Giovanni Verga, autoritratto

Giovanni Verga, «I Malavoglia»: la violazione e l’esclusione

I. Verga definisce preliminarmente l’argomento dei Malavoglia, in apertura della prefazione al romanzo, anteponendolo, come una sorta di esergo, all’annuncio di quell’incompiuto ciclo dei «vinti» che non andrà oltre la seconda opera in programma, Mastro-don Gesualdo [1]:

«Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio» [2].

La consapevolezza che si potrebbe stare meglio, il tentativo di migliorare la propria condizione, che in questo primo romanzo si presenta ancora allo stato originario, primordiale di «lotta pei bisogni materiali», come scrive Verga qualche riga più avanti nella prefazione, spinge l’onesto patriarca padron ‘Ntoni a compiere un azzardo: fare dei Malavoglia – in realtà Toscano, ma il nome popolare, definiamolo così, potrebbe proprio dimostrare come la «bramosìa» sia caratteristica atavica di questa famiglia – dei commercianti oltre che dei pescatori, attraverso il celebre negozio dei lupini. Un azzardo giudicato con severità dai paesani – e da alcuni membri stessi della famiglia, vedi la Longa, che dentro di sé lo percepisce come una sorta di sacrilegio -, restii ad ammettere mutamenti sociali e storici chiusi come sono nel sistema-villaggio, cristallizzato e impermeabile, di Trezza, in cui si muore ciò che si nasce e tutto va come sempre è andato, come deve andare.

«Al giorno d’oggi […] nessuno è contento del suo stato e vuol pigliare il cielo a pugni».

Questa battuta lapidaria di padron Cipolla compendia il giudizio dell’intero villaggio sull’azzardo di padron ‘Ntoni e coglie il momento storico, caratterizzato dalle «prime irrequietudini pel benessere», svolgendo così la stessa funzione di un’altrettanto lapidaria battuta del marchese Limòli nel Mastro-don Gesualdo: «il mondo adesso è di chi ha denari…» [3]. Entrambe le battute colgono e fissano il cambiamento in atto all’insegna del «progresso», racchiudendo il senso storico ultimo e più profondo delle due opere.

L’azzardo di padron ‘Ntoni rappresenta una vera e propria violazione del sistema ingessato di Trezza e finisce – verrebbe da dire inevitabilmente – in tragedia: la Provvidenza naufraga, aggredita e abbattuta dal mare in tempesta, e padron ‘Ntoni perde, oltre al carico dei lupini, il figlio Bastianazzo, perdita gravissima e non solo affettivamente, ma anche economicamente, per la disposizione di questo mansueto colosso al lavoro, per la sua sottomissione silenziosa alla quotidiana, bestiale fatica dei Malavoglia. Nelle precarie condizioni economiche in cui versa la famiglia di pescatori, impegnata in una giornaliera ed estenuante «lotta per l’esistenza», per la sopravvivenza, che negli anni l’ha ridotta a pochi componenti, quando un tempo i Malavoglia erano «numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza» – ci informa l’incipit del romanzo -, dover fare a meno di due braccia maschili, per di più vigorose e ubbidienti come quelle di Bastianazzo, non è affatto cosa da poco.

Il naufragio della Provvidenza è l’archetipo di tutte le altre catastrofi che colpiscono i Malavoglia, una dietro l’altra, il peccato originale che segna l’inesorabile disfacimento della famiglia. La casa del nespolo gli viene sottratta, Luca muore in battaglia, la Provvidenza viene rimessa in mare ma naufraga di nuovo – perché padron ‘Ntoni spinge la barca al largo, sempre più al largo, andandosi a cercare i «guai col candeliere» in quel «giuoco da disperati» che mette a repentaglio la vita dell’equipaggio «per qualche rotolo di pesce» -, il colera impedisce il commercio delle acciughe e stronca la Longa. Non solo l’archetipico azzardo non ha prodotto il miglioramento sperato, ma ha sprofondato i Malavoglia sempre più nella miseria, portando inoltre la famiglia all’emarginazione, all’esclusione sociale all’interno del severo e statico sistema-villaggio, che non perdona colui che prende il cielo a pugni, soprattutto se dal cielo viene – inevitabilmente – sconfitto.

