Eugène Delacroix, studio per «La Libertà che guida il popolo», 1830

«Libertà»: l’antipopulismo di Giovanni Verga

«Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente».

Sebbene al centro di molte sue celebri opere come Rosso Malpelo, I Malavoglia, La roba e Mastro-don Gesualdo [1], collochi quella enorme e informe porzione d’umanità misera, diseredata, sottoposta, affamata, battuta, schiacciata, sfruttata, impegnata in una strenua, massacrante, quotidiana «lotta pei bisogni materiali» [2], come si legge nella prefazione ai Malavoglia in cui si annuncia l’incompiuto ciclo dei «vinti», definibile popolo, Giovanni Verga non è affatto uno scrittore populista. Un aspetto che lo distingue dalla maggioranza dei suoi contemporanei colleghi italiani, e che Asor Rosa ha sottolineato in pagine davvero innovative all’epoca e tuttora importanti, a più di cinquant’anni di distanza.

«Che cosa caratterizza fondamentalmente il populismo? La convinzione, sia pure espressa attraverso gradazioni diverse, che il popolo contiene in sé valori positivi, da contrapporre di volta in volta alla corruttela della società, alle ingiustizie del destino e degli uomini, alla violenza bruta della disuguaglianza [3]. Niente di tutto questo in Verga. In Verga la rappresentazione popolare è solo un momento di un quadro più vasto, di cui essa non rappresenta un fattore particolarmente significativo. Dietro ai proletari dei Malavoglia e di tante delle novelle siciliane del Verga, c’è una visione di carattere più metafisico che storico, un atteggiamento morale più ontologico che terreno, un’indignazione e un pessimismo più universali che umani. Verga non assegna al popolo un posto “privilegiato” nella grande vicenda del dolore. Quel che affascina lo scrittore non è la sofferenza dei ceti subalterni, considerati come aventi leggi e manifestazioni proprie, bensì la ciclica inesorabile riconferma di una legge comune a tutti i ceti, a tutti gli uomini, a tutte le creature viventi: dal miserabile asino della novella Rosso Malpelo, ai pescatori dei Malavoglia, all’aspirante borghese Mastro-don Gesualdo, fino ai personaggi immaginati ma non compiuti degli ultimi romanzi del “ciclo dei vinti”. Il rifiuto del giudizio diretto sulla materia rappresentata e il criterio stilistico-strutturale dell’impersonalità – canoni fondamentali della scuola naturalistica – sono da Verga applicati con stupenda facilità, proprio perché egli non ha un punto di vista ideologico progressivo da difendere. La sua ideologia, se è possibile esprimersi così, è la sua poetica. E quando lo scrittore esce da questa sua condizione di marmoreo e impassibile testimone, è solo per giudicare erroneo, anzi, folle e disperato, ogni tentativo di sottrarsi con la violenza, l’organizzazione, il programma politico, ad una condizione di inferiorità e di dolore, che il destino ci ha assegnato. La ribellione popolare si muove in Verga tra i due poli della violenza cieca e animalesca, di cui i contadini danno prova nella novella Libertà, e del facile tradimento di classe del protagonista del dramma Dal tuo al mio. Non c’è via di mezzo fra questi due estremi: ossia, non c’è speranza concreta di miglioramento, perché la “lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione” non comporta deviazioni dalla sua linea di ferreo e tremendo egoismo.
Il paradosso, solo apparente a guardar bene, dell’arte verghiana sta in questo: che proprio il rifiuto della speranza populista e delle suggestioni socialiste porta lo scrittore siciliano alla rappresentazione più convincente, che del mondo popolare sia stata data in Italia durante tutto l’Ottocento. Non è dunque opera del caso la grandezza di Verga poeta dei Malavoglia. Se volessimo scegliere la strada di un giudizio immaginoso, diremmo che il borghese di Verga rifiuta la tazza del consòlo, che la borghesia è sempre così pronta ad apprestarsi quando s’avvicina al così detto problema sociale: alla protesta e alla speranza, categorie molto dubbie sul piano ideologico e letterario, perché presuppongono fatalmente una posizione subalterna in chi le esprime, egli preferisce la conoscenza e la consapevolezza. Il rifiuto di un’ideologia progressista costituisce la fonte, non il limite, della riuscita verghiana» [4].

Se volessimo individuare un testo in particolare in cui l’antipopulismo verghiano si manifesta in modo evidente, lampante, inequivocabile, sceglieremmo senza dubbio la novella citata proprio da Asor Rosa, Libertà, raccolta nelle Rusticane e ispirata ai sanguinosi fatti di Bronte dell’agosto 1860, alla feroce ribellione popolare che portò al massacro di possidenti e borghesi e soffocata dall’intervento di Nino Bixio. Si legga la prima, più lunga sequenza della novella, in cui Verga, creando pagine di rara, difficilmente eguagliabile spietatezza, descrive la rivolta, frutto di una lettura distorta, minorata del proclama di Marsala:

«Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: “Viva la libertà!”.
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
— A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! — Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. — A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! — A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! — A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! — A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!
E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! — Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!
Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. — Perché? perché mi ammazzate? — Anche tu! al diavolo! — Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. — Abbasso i cappelli! Viva la libertà! — Te’! tu pure! — Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. — Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! — La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e rimpieva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. — Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse — lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia — don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. — Paolo! Paolo! — Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello.
Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: — Neddu! Neddu! — Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. — Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; — strappava il cuore! — Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni — e tremava come una foglia — Un altro gridò: — Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!
Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! — Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l’ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. — Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta! — Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! — Te’! Te’! — Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!
La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. — Viva la libertà! — E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. — I campieri dopo! — Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata — e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: — Mamà! mamà! — Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perchè non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.
E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte» [5].

