapesse quali cose brutte e vergognose sono in me! E tutti dicono che questi letterati sono superbi, pieni d’amor proprio. Del resto, uomini così ci sono soltanto in Russia, essi sono isolati, ma soltanto essi hanno la verità, ma la verità, il bene e il vero vincono e trionfano sempre sul vizio e sul male, noi vinceremo; oh, da loro, con loro!”.
Io pensai tutto ciò allora, ricordo quel momento nella più assoluta chiarezza. E mai poi ho potuto dimenticarlo. È stato il momento più incantevole della mia vita. Ai lavori forzati, ricordandolo, mi sentivo più forte d’animo. Ancora adesso lo ricordo ogni volta con entusiasmo. Ed ecco, dopo trent’anni, mi son ricordato di questo momento di nuovo, recentemente e l’ho rivissuto, sedendo al capezzale di Nekrasov malato. Io non gliel’ho ricordato nei particolari, io gli ho detto solo che avevamo vissuti questi momenti, e ho visto che se ne ricordava anche lui» [2].

Un momento «solenne», «incantevole», il «più incantevole» della vita di Dostoevskij, che segna una svolta decisiva nel personale Bildungsroman dello scrittore russo, secondo solo, per importanza, ai quattro anni di lavori forzati rievocati artisticamente nelle Memorie di una casa morta [3] – due momenti fondamentali, cruciali, straordinariamente formativi legati dal ricordo, conforto, forza e salda fonte di speranza durante la dolorosissima, inumana esperienza della katorga («Ai lavori forzati, ricordandolo, mi sentivo più forte d’animo») -. Dostoevskij si vede riconosciuto, legittimato ed esaltato come scrittore, persino al di là dei suoi «sogni più appassionati», nientemeno che dal critico letterario russo senza dubbio più noto e importante dell’epoca, il socialista Belinskij, teorico della cosiddetta “scuola naturale” e della “letteratura accusatoria”. Belinskij, che assegna alla letteratura, e in generale all’arte, il compito di coscienza sociale capace di incidere concretamente nella realtà indirizzandola verso il progresso, definisce Povera gente «il primo romanzo sociale russo» [4], e da ciò deriva il suo incontenibile entusiasmo, che lo porta a spendere parole davvero appassionate, forse persino rischiose, perché rivolte a un giovane scrittore esordiente: «A voi la verità è aperta ed annunciata perché siete un artista, vi è stata data in dono, apprezzate il vostro dono, restate ad esso fedele e sarete un grande scrittore!…». L’entusiastico giudizio sociale di Belinskij è frutto di una valutazione errata, fondamentalmente pregiudiziale, smentita nettamente già dalla seconda opera di Dostoevskij, Il sosia, che porterà a un duro scontro tra il critico e lo scrittore. Quello rievocato da Dostoevskij nelle pagine del Diario sopra riportate, rappresenta di fatto l’unico momento di accordo tra lo scrittore e Belinskij, giudicato severamente negli anni successivi da Dostoevskij, quale padre e maestro della generazione nichilista e terrorista degli anni Sessanta, secondo una differenza di prospettive, di visioni del mondo e della vita diametrale, inconciliabile: socialista e ateo Belinskij, antisocialista e fervente cristiano Dostoevskij, che dopo l’esperienza-di-vita della katorga farà della lotta al socialismo, all’ateismo, al nichilismo, all’anarchismo – aspetti esistenziali e filosofici condensati nell’emblematica, suprema figura di Ivàn Karamazov [5] – e della diffusione dell’autentico, puro messaggio di Cristo – veicolato, restando sempre nell’ambito dell’ultimo capolavoro dostoevskiano, dal fratello minore di Ivàn, Alëša [6], e dal suo mentore, lo stàrec Zòsima [7] – i fondamenti della sua intima, viscerale vocazione di scrittore civile al servizio della Russia, intravista ed esaltata già dal critico.