II. De Meijer nota che la storia romanzesca ha la sua origine sempre nel contrasto tra la realtà del mondo e l’ambizione dell’individuo, e definisce la storia del romanzo italiano come una storia di variazioni sul tema dell’esclusione [4], dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo a La luna e i falò di Pavese, passando per I promessi sposi di Manzoni, I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo di Verga, Il fu Mattia Pascal, Quaderni di Serafino Gubbio operatore e Uno, nessuno e centomila di Pirandello, La coscienza di Zeno di Svevo, Gli indifferenti di Moravia [5]. Nell’opera di Verga di cui ci stiamo occupando, il tema dell’esclusione, in seguito all’archetipico azzardo di padron ‘Ntoni, riguarda in generale l’intera famiglia, ma in particolare un suo componente più di tutti gli altri: ‘Ntoni. Lo scontro generazionale con il nonno è tra gli argomenti principali, più brucianti e attuali dei Malavoglia, alimentato dall’ossessivo desiderio del nipote di emanciparsi dalla condizione bestiale in cui versa la famiglia. A causa della leva – la cui imposizione è vissuta dal villaggio come una vera e propria piaga, perché priva di vigorose e giovani braccia da lavoro – ‘Ntoni ha conosciuto le lusinghe della metropoli, i suoi agi, i suoi ozi, la sua mondana leggerezza – aspetti vani, illusori, ma il giovane «è fatto come i merluzzi, che abboccherebbero un chiodo arrugginito» -, che gli si imprimono dentro come un marchio. Egli si ribella, apertamente, impetuosamente al proprio destino, faticoso e sempre comunque misero, da «povero diavolo», e a padron ‘Ntoni, alla sua saggezza popolare fatta di motti e proverbi – «perché il motto degli antichi mai mentì» -, alla sua etica del pugno chiuso [6] – «padron ‘Ntoni […] soleva dire, mostrando il pugno chiuso, un pugno che sembrava fatto di legno di noce: – Per menare il remo bisogna che le cinque dita s’aiutino l’un l’altro» -. Tra i due avvengono numerosi confronti, in cui emerge tutta l’incolmabile distanza che li separa.

«[…] egli era stanco di rompersi l’anima per niente, perché quando non si ha nulla è inutile arrabattarsi da mattina a sera, e non trovare un cane che vi voglia, per questo egli ne aveva le tasche piene di quella vita; preferiva piuttosto di non far niente davvero, e starsene in letto a fare il malato, come quando era seccato dal servizio militare, e il nonno poi non stava a cercare il pelo nell’uovo come il dottore della fregata. – Che hai? – gli domandava.
– Nulla ho. Ho che sono un povero diavolo.
– E che vuoi farci se sei un povero diavolo? Bisogna vivere come siamo nati».

Una certezza, quest’ultima, rafforzata in padron ‘Ntoni dal tragico fallimento del negozio dei lupini. Ma ‘Ntoni è incapace di rassegnarsi al proprio destino, è stanco della sua «vitaccia», tale e quale a quella d’una bestia da soma; vorrebbe diventare ricco e smetterla di lavorare, smetterla di lottare ogni sacrosanto giorno per quella misera esistenza che gli è toccata in sorte suo malgrado.

