Albrecht Dürer, Autoritratto con bendaggio, 1491-1492

Quel «malarnese» di Malpelo

I. «Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo» [1]: questo superstizioso assioma popolare, posto da Verga non a caso in apertura della novella, segna il destino di esclusione, di emarginazione, di estraneità di un povero disgraziato colpevole di non essere nato moro, biondo o castano. Tutta qui la sua colpa. Un semplicissimo dato fisico, ma che all’interno del pregiudiziale e topico sistema di credenze popolari assume la validità universale e incontrovertibile del marchio divino (mi riferisco naturalmente al mito biblico di Caino e Abele). Malpelo si ritrova così a fare quotidianamente i conti con l’ostilità sociale, radicata tanto nell’ambito lavorativo quanto in quello familiare: tutti lo «schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro». Insomma, Malpelo non viene neppure considerato un uomo, ma un cane, per di più rognoso, e trattato come tale, evitato o al massimo preso a calci. Eppure Malpelo non si ribella e non si lamenta mai, consapevole del proprio destino lo accetta e vi si adegua, senza protestare, senza reagire, perché egli stesso è profondamente radicato in quel sistema popolare che lo ha condannato ed emarginato dalla nascita.

«Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro».

All’interno del pregiudiziale e topico sistema di credenze popolari nel quale è inserito, Malpelo è una sorta di parafulmine contro il caso e l’assurdità, una sorta di mito che maschera l’insensatezza della vita. Alle disgrazie che accadono di continuo nella cava gli operai sanno a chi dare la colpa e tirano avanti. Malpelo nasconde il vuoto. E anche quando non c’entra niente la responsabilità gli ricade sempre addosso, perché «Già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo». Così è e così sarà per sempre, anche dopo la sua morte.

Malpelo è avvezzo a tutto, «agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era vezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra», magari per qualche disgrazia avvenuta nella cava. Il compagno Ranocchio lo esorta a discolparsi, ma la risposta di Malpelo è sempre la stessa: «A che giova? Sono malpelo!». Anche in questa novella è dunque centrale il tema dell’impossibilità di cambiare il proprio destino, come nei Malavoglia [2]. Nessuno avrebbe potuto dire se l’atteggiamento noncurante di Malpelo «fosse effetto di fiero orgoglio e di disperata rassegnazione», «se la sua fosse selvatichezza o timidità». Egli resta un personaggio fondamentalmente inaccessibile, rivelatoci solo in parte. Di certo sappiamo che in lui e nella sua vicenda non c’è niente di eroico o di compassionevole. Tutto è duro, aspro e secco come la cava in cui lavora, al massimo vagamente diabolico, anche se Malpelo nella sua breve vita ha conosciuto qualcuno che gli ha voluto bene. O forse sarebbe meglio dire qualcuno che lo ha trattato meno duramente di tutti gli altri.

II. Tra questi vi è il padre, mastro Misciu Bestia, «l’asino da basto di tutta la cava». E infatti nella cava ci resta secco, fa «la morte del sorcio», travolto, schiacciato dalla rena nel cunicolo. Dopo il ritrovamento del cadavere Malpelo eredita gli abiti e gli arnesi del padre, e dal rapporto del protagonista con gli oggetti paterni, i calzoni riadattati per lui e le scarpe, ancora troppo grandi per essere indossate, emerge il legame affettivo che legava padre e figlio, quasi sorprendente in tanta aridità sentimentale:

«Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, e già pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a guardarle coi gomiti sui ginocchi, e mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio».

La figura di mastro Misciu Bestia rivela, seppur per cenni rapidi, e dunque consente di conoscere, la dimensione emotiva di Malpelo, quella di Ranocchio invece la dimensione morale. Perché il protagonista ha elaborato nel tempo un vero e proprio sistema morale, per quanto grezzo e scarno, una sua personale Weltanschauung, modellata sulla propria esperienza esistenziale d’escluso ed emarginato, di condannato alla nascita per decreto del caso, che espone a Ranocchio nel corso dei loro numerosi colloqui.

«L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi»; «Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi, così gli altri ti terranno da conto, e ne avrei tanti di meno addosso».