2. La povertà non è un vizio

Dopo la doverosa lettura delle pagine del Diario di uno scrittore dedicate al ricordo del suo sfavillante debutto letterario, passiamo ad analizzare il primo romanzo di Dostoevskij, Povera gente. L’opera appartiene al genere epistolare, diffusissimo nella letteratura europea a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo – basti pensare al Werther di Goethe e all’Ortis di Foscolo [8] – e riproduce la corrispondenza tra Varvara Alekseevna Dobroselova, giovane donna offesa da un ricco signore, Bykov, e Makar Alekseevič Devuškin, impiegato quarantasettenne suo lontano parente e protettore. La vicenda si svolge a Pietroburgo, «la città più astratta e più premeditata di tutto il globo terrestre» [9], come la definirà l’uomo del sottosuolo, ideale teatro di miserie e umiliazioni, ideale patria della povera gente, trappola che al di sotto dell’opulenta a sfarzosa superficie nasconde migliaia di drammi individuali senza speranza. Poveri sono Varvara, Makar e tutta una serie di personaggi minori che ruotano attorno a loro: lo studente Pokrovskij, primo amore della giovane protagonista, e suo padre, il funzionario Gorškov e la sua famiglia, l’anonimo bambino mendicante incontrato da Devuškin. A proposito dello studente e di suo padre, abbiamo letto nel ricordo di Dostoevskij come la scena della morte e del funerale del giovane Pokrovskij abbia colpito particolarmente Nekrasov; un motivo in più per riproporre questa pagina davvero struggente (a raccontare è Varvara, nelle sue brevi memorie inviate a Makar):

«Alla fine chiusero la bara, la inchiodarono, la misero sul carro e la portarono via. Lo accompagnai solo fine al termine della via. Il vetturino andava al trotto; il vecchio gli correva dietro e piangeva forte, e il suo pianto tremava e si interrompeva per la corsa. Il poveretto perse il cappello e non si fermò a raccoglierlo. La sua testa era fradicia di pioggia; si stava sollevando il vento, la brina gelata gli sferzava e gli pungeva il viso. Sembrava che il vecchio non sentisse il maltempo e, piangendo, correva da un lato della telega all’altro. I lembi della vecchia finanziera svolazzavano sbattuti dal vento, come ali. Da ogni tasca sporgeva un libro, in mano ne aveva uno enorme, che teneva stretto. I passanti si toglievano il cappello e si facevano il segno della croce. Alcuni si fermavano e si stupivano alla vista del povero vecchio. I libri gli cadevano di continuo dalle tasche, nel fango. Lo fermavano, gli mostravano quel che aveva perso; lui lo raccoglieva e di nuovo si lanciava all’inseguimento della bara. All’angolo della via una miserevole vecchia si unì a lui per accompagnare la bara. Alla fine la telega svoltò l’angolo e scomparve ai miei occhi» [10].

La disperata, commovente corsa del vecchio Pokrovskij dietro alla bara, trascinata da una modesta telega, del giovane figlio stroncato dalla tisi, ricorda la disperata, commovente corsa di un altro, l’ultimo padre dostoevskiano offeso dalla vita e dal vizio dell’alcol, dietro alla bara del figlio, o meglio, figlioletto in questo caso, quella di Snegirëv nei Fratelli Karamazov:

«La chiesa era abbastanza vicina, a non più di trecento passi. La giornata era luminosa, calma, piuttosto rigida. Si sentiva ancora nell’aria il suono sacro delle campane. Snegirëv correva senza fiato e smarrito dietro la bara, con il suo vecchio pastrano corto e quasi estivo, a testa scoperta e con un vecchio cappello di feltro a larghe tese fra le mani. Era preda di una inquietudine incontrollabile, ora allungava un braccio per sostenere la testa della bara, ma era solo d’impaccio ai portatori, ora correva dall’altro lato per trovarsi un posto almeno lì. Un fiore cadde sulla neve e si precipitò a raccoglierlo, come se si trattasse di una cosa estremamente preziosa» [11].