La rivolta nasce da un sincero impeto di libertà, da un profondo desiderio di mutamento e di miglioramento del popolo, ma sfocia ben presto in una violenza cieca e immotivata, insensata, che alla fine non porta a nulla: «I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre». La caustica, spietata ironia verghiana suggella il massacro [6].

Il pessimistico argomento verghiano dell’impossibilità di mutare il proprio destino, di migliorare il proprio stato, centrale in Rosso Malpelo, dove il protagonista, consapevole di ciò, accetta la propria sorte senza ribellarsi mai, e nei Malavoglia, dove invece padron ‘Ntoni azzarda, violando l’ingessato sistema-villaggio e pagandone le dolorose conseguenze – in primis la morte del figlio Bastianazzo -, e suo nipote ‘Ntoni con lui, ma più radicalmente, riscrivendo sì il proprio destino, ma all’insegna dell’esclusione e dell’esilio, in Libertà raggiunge forse il suo esito massimo, estremo, investendo con la prepotenza di un’inondazione la storia e il mito risorgimentale. Ricordo ancora le parole di Asor Rosa: «non c’è speranza concreta di miglioramento, perché la “lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione” non comporta deviazioni dalla sua linea di ferreo e tremendo egoismo».

In Libertà si assiste a una sorta di estremizzazione di quanto già sostenuto da Manzoni nei Promessi sposi, a proposito dei tumulti milanesi di san Martino, fondamentalmente inutili e per di più deleteri, tra le principali cause della carestia, la prima delle tre piaghe bibliche che segnano la terza e ultima parte dell’opera: «due erano stati, alla fin de’ conti, i frutti principali della sommossa: guasto e perdita effettiva di viveri, nella sommossa medesima; consumo, fin che durò la tariffa, largo, spensierato, senza misura, a spese di quel poco grano che pur doveva bastare fino alla nuova raccolta. A questi effetti generali s’aggiunga quattro disgraziati, impiccati come capi del tumulto: due davanti al forno delle grucce, due in cima della strada dov’era la casa del vicario di provvisione» [7]. Ma in Manzoni resiste ancora la fede, la fiducia inossidabile in quella morale cattolica che gli permette di fare infine, pur nella complessiva considerazione negativa della storia, della rocambolesca vicenda di Renzo e Lucia un edificante exemplum. In Verga invece non c’è più neanche la consolazione o illusione di Dio: il cielo verghiano è vuoto e le grida delle vittime trucidate dalla folla inferocita vi riecheggiano senza ottenere risposta.

L’opera di Verga è completamente a-morale, al di là o meglio al di sopra del bene e del male, e sebbene il suo antipopulismo derivi in parte anche dalla sua ideologia conservatrice di scrittore, politico e uomo “di destra”, in definitiva è da ricondurre a una concezione della vita negativa, di evidente ispirazione leopardiana, pessimistica e non di rado nichilistica, come nel caso di Malpelo e del suo sistema morale in cui il non essere finisce per imporsi sull’essere, o come nei casi di Mazzarò e mastro-don Gesualdo, le cui vertiginose parabole di riscatto sociale vengono di colpo svuotate di senso dalla morte, termine ultimo d’ogni umana esistenza – fortunatamente, verrebbe da dire.

NOTE

[1] Per un approfondimento su questi testi rimando agli articoli Quel «malarnese» di Malpelo, Giovanni Verga, «I Malavoglia»: la violazione e l’esclusione, Giovanni Verga, «La roba»: l’insensatezza dell’accumulo, Giovanni Verga, «Mastro-don Gesualdo»: ascesa e rovina del self-made man.

[2] Giovanni Verga, I Malavoglia, Mondadori, Milano 1968, p. 51.

[3] Convinzione propria, nell’ambito della grande letteratura occidentale del XIX secolo, di Dostoevskij, che del popolo russo fa l’ultimo baluardo del puro e autentico messaggio cristiano, collocandolo dunque al vertice della propria attività letteraria e filosofica. Per un approfondimento rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.

[4] Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma 1966, pp. 59-61.

[5] Le citazioni del racconto sono tratte da Giovanni Verga, I grandi romanzi e tutte le novelle, Newton Compton editori, Roma 1992.

[6] Causticamente, spietatamente ironiche sono anche le conclusioni di Rosso Malpelo, con la leggendaria immortalità del protagonista, e soprattutto dei Malavoglia, con ‘Ntoni che sottolinea come sia il tanto bistrattato ubriacone Rocco Spatu, inutile e improduttivo perdigiorno, a iniziare per primo la sua giornata.

[7] Alessandro Manzoni, I promessi sposi, Casa Editrice Principato, Milano 1997, p. 403. Per un approfondimento sull’opera rimando agli articoli Alessandro Manzoni, «I promessi sposi»: la ribalta degli inosservati. Prima parte, Seconda parte, Terza parte.

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