Alberto Moravia, Gli indifferenti: l’«indegna commedia» borghese

«Penso […] quale debole sforzo basterebbe per essere sinceri, e come invece si faccia di tutto per andare nella direzione opposta».

La critica della società borghese, ipocrita e benpensante, delle sue convenzioni, dei suoi buonsensi, delle sue maschere ridicole e grottesche, si impone come uno dei temi fondamentali della grande letteratura italiana della prima metà del Novecento, da Lucini [1] a Michelstaedter [2], da Pirandello [3] a Svevo [4], fino a Moravia, che, negli Indifferenti, la opera con un puntiglio, una meticolosità, una lucida e imperturbabile spietatezza da medico legale. Moravia viviseziona una famiglia della borghesia romana, gli Ardengo, rivelandone le menzogne, le falsità, le ipocrisie, le volgari, abiette libidini, i tragicomici microdrammi da «vermucci», citando Mattia Pascal [5], che la attraversano, la sostengono e al tempo stesso la disintegrano, innanzitutto moralmente. Gli Ardengo, famiglia dell’alta borghesia romana sull’orlo del precipizio ovvero della miseria, stritolata da un libidinoso usurpatore: una madre, Mariagrazia, personificazione della ridicolaggine, due figli, un maschio e una femmina, Michele, malato d’indifferenza, l’unico indifferente a dispetto del titolo al plurale, Carla, vittima di un’insofferenza e di un’insoddisfazione croniche di fatto esistenziali, come il malessere del fratello maggiore, che la spingono tra le braccia di Leo Merumeci, l’usurpatore, pluriennale, storico amante della madre. Michele, le palpebre e l’animo recisi, sa, è consapevole dell’«indegna commedia» che si svolge quotidianamente nel suo ambiente corrotto, eppure non sa indignarsi, non sa ribellarsi. Arido, incapace di slanci di sdegno e di rivolta sinceri, finge, recita maldestramente, goffamente, con la sua «consueta inopportunità», la parte che gli spetta nella «indegna commedia», spaventosamente tiepido, al contrario di quei grandi personaggi dostoevskiani che ne hanno ispirato a Moravia la figura e la storia, tutti caldi o freddi, incapaci di cedere a compromessi. Tiepida non è Carla, animata da un desiderio di cambiamento, di liberazione che sfocia nell’autodistruzione, aspetto determinante che lega la giovane Ardengo dai grandi seni – il suo corpo, che vediamo nudo, è uno dei pochi elementi autentici all’interno del romanzo – ad alcuni dei più celebri personaggi femminili di Dostoevskij, da Polina [6] a Grušen’ka [7], passando per Nastas’ja Filippovna [8].

«Anche questa ignobile coincidenza, questa sua rivalità con la madre le piaceva; tutto doveva essere impuro, sudicio, basso, non doveva esserci né amore né simpatia, ma solamente un senso cupo di rovina: “Creare una situazione scandalosa, impossibile, piena di scene e di vergogne” pensava; “completamente rovinarmi…”» [9].

Cedere alle lusinghe vagamente incestuose di Leo, che l’ha tenuta sulle ginocchia bambina, assecondare le libidini di quest’uomo che non conosce altro oltre al piacere e agli affari è per Carla, annoiata, stanca, insoddisfatta e insofferente, un surrogato del suicidio. La giovane Ardengo si prostituisce in cambio di una nuova vita, quella nuova vita che brama con tutta se stessa ed è sinonimo di distruzione e autodistruzione (il «senso cupo di rovina»). Se in Carla compare ancora un briciolo di volontà, se in lei sopravvivono ancora desideri, in Michele è il nulla, un’indifferenza totale, cosmica, che lo paralizza e lo prosciuga. Immobile e vuoto egli riflette, sa e riflette: «Penso […] quale debole sforzo basterebbe per essere sinceri, e come invece si faccia di tutto per andare nella direzione opposta» (53). Le convenzioni sociali e gli interessi conducono da tutt’altra parte rispetto alla sincerità, questa chimera, questa utopia nell’«indegna commedia» borghese, in «direzione opposta». Così, «fra le mille maniere di fare un’azione», si sceglie «sempre istintivamente la peggiore» (54). Estraneo, escluso – De Meijer definisce i romanzi italiani, dalla fine del XIX secolo in poi, ovvero dai Malavoglia, dalla vicenda di ‘Ntoni [10], variazioni sul tema dell’esclusione, individuandone proprio negli Indifferenti di Moravia, in riferimento al personaggio di Michele, il vertice massimo [11] -, il giovane Ardengo si domanda come sia possibile che gli altri infimi attori dell’«indegna commedia» non si rendano conto di poter essere migliori di così, e come sia possibile che solamente questa sia la sua gente, solamente questo sia il suo mondo. Egli osserva «la mobilità e la continua agitazione della vita» e la propria invincibile, irriducibile inerzia gli fa spavento. Niente lo scuote dal torpore esistenziale – potremmo parlare di accidia, il petrarchesco malessere [12] -, niente e nessuno, neppure Leo, l’usurpatore – a proposito di usurpatori, pensiamo a Buck Mulligan e alla diagnosi di Stephen Dedalus formulata da un tale e da lui riportata al protagonista dell’Ulisse di Joyce, «p.g.a.» ovvero «paralisi generale degli alienati» [13], formula applicabile anche al caso esistenziale di Michele – che intende sottrarre agli Ardengo anche l’ultimo bene rimastogli, la villa: «nessuna azione di Leo, per quanto malvagia, riusciva a scuotere la sua indifferenza; dopo un falso scoppio di odio, egli finiva sempre per ritrovarsi come ora, con la testa vuota, un poco inebetito, leggerissimo» (113).