Toccanti anche le pagine dedicate al triste caso di Gorškov, che subisce un procedimento disciplinare a causa del quale sprofonda, con la sua numerosa famiglia, nella miseria più nera – «Eh, fino a che grado di annientamento la miseria è capace di ridurre un uomo!» (141), scrive Makar Devuškin a proposito di Gorškov -, e che muore subito dopo essere stato finalmente assolto, oppure quelle dedicate alla figura del bambino mendicante e ai differenti modi, toni di chiedere l’elemosina:

«Ho accennato a questo suonatore di organetto, matočka, perché oggi mi è toccato sopportare doppiamente la mia povertà. Mi ero fermato a guardare questo suonatore. Mi erano venuti in mente certi pensieri, così che, per liberarmene, mi ero fermato. Me ne stavo lì, c’erano dei vetturini, una ragazza, e un’altra ragazzina piccola, tutta quanta sudicia. Il suonatore d’organetto s’era installato davanti alle finestre di qualcuno. Notai un piccino, un ragazzetto sui dieci anni; sarebbe stato grazioso, ma aveva l’aria malata, deperita, con indosso soltanto la camiciola e poco altro, e a piedi nudi, e ascoltava la musica a bocca aperta – l’età dell’infanzia! Guardava come il tedesco faceva ballare le bambole, e intanto aveva mani e piedi intirizziti, tremava e rosicchiava un lembo della manica. Notai che aveva in mano un pezzetto di carta. Passò un signore e buttò al suonatore una monetina; la moneta andò a finire dritta in una scatola con un piccolo bordo rialzato, sulla quale era raffigurato un francese che danzava con delle signore. Al tintinnare della moneta il mio ragazzo si riscosse, si guardò timidamente attorno, con ogni evidenza pensò che gli avrei dato dei soldi. Mi si avvicinò di corsa, le manine gli tremavano, protese verso di me il pezzetto di carta e disse: una lettera! Aprii la lettera, be’, è risaputo di cosa si tratti, vi si dice: Miei benefattori, una madre di famiglia sta morendo, tre bambini sono ridotti alla fame, e allora adesso aiutateci, e quando morirò, per il fatto che adesso non avete abbandonato i miei uccellini, in quell’altro mondo io non vi dimenticherò, miei benefattori. Be’, la cosa era chiara, era una cosa della vita, ma che potevo dare loro? E così non gli ho dato niente. Ma come mi è dispiaciuto! [Makar non dà niente perché non ha niente] Un ragazzo povero, illividito dal freddo, e forse affamato, e non mentiva, no, no, non mentiva; questo lo sapevo bene. […] E cosa imparerà mai questo povero ragazzo con le sue lettere? Gli si indurirà solamente il cuore; va, corre, chiede. La gente va, non ha tempo. I loro cuori sono di pietra, le loro parole crudeli: “Via! Levati dai piedi! Sparisci!”. Ecco quello che sente da tutti, e si indurisce il cuore del bambino, e trema invano nel freddo il ragazzo poverello, spaventato, come un uccellino caduto dal piccolo nido infranto. Gli si gelano le mani e i piedi, gli manca il fiato. Guardi, e già sta tossendo; lì, a poca distanza, lo attende la malattia, come una serpe impura gli striscia nel petto, e laggiù guardi e vedi che la morte gli sta già addosso, da qualche parte in un angolo fetido, senza scampo, senza soccorso: ecco tutta la sua vita! Ecco quello che la sua vita sarà! Oh, Varen’ka, è un tormento sentire “In nome di Cristo” e passare accanto, e non dare nulla, dire “Dio ti darà”. Certi “In nome di Cristo” ancora non son nulla. (Ci sono vari “In nome di Cristo”, matočka.) Ce ne sono di prolungati, cantilenati, ormai abituali, imparati a memoria, secondo lo stile del mendicante; a questi non è tormentoso non dare, questi sono mendicanti da tempo, mendicanti di professione, è gente abituata, pensi, supererà la cosa, e sa come superarla. Ma ci sono altri “In nome di Cristo”, inusuali, rudi, tremendi, ecco, come oggi, quando ho preso la lettera dal ragazzo, ce n’era uno vicino alla staccionata, e non chiedeva a tutti, ha chiesto a me “Dammi, barin, un soldino, in nome di Cristo!” con una voce così rotta, rude, che mi ha fatto trasalire per una sorta di sentimento di paura, ma il soldino non l’ho dato, non ce l’avevo. E poi la gente ricca non ama che i poveretti si dolgano a voce alta del loro amaro destino, dicono che danno angoscia, che sono importuni! E la povertà è sempre importuna: i lamenti degli affamati disturbano il sonno!» (136-138).