Una morale spietata, che mette in luce il lato oscuro, quello più feroce e crudele, della «lotta per l’esistenza», e in definitiva dell’esistenza stessa. E quasi non si accontentasse di filosofeggiare astrattamente, quasi fosse consapevole della debolezza di un approccio speculativo esclusivamente teorico, Malpelo conduce Ranocchio a visitare la carcassa dell’asino grigio gettata in fondo al burrone, dotando così la sua morale di una consistenza empirica:

«Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisognava avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l’avidità curiosa di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. – Vedi quella cagna nera, – gli diceva – che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al grigio? Adesso non soffre più. – L’asino grigio se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate per mettergli in corpo un po’ di vigore nel salire la ripida viuzza. – Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: – Non più! non più! – Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio».

L’immagine grottesca e macabra della bocca «spolpata e tutta denti» dell’asino sventrato atteggiata al riso, è l‘immagine della novella. E da questo passo emergono due aspetti fondamentali della morale di Malpelo: la morte è l’unica liberazione dalle quotidiane, distruttive, assurde fatiche, nell’impossibilità di mutare il proprio destino; il non essere è meglio che l’essere, e viene in mente uno dei memorabili detti del leopardiano Filippo Ottonieri: «Dimandato a che nascano gli uomini rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non esser nato» [3]. Perché l’ultima battuta di Malpelo non si riferisce solo alla sorte dell’asino, ma è estendibile agli uomini e alla vita intera. Quell’insensatezza che gli altri occultano ricorrendo a consolidati pregiudizi e luoghi comuni, come il colore dei capelli, facendo di poveri disgraziati come Malpelo dei capri espiatori, il protagonista la guarda dritta in faccia e la fronteggia, nessuno può dire se con «fiero orgoglio» o «disperata rassegnazione». Il suo stesso ruolo, appiccicatogli addosso come un’etichetta sin dalla nascita, glielo impone: nessun atto eroico.

Dal nichilistico sistema morale di Malpelo il rassicurante sfogo trascendentale è escluso, abolito, cancellato, e dal modo in cui ne parla a Ranocchio è evidente quanto abbia inciso, ancora una volta, la personale esperienza esistenziale, con la memoria che torna al padre – altro dato empirico a sostegno della sua tesi -:

«Ranocchio […] provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. – Chi te l’ha detto? – domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma.
Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. – Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella.
E dopo averci pensato su un po’:
– Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che gli dicevano Bestia. Invece è la sotto, ed hanno persino trovato i ferri e le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io».

Costretto alla solitudine, escluso ed emarginato, Malpelo riflette, costruendo un proprio sistema morale – non è il decerebrato Ciàula di Pirandello -. Un sistema in cui, della «lotta per l’esistenza», viene rivelata tutta la violenza cieca e, fondamentalmente, l’insensatezza, l’assurdità, con la morte unica liberazione, perché, almeno in queste condizioni – immutabili -, il non essere è meglio che l’essere.

III. Anche Ranocchio muore, come mastro Misciu Bestia, come l’asino grigio, e la solitudine di Malpelo diviene, di fatto, totale, anche perché la madre si è risposata ed è andata vita.

«D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla».

Solitudine totale e totale indifferenza, o rassegnazione – chi può dirlo? -, con la fine di Malpelo che assume i tratti del suicidio – un suicidio indiretto, diciamo così, come quello del fumatore, che, pur sapendo degli effetti letali della sigaretta, non vi rinuncia – e insieme della condanna a morte – come suggerisce l’ultimo interrogativo della novella -, una circostanza ambigua, duplice che ricorda la vicenda conclusiva di Cristo [4]:

«Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che ci si arrischiasse il sangue suo, per tutto l’oro del mondo.
Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui».

La morte consegna Malpelo non solo alla libertà e alla pace del nulla, ma anche – ironicamente – all’eternità. Non quell’eternità trascendentale da lui stesso rifiutata, negata, abolita, ma un’eternità leggendaria, con il disprezzo che lascia spazio al timore. Il timore di vederselo comparire davanti, con quei suoi «capelli rossi» e quei suoi «occhiacci grigi».

NOTE

[1] Le citazioni sono tratte da Giovanni Verga, I grandi romanzi e tutte le novelle, Newton Compton editori, Roma 1992.

[2] Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo Giovanni Verga, «I Malavoglia»: la violazione e l’esclusione.

[3] Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 559.

[4] Evidenziando questa presunta somiglianza tra le due morti, non intendo affatto legare la figura di Malpelo a quella di Cristo, almeno non al Cristo Figlio di Dio.

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