La pioggia è il fenomeno atmosferico degli Indifferenti, una pioggia incessante, che segna l’intero romanzo dall’inizio alla fine, una pioggia metafisica, come la neve bagnata nelle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij [14]. Incurante anche di questa, Michele passeggia in strada come se ci fosse il sole, come Renzo alla fine dei Promessi sposi dopo l’ultima, suprema prova del Lazzaretto e il ritrovamento di Lucia [15], ma con tutt’altro stato d’animo – al contrario della pioggia manzoniana, o della «feroce» pioggia di Rebora [16], la pioggia di Moravia non purifica, anzi, essa stessa è impura, perché non può esistere purificazione in un mondo senza Dio e svuotato d’ogni altra tensione, d’ogni altra spinta e forza morale -:

«[…] senza ombrello sotto la pioggia, Michele camminava con lentezza come se fosse stata una giornata di sole, guardando oziosamente le vetrine dei negozi, le donne, le réclames luminose sospese nell’oscurità; ma per quanti sforzi facesse non gli riusciva d’interessarsi a questo vecchio spettacolo della strada; l’angoscia che l’aveva invaso senza ragione, mentre se ne andava attraverso i saloni vuoti dell’albergo, non lo lasciava; la propria immagine, quel che veramente era e non poteva dimenticare di essere, lo perseguitava; ecco, gli pareva vedersi: solo, miserabile, indifferente» (113-114).

Solo, miserabile, indifferente – parole che risuonano terribili e implacabili come chiodi conficcati in una bara – in un «limbo pieno di fracassi assurdi, di sentimenti falsi, nel quale, figure storte e senza verità, si agitavano sua madre, Lisa, Carla, Leo, tutta la sua gente» (116). Limbo: emblematico luogo di esclusione, di sempiterna sospensione – si ricordi ciò che dice Virgilio a Dante nel canto II dell’Inferno: «Io era tra color che son sospesi» -, tiepido, né caldo né freddo. Imprigionato suo malgrado in questo mondo borghese ipocrita e artefatto, in cui tutto, ma proprio tutto, ogni singolo respiro, diviene comico e falso, Michele vagheggia e rimpiange l’età tragica, violenta, sanguinosa, feroce, ma sincera:

«”Come doveva esser bello il mondo” pensava con un rimpianto ironico, “quando un marito tradito poteva gridare a sua moglie: – Moglie scellerata, paga con la vita il fio delle tue colpe – e, quel ch’è più forte, pensar tali parole, e poi avventarsi, ammazzare moglie, amanti, parenti e tutti quanti, e restare senza punizione e senza rimorso: quando al pensiero seguiva l’azione: – ti odio – e zac! un colpo di pugnale: ecco il nemico o l’amico steso a terra in una pozza di sangue; quando non si pensava tanto, e il primo impulso era sempre quello buono; quando la vita non era come ora ridicola, ma tragica, e si moriva veramente, e si uccideva, e si odiava, e si amava sul serio, e si versavano vere lacrime per vere sciagure, e tutti gli uomini erano fatti di carne ed ossa e attaccati alla realtà come alberi alla terra.” A poco a poco l’ironia svaniva e restava il rimpianto; egli avrebbe voluto vivere in quell’età tragica e sincera, avrebbe voluto provare quei grandi odi travolgenti, innalzarsi a quei sentimenti illimitati… ma restava nel suo tempo e nella sua vita, per terra» (197).