Il bambino povero, svestito, infreddolito, affamato costretto dalla famiglia a girovagare per la città e chiedere l’elemosina è un bambino perduto, e non solo perché la morte gli sta a un passo, con il fiato sul collo ed è sempre pronta a gettarglisi addosso. Ogni giorno passato in strada, tra la folla distratta, affaccendata e indifferente a implorare inutilmente aiuto il suo cuore si indurisce un po’ di più ed egli diviene un caso irrecuperabile. Dostoevskij si dimostra sensibile da subito, dalla sua prima prova letteraria al delicato problema dell’infanzia rubata, annientata dalla miseria, un tema che d’ora in poi lo accompagnerà per tutta la vita, fino all’ultima caso di Il’juša nei Fratelli Karamazov, già ricordato.

Quelli citati sinora sono personaggi secondari, minori, comparse nel caso dell’anonimo bambino mendicante, di Povera gente; i protagonisti sono Varvara Alekseevna Dobroselova e Makar Alekseevič Devuškin. Tra le due, la figura più autenticamente dostoevskiana è forse quella della giovane donna, in cui è possibile ravvisare aspetti caratteristici di alcuni dei più importanti personaggi successivi, e non solo femminili, anzi, dello scrittore russo, come il sognatore delle Notti bianche [12], l’uomo del sottosuolo e persino Raskòl’nikov [13]. Aspetti come la tendenza alla percezione dolorosa, esasperata delle cose, alla solitudine, alla selvatichezza – Varvara stessa si definisce più di una volta «inselvatichita» -, all’indolenza esistenziale, al sogno, all’orgoglio, al ricordo – nell’esaltazione dell’infanzia, definita dalla donna «dorata» e opposta al presente «così torbido, così oscuro», riecheggia vagamente il testamento di Dostoevskij espresso da Alëša nel discorso presso la pietra in conclusione dei Fratelli Karamazov [14] -:

«Percepisco le cose in modo doloroso, esasperato; le mie sensazioni sono morbose» (74); «Dio mio, com’è triste vivere, Makar Alekseevič!» (88); «La conosco bene la vostra testolina, matočka, vi basta trovare un minimo appiglio e cominciate a sognare, a intristirvi per qualcosa. Per il bene che mi volete, smettetela, anima mia» (89); «Comportatevi da uomo nobile, forte nelle disgrazie; ricordate che la povertà non è un vizio» (127).

Alla fine del romanzo Varvara decide di sposare il suo offensore, il ricco Bykov, facendo sprofondare il povero Makar Devuškin nello sconforto più totale. Rispetto alla giovane Varen’ka, Devuškin è un personaggio di tutt’altro genere, tragicomico dunque ridicolo. Modesto impiegato di quarantasette anni, legato alla sua protetta da un giovanile sentimento amoroso oltre che paterno, nutre ridicole velleità letterarie, cui dà libero sfogo nelle pistole, ed è vittima di continue, quotidiane umiliazioni, che subisce come un evento naturale, inevitabile per un uomo nelle sue miserevoli condizioni, considerando «quasi una manifestazione di libero pensiero il minimo lamento», come dice giustamente Belinskij a Dostoevskij. Insignificante funzionario avvoltolato in se stesso, piccolo nel fisico, nell’esistenza e nella scrittura, che si caratterizza per l’uso spropositato, abnorme, maniacale, quasi patologico dei diminutivi, Devuškin si definisce da sé un «topo», il «tonto dei tonti», semplicemente inesistente, animato da un singolare sentimento di minorità sintesi di autocommiserazione, autoumiliazione e autopunizione. Alcune delle sue disavventure sono davvero irresistibili, come quando, annichilito dall’ansia, dall’angoscia e dalla vergogna crea il caos in casa dell’usurario Markov, dove si reca per un prestito, disposto ad accettare qualunque tasso d’interesse:

«[…] da ogni cosa se ne tira fuori un’altra affine alla tua situazione, ed è sempre così che capita. Per tre volte sono andato avanti e indietro per strada, davanti alla casa, e, più camminavo, peggio mi sentivo; no, pensavo, non li darà, non li darà per nulla al mondo! Intanto sono uno sconosciuto, e poi il mio caso è scabroso, e non faccio nemmeno una bella impressione; be’, penso, sarà come vorrà il destino; per non dovermi in seguito rammaricare, non mi mangeranno mica per un tentativo, e così piano pianino ho aperto il cancelletto. E lì c’è stata un’altra disgrazia: mi si è attaccato lo schifoso, stupido cagnaccio del portiere; fa un gran baccano, abbaia come un disperato! E sono sempre questi piccoli casi meschini che fanno infuriare l’uomo, matočka, e gli fanno piombare addosso la timidezza, e distruggono tutta la decisione che in precedenza aveva messo assieme; così sono entrato in casa più morto che vivo, sono entrato dritto verso un’altra disgrazia, non ho guardato che cosa ci fosse lì nel buio, vicino alla soglia, sono entrato e sono inciampato in una donnetta, e la donnetta stava filtrando il latte da un secchio in una brocca, e il latte s’è tutto versato fuori. S’è messa a strillare, a strepitare, stupida donnetta, e dice, tu, batjuška, cos’è che t’infili dove non devi? E ha continuato a invocare il diavolo» (121-122).

Il povero Devuškin non può fornire garanzie e così la richiesta del prestito è respinta. Dopo la fallimentare spedizione da Markov, sotto la pioggia, immerso nel fango, con gli stivali senza più suole, Makar si reca in ufficio, dove non gli viene neppure permesso di pulirsi con la spazzola, perché così sporco, così inzaccherato che l’avrebbe rovinata: «Ecco dunque cosa sono per loro adesso, matočka, per questi signori sono quasi peggio del cencio col quale si puliscono le scarpe» (124). Ma la disavventura più irresistibile di Devuškin è senza dubbio il salto del bottone al cospetto di Sua Eccellenza, una scena memorabile in cui tragico e comico, pietà e riso si fondono in un equilibrio perfetto (l’interpretazione di Belinskij riportata da Dostoevskij nel suo ricordo, vira tutta verso il primo polo, quello della tragedia, mettendo completamente, colpevolmente da parte il secondo, quello della commedia, del resto incontemplabile nella sua idea socialista di letteratura):