Rabbia, violenza, sangue, ferocia, ma sincere, autentiche, e a questo passo possiamo legare le parole di Moravia quando spiega che il problema degli Indifferenti prende spunto dalla celebre, nichilistica, anarchica e distruttiva riflessione di Ivan Karamazov: se Dio non c’è tutto è permesso [17]. Per Moravia se Dio non c’è, e Dio non c’è più, ma da un pezzo ormai, è impossibile fare, è impossibile agire, è impossibile uccidere [18]. L’assenza di istanze superiori, di valori, d’iddii e miti, il vuoto insomma, generano l’inerzia, l’immobilismo, l’indifferenza e Michele è l’incarnazione di questa riflessione, costretto a vivere in un «mondo deforme, falso da allegare i denti, amaramente grottesco», dotato di consapevolezza, di «chiaroveggenza», ma privato dell’azione. E la consapevolezza fine a se stessa, in un’epoca in cui il principio stesso della vita, l’azione, è negato, conduce il disgraziato, il miserabile che ne è in possesso – Michele Ardengo nella fattispecie -, a una condizione pascaliana di morte-in-vita alla quale non può esserci rimedio se non la morte vera e propria, ultima, definitiva, sempre e comunque drammaticamente in ritardo.

Lisa, la sua grassa amante già amante di Leo – sempre Leo -, rivela a Michele la tresca tra la sorella e l’usurpatore. Anche in questo caso il giovane Ardengo non prova niente, anche l’ultima prova fallisce, neppure questo «violento stimolante» riesce «a galvanizzare il suo spirito morto». Eppure Michele decide di agire, o meglio, di fingere di agire, contrariamente al suo ideale di sincerità, «a quel refrigerio irraggiungibile delle sorgenti spontanee, limpide e continue della vita». Davanti a Lisa finge sdegno e ira, stancamente, senza riuscire a risultare convincente, quindi acquista una rivoltella e si dirige a casa di Leo. Dopo aver ucciso, nella sua testa, l’usurpatore ed essersi processato e condannato, Michele irrompe in casa dell’uomo e spara due volte, dimenticando però di caricare la pistola: il finale perfetto di un’«indegna commedia» borghese. Se Dio non c’è, e Dio non c’è più, ma da un pezzo ormai, è impossibile fare, è impossibile agire, è impossibile uccidere. L’età tragica e sincera è morta per sempre. Leo propone a Carla, ai suoi occhi spietati nient’altro che una «sgualdrinella» alla quale «aveva fatto tutto quel che aveva voluto», il matrimonio, per non rischiare di perdere la villa degli Ardengo. Michele prova a convincere la sorella a rifiutare l’uomo, incapace però di fornire argomenti convincenti: il nulla non si esprime, non si racconta, non si scrive, si vive e basta. I due fratelli lasciano l’abitazione dell’usurpatore e non sono neppure più persone, ma cose: «i sobbalzi della corsa li facevano saltare e urtarsi come due fantocci senza vita, dalle membra di legno, dagli occhi spalancati ed estatici» (281). Il fantoccio femminile – ormai il suo splendido corpo violato non ha più alcun valore – comunica al fantoccio maschile che sposerà Leo, burattinaio. Michele, dal canto suo, decide di assecondare completamente le voglie della matura e grassa amante già amante del burattinaio, futuro sposo di sua sorella. Non c’è scampo, non c’è alternativa all’«indegna commedia» borghese: è questo il senso tragico del finale del romanzo.