«All’improvviso sento un rumore, un andirivieni, un via vai; ascolto, non mi staranno ingannando le mie orecchie? Mi chiamano, esigono la mia presenza, chiamano Devuškin. Mi si è messo a tremare il cuore in petto, e io stesso non so perché mi sia spaventato; so soltanto che mi sono così spaventato come mai ancora in vita mia mi era capitato. Mi sono attaccato alla sedia e ho fatto come se nulla fosse, come se non fossi io. Ma ecco che hanno cominciato di nuovo, sempre più vicini. Ecco, proprio nel mio orecchio, dicono Devuškin! Devuškin! Dov’è Devuškin? Sollevo gli occhi, dinnanzi a me c’è Evstafij Ivanovič che dice: “Makar Alekseevič, da Sua Eccellenza, veloce! Avete fatto un guaio con quella carta!”. Soltanto questo ha detto, ma è stato sufficiente, non è forse vero, matočka? È stato sufficiente dire questa cosa. Sono rimasto tramortito, agghiacciato, ho perso i sensi, vado, eh sì, più morto che vivo, ma mi sono avviato. Mi conducono attraverso una stanza, attraverso un’altra, attraverso una terza, nello studio, e lì mi sono presentato! Non sono in grado di fornirvi un resoconto preciso di quello che pensavo in quel momento. Vedo che c’è Sua Eccellenza, e attorno a lui tutti gli altri. Pare che non mi sia inchinato, che me ne sia scordato. Sono rimasto di stucco, e le lebbra mi tremano, e mi tremano le gambe. E ce n’era ben motivo, matočka. In primo luogo c’era la vergogna; avevo gettato un’occhiata allo specchio, sulla destra, così che c’era semplicemente da uscire di senno solo per quello che vi avevo visto. E in secondo luogo avevo sempre fatto in modo che fosse come se, al mondo, io non esistessi. Di modo che Sua Eccellenza a malapena sapeva della mia esistenza. Forse aveva sentito dire così, di sfuggita, che nel suo dicastero c’era un Devuškin, ma in rapporti più stretti con lui non ero mai entrato.
Ha cominciato irato: “Ma com’è possibile, signore? Ma dove avete gli occhi? Un documento necessario, che serve con urgenza, e voi lo rovinate. Ma come avete potuto”, e a quel punto Sua Eccellenza si è rivolto a Evstafij Ivanovič. Io sento solo i suoni delle parole che mi raggiungono in volo: “Negligenza! Sconsideratezza! Vi ritroverete in un guaio!”. Volevo aprire la bocca per dire qualcosa. Volevo chiedere scusa, ma non potevo, fuggire, ma non osavo tentare, a quel punto… a quel punto, matočka, è successa una cosa tale che ancora adesso faccio fatica a tenere in mano la penna per la vergogna. Il mio bottone (che se lo pigli il demonio), il bottone che avevo appeso a un filo all’improvviso si è strappato, è rimbalzato, si è messo a saltellare (evidentemente l’avevo sfiorato senza volerlo), a tintinnare, a rotolare ed è andato a finire, maledetto, dritto ai piedi di Sua Eccellenza, e tutto ciò nel bel mezzo del silenzio generale. Ecco qual è stata tutta la mia giustificazione, tutte le scuse, tutta la risposta, tutto quello che m’apprestavo a dire a Sua Eccellenza! Le conseguenze sono state da far paura! Sua Eccellenza ha immediatamente rivolto la propria attenzione alla mia figura e al mio abbigliamento. Ho ricordato quel che avevo visto nello specchio: mi sono precipitato a raccogliere il bottone! La follia aveva avuto la meglio su di me! Mi sono piegato, volevo prendere il bottone, e quello rotola, gira su se stesso, non riesco a prenderlo, per farla breve, mi sono distinto anche in quanto all’agilità. A questo punto sento che anche le ultime forze mi stanno abbandonando, che ormai tutto, tutto è perduto! Tutta la reputazione è perduta, l’uomo tutto è andato in rovina! E a questo punto in entrambe le orecchie, di punto in bianco, presero a fischiare le voci di Teresa e Faldoni. Alla fine sono riuscito ad afferrare il bottone, mi sono sollevato, raddrizzato, e sarei dovuto restarmene lì come uno scemo, con le mani lungo i fianchi. E invece no, ho cominciato a cercare di adattare il bottone ai fili strappati, come se fosse possibile riattaccarlo, e per di più sorridevo, sì, continuavo a sorridere. Sua Eccellenza in un primo momento mi ha voltato le spalle, poi mi ha lanciato una nuova occhiata, e sento che dice a Evstafij Ivanovič: “Ma come è possibile?… guardate in che stato è!… ma come fa!… ma cosa fa!…”. Ah, mia carissima, a che punto mi ero fatto notare: “Ma come fa? Ma cosa fa?”» (144-146).