Insieme con l’indifferenza, l’impotenza è l’altro grande tema della prima opera di Moravia. L’impotenza dell’intellettuale che vorrebbe fare ma non può, che vorrebbe scrivere ma non può, in un’epoca vuota dominata dal vuoto, in cui la consapevolezza non è che autodistruzione. Uomo senza qualità, fuori di chiave, nauseato e straniero, l’intellettuale può solo osservare e rimuginare, non agire, una condizione acuita dal secondo conflitto mondiale e che troverà nella Casa in collina di Pavese [19] una lucida e preziosa testimonianza – Moravia stesso cita questo romanzo in relazione ai suoi Indifferenti, come pure cita La nausea di Sartre [20] e Lo straniero di Camus [21], inserendosi così da sé nella grande tradizione esistenzialista europea della prima metà del Novecento [22]. Mentre però Sartre, in conclusione della Nausea, dona a Roquentin il conforto e la speranza della scrittura, in un incomprensibile slancio di ottimismo che stride con i tempi, con l’incombenza del massacro mondiale, e Camus, in conclusione dello Straniero, dona a Meursault la vita, seppur solo per morire, Moravia, in conclusione degli Indifferenti, getta definitivamente Michele nel nulla. Gli indifferenti, romanzo del nulla, quel nulla che il giovane Ardengo porta dentro di sé e scaraventa addosso a Leo sparandogli con la pistola scarica, nella scena che dal 1929, anno di pubblicazione del romanzo, si impone come l’emblema dell’impotenza dell’intellettuale, dello scrittore, del letterato, uomo postumo, nato drammaticamente in ritardo, e oggi ancor più di ieri.

NOTE

[1] Per un approfondimento sul poeta milanese rimando all’articolo «Revolverate»: la strage – premeditata – di Gian Pietro Lucini.

[2] Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

[3] Per un approfondimento sullo scrittore siciliano rimando agli articoli Vivo morto, morto vivo… insomma, Mattia Pascal, Luigi Pirandello, «Quaderni di Serafino Gubbio operatore» ovvero della reificazione, Luigi Pirandello, «Uno, nessuno e centomila»: dall’illusione alla dissociazione e infine alla dissoluzione, Luigi Pirandello: siamo tutti in trappola.

[4] Per un approfondimento sullo scrittore triestino rimando all’articolo La coscienza di Zeno: originalità e malattia della vita.

[5] Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 36.

[6] Per un approfondimento sulla figura di Polina e sul romanzo in cui compare rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, «Il giocatore» ovvero della passione.

[7] Per un approfondimento sulla figura di Grušen’ka rimando al capitolo quarto dello studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso, La flessuosa Grùšen’ka.

[8] Per un approfondimento sulla figura di Nastas’ja Filippovna e il romanzo in cui compare rimando all’articolo L’idiota, il fallimento della bellezza.

[9] Alberto Moravia, Gli indifferenti, Bompiani, Milano 2019, p. 42. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[10] Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo Giovanni Verga, «I Malavoglia»: la violazione e l’esclusione.

[11] Pieter de Meijer, Achille Tartaro, Alberto Asor Rosa, La narrativa italiana dalle origini ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1997.

[12] Per un approfondimento sul tema rimando all’articolo Francesco Petrarca, Secretum: in guerra contro se stessi.

[13] James Joyce, Ulisse, traduzione di Giulio de Angelis, Mondadori, Milano 2013, p. 8. Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo L’Ulisse di Joyce: amor matris. Per un ulteriore approfondimento sulla figura di Stephen Dedalus rimando all’articolo Lo sviluppo artistico-intellettuale di Stephen Dedalus nel Ritratto dell’artista da giovane.

[14] Per un approfondimento sul romanzo rimando agli articoli Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parte, Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Seconda parte.

[15] Per un approfondimento sul romanzo rimando agli articoli Alessandro Manzoni, «I promessi sposi»: la ribalta degli inosservati. Prima parte, Alessandro Manzoni, «I promessi sposi»: la ribalta degli inosservati. Seconda parte, Alessandro Manzoni, «I promessi sposi»: la ribalta degli inosservati. Terza parte.

[16] Per un approfondimento sul poeta milanese rimando all’articolo I «Frammenti lirici» di Clemente Rebora: versi nati in odio alla poesia.

[17] Per un approfondimento sul celebre personaggio dostoevskiano rimando al capitolo quinto dello studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso, Ivàn, il nichilista estremo – I-IV, V-VI, VII-IX.

[18] Alberto Moravia, La giovane letteratura “indifferente”, in Id., Gli indifferenti, cit., p. 320.

[19] Per un approfondimento sul romanzo di Pavese rimando all’articolo La casa in collina, tragica testimonianza dell’impotenza dell’intellettuale.

[20] Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo Jean-Paul Sartre, La nausea: l’Assurdità chiave dell’Esistenza.

[21] Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo Albert Camus, Lo straniero: dall’insensibilità alla vita.

[22] Alberto Moravia, La giovane letteratura “indifferente”, cit., p. 322.

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