Makar Devuškin, questo modesto funzionario copista che per tutta la vita si è sforzato di restare nell’anonimato – «avevo sempre fatto in modo che fosse come se, al mondo, io non esistessi» -, è costretto, causa un grossolano errore di trascrizione, a mostrarsi a Sua Eccellenza in tutta la sua miseria. Inoltre, come se non bastasse, un bottone gli salta via e si mette a danzare davanti al generale e agli altri presenti, senza che egli riesca ad afferrarlo! È il momento più basso della vita dell’impiegato Makar Alekseevič Devuškin. Ma la disavventura si conclude felicemente: Sua Eccellenza dona al protagonista ben cento rubli e gli stringe persino la mano, infondendogli così nuovo entusiasmo: «In quel modo mi ha restituito a me stesso. Con quel gesto ha fatto risorgere il mio spirito, ha reso a me per sempre dolce la vita, e sono fermamente convinto che, per quanto sia in peccato dinnanzi all’Altissimo, la preghiera per la felicità e il benessere di Sua Eccellenza arriverà fino al Suo trono!…» (147).

Il generoso gesto di Sua Eccellenza restituisce Devuškin alla speranza, addolcendo la sua travagliata esistenza, ma non per sempre, come scrive l’impiegato enfaticamente, frettolosamente a Varvara. Perché Varvara se ne va, decide di sposare Bykov, lascia Pietroburgo, e quanto questa separazione sia dolorosa per Devuškin, praticamente una morte, emerge leggendo il passo in cui egli spiega, in poche parole, ma con straordinaria efficacia, l’importanza del legame con la sua giovane protetta: «ho saputo di non essere peggiore degli altri, e che anche se non brillo in alcun modo, non ho lustro, non ho uno stile, comunque sia sono un uomo, sono un uomo con un cuore e dei pensieri» (129). Prendersi cura di Varvara, proteggerla, amarla, vivere per lei, permette a Devuškin di scoprire la propria dignità umana, quella dignità calpestata dagli altri e dalle circostanze, per lungo tempo, di fatto, ignorata, e questo dato rivela tutta la portata drammatica del finale di Povera gente, con l’addio, vagamente autodistruttivo – la tensione autodistruttiva sarà caratteristica di molti personaggi femminili di Dostoevskij, da Polina [15] a Grùšen’ka [16], passando naturalmente per Nastas’ja Filippovna [17] -, della donna, che decide di legarsi al suo ricco offensore e fuggire con lui, abbandonando Devuškin, lasciandolo solo, completamente in balia della sua tragicomica ridicolaggine.

«Riesco abbastanza bene nello studio del “significato dell’uomo e della vita”; posso studiare i caratteri mediante la lettura degli scrittori in compagnia dei quali trascorro liberamente e gioiosamente la parte migliore della mia vita; non ti dirò più nulla su di me. Mi sento sicuro di me. L’uomo è un mistero. Un mistero che bisogna risolvere, e se trascorrerai tutta la vita cercando di risolverlo, non dire che hai perso tempo; io studio questo mistero perché voglio essere un uomo» [18], scrive Dostoevskij, appena diciassettenne, al fratello Michail in una lettera del 16 agosto 1839. Ebbene, Povera gente è il primo e già rilevante risultato di questo studio. In esso compaiono numerosi temi caratteristici della poetica dostoevskiana, riscontrabili in molte delle sue opere successive, come l’attenzione a quella vasta, vastissima, maggioritaria di fatto, porzione di umanità umiliata, offesa, vittima della miseria, ma con tutt’altri scopi, e da subito, rispetto alla “scuola naturale” e alla “letteratura accusatoria” teorizzate da Belinskij. Oppure come la disposizione esistenzialista, definiamola così, nella fattispecie individuabile soprattutto nella figura di Varvara, mentre la figura dell’altro protagonista, Makar Devuškin, mostra subito come nello scrittore russo la componente comica non sia mai del tutto autonoma, nettamente divisibile dalla componente tragica [19].

NOTE

[1] Serena Prina, Prefazione a Fëdor Dostoevskij, Povera gente, traduzione di Serena Prina, Feltrinelli, Milano 2017, p. 9.

[2] Fëdor Dostoevskij, Diario di uno scrittore, traduzione di Ettore Lo Gatto, Bompiani, Milano 2010, pp. 751-755.

[3] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Dostoevskij e l’esperienza di vita della katorga: lettura delle «Memorie di una casa morta». Introduzione, Prima parte, Seconda parte.

[4] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, pp. 56-57.

[5] Per un approfondimento sul personaggio, probabilmente il più importante dei personaggi dostoevskiani, soprattutto per il suo impatto decisivo nella letteratura europea successiva, rimando al capitolo quinto del contributo Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso, Ivàn, il nichilista estremo – I-IV, V-VI, VII-IX.

[6] Per un approfondimento su colui che si impone come il vero e proprio protagonista del romanzo rimando al capitolo ottavo del sopracitato contributo Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso, Alëša, il midollo dell’universale.

[7] Per un approfondimento sul monaco rimando al capitolo settimo del contributo Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso, Zòsima, il monaco russo.

[8] Per un approfondimento sulle due opere rimando ai contributi Ovunque fuori posto: la triste storia del giovane Werther, L’impotenza, la malattia mortale di Jacopo Ortis. Prima parte, Seconda parte.

[9] Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano 2014, p. 10. Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parte, Seconda parte.

[10] Fëdor Dostoevskij, Povera gente, cit., p. 73. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[11] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2011, p. 742.

[12] Per un approfondimento sul celebre racconto rimando all’articolo Le notti bianche, il dramma del sognatore.

[13] Per un approfondimento su Raskòl’nikov e il romanzo di cui è protagonista rimando all’articolo Delitto e castigo, dalla dialettica alla vita.

[14] «Sappiate dunque che non esiste niente di più nobile, e forte, e importante, e utile per la vostra vita futura, dei buoni ricordi, soprattutto se appartengono ai primi anni della vostra vita, alla casa dei genitori. Quante volte si parla della vostra educazione! Eppure uno di questi buoni e cari ricordi, portato nel cuore fin dall’infanzia, è forse la migliore delle educazioni. Se l’uomo può tenere con sé molti di questi ricordi e serbarli per la vita, è salvo per sempre. Ma se anche un solo buon ricordo ci accompagnasse sempre, anche quello basterebbe un giorno alla nostra salvezza. Forse, anche noi un giorno diventeremo malvagi, non saremo in grado di astenerci dalle azioni crudeli, ci befferemo del dolore degli altri, e di coloro che affermano, come Kòlja poco fa: “Voglio soffrire per tutti gli uomini”, anche di questi forse rideremo malvagiamente. E tuttavia, per quanto la nostra natura potrà diventare cattiva, e mi auguro che Dio ce ne scampi, quando ci ricorderemo come abbiamo salutato per l’ultima volta Il’juša, come l’abbiamo amato negli ultimi giorni, e come ora abbiamo parlato tutti insieme, da amici, vicino alla sua pietra, allora neppure il più spietato e il più cinico di noi, se mai dovessimo diventare tali, avrà il coraggio, nel suo animo, di prendersi gioco dei buoni sentimenti provati in questo momento! Potrebbe anche accadere che proprio questo ricordo possa distoglierlo dal fare del male; egli tornerà sulle sue decisioni, e penserà: “Sì, allora ero buono, coraggioso e integro”. Ne rida pure tra sé, non importa, spesso l’uomo deride ciò che è buono e bello: questo accade solo per superficialità; ma vi assicuro, amici miei, che appena ne avrà riso, subito si dirà dentro di sé: “No, ho fatto male, perché di questo non si può ridere!”» (Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 746).

[15] Per un approfondimento sulla figura di Polina e l’opera in cui compare rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Il giocatore» ovvero della passione.

[16] Per un approfondimento sulla figura di Grùšen’ka rimando al capitolo quarto del contributo Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso, La flessuosa Grùšen’ka.

[17] Per un approfondimento sulla figura di Nastas’ja Filippovna e l’opera in cui compare rimando al contributo L’idiota, il fallimento della bellezza.

[18] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 26.

[19] All’interno del vasto corpus dostoevskiano evidente dimostrazione di questo aspetto è il romanzo breve, o racconto lungo, L’eterno marito. Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «L’eterno marito»: due uomini del sottosuolo a duello.

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