«Ma d’allora in poi non pensava ad altro che a quella vita senza pensieri e senza fatica che facevano gli altri; e la sera, per non sentire quelle chiacchiere senza sugo, si metteva nell’uscio colle spalle al muro, a guardare la gente che passava, e digerirsi la sua mala sorte; almeno così si riposava pel giorno dopo, che si tornava da capo a far la stessa cosa, al pari dell’asino di compare Mosca, il quale come vedeva prendere il basto, gonfiava la schiena, aspettando che lo bardassero! – Carne d’asino! – borbottava; – ecco cosa siamo! – Carne da lavoro! – E si vedeva chiaro che era stanco di quella vitaccia, e voleva andarsene a far fortuna, come gli altri; tanto che sua madre, poveretta, l’accarezzava sulle spalle, e l’accarezzava pure col tono della voce, e cogli occhi pieni di lagrime, guardandolo fiso per leggergli dentro e toccargli il cuore. Ma ei diceva di no, che sarebbe stato meglio per lui e per loro; e quando tornava poi sarebbero stati tutti allegri. La povera donna non chiudeva occhio in tutta la notte, e inzuppava di lagrime il guanciale. Infine il nonno se ne accorse, e chiamò il nipote fuori dell’uscio, accanto alla cappelletta, per domandargli cosa avesse.
– Orsù, che c’è di nuovo? dillo a tuo nonno, dillo!
‘Ntoni si stringeva nelle spalle; ma il vecchio seguitava ad accennare di sì col capo, e sputava, e si grattava il capo cercando le parole.
– Sì, sì, qualcosa ce l’hai in testa, ragazzo mio! Qualcosa che non c’era prima. “Chi va con zoppi, all’anno zoppica.”
– C’è che sono un povero diavolo! ecco cosa c’è!
– Bè! che novità! e non lo sapevi? Sei quel che è stato tuo padre, e quel ch’è stato tuo nonno! “Più ricco è in terra chi meno desidera.” “Meglio contentarsi che lamentarsi.”
– Bella consolazione!
Questa volta il vecchio trovò subito le parole, perché si sentiva il cuore sulle labbra:
– Almeno non lo dire davanti a tua madre.
– Mia madre… Era meglio che non mi avesse partorito, mia madre!
– Sì, – accennava padron ‘Ntoni, – sì, meglio che non t’avesse partorito, se oggi dovevi parlare in tal modo.
‘Ntoni per un po’ non seppe che dire: – Ebbene! – esclamò poi, – lo faccio per lei, per voi, e per tutti. Voglio farla ricca, mia madre! ecco cosa voglio. Adesso ci arrabattiamo colla casa e colla dote di Mena; poi crescerà Lia, e un po’ che le annate andranno scarse staremo sempre nella stessa miseria. Non voglio più farla questa vita. Voglio cambiare stato, io e tutti voi. Voglio che siamo ricchi, la mamma, voi, Mena, Alessi e tutti.
Padron ‘Ntoni spalancò tanto d’occhi, e andava ruminando quelle parole, come per poterle mandar giù. – Ricchi! – diceva, – ricchi! e che faremo quando saremo ricchi?
‘Ntoni si grattò il capo, e si mise a cercar anche lui cosa avrebbe fatto. – Faremo quel che fanno gli altri… Non faremo nulla, non faremo!… Andremo a stare in città, a non far nulla, e a mangiare pasta e carne tutti i giorni.
– Va, va a starci tu in città. Per me io voglio morire dove son nato; – e pensando alla casa dove era nato, e che non era più sua si lasciò cadere la testa sul petto. – Tu sei un ragazzo, e non lo sai!… non lo sai!… Vedrai cos’è quando non potrai più dormire nel tuo letto; e il sole non entrerà più dalla tua finestra!… Lo vedrai! te lo dico io che son vecchio! – Il poveraccio tossiva che pareva soffocasse, col dorso curvo, e dimenava tristemente il capo: – “Ad ogni uccello, suo nido è bello.” Vedi quelle passere? le vedi? Hanno fatto il nido sempre colà, e torneranno a farcelo, e non vogliono andarsene.
– Io non sono una passera. Io non sono una bestia come loro! – rispondeva ‘Ntoni. – Io non voglio vivere come un cane alla catena, come l’asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo, sempre a girare la ruota; io non voglio morir di fame in un cantuccio, o finire in bocca ai pescicani.
– Ringrazia Dio piuttosto, che t’ha fatto nascer qui; e guardati dall’andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono. “Chi cambia la vecchia per la nuova, peggio trova.” Tu hai paura del lavoro, hai paura della povertà; ed io che non ho più né le tue braccia né la tua salute non ho paura, vedi! “Il buon pilota si prova alle burrasche.” Tu hai paura di dover guadagnare il pane che mangi; ecco cos’hai! Quando la buon’anima di tuo nonno mi lasciò la Provvidenza e cinque bocche da sfamare, io era più giovane di te, e non avevo paura; ed ho fatto il mio dovere senza brontolare; e lo faccio ancora; e prego Iddio di aiutarmi a farlo sempre sinché ci avrò gli occhi aperti, come l’ha fatto tuo padre, e tuo fratello Luca, benedetto! che non ha avuto paura di andare a fare il suo dovere. Tua madre l’ha fatto anche lei il suo dovere, povera femminuccia, nascosta fra quelle quattro mura; e tu non sai quante lagrime ha pianto, e quante ne piange ora che vuoi andartene; che la mattina tua sorella trova il lenzuolo tutto fradicio! E nondimeno sta zitta e non dice di queste cose che ti vengono in mente; e ha lavorato e si è aiutata come una povera formica anche lei; non ha fatto altro, tutta la sua vita, prima che le toccasse di piangere tanto, fin da quando ti dava la poppa, e quando non sapevi ancora abbottonarti le brache, che allora non ti era venuta in mente la tentazione di muovere le gambe, e andartene pel mondo come uno zingaro.
In conclusione ‘Ntoni si mise a piangere come un bambino, perché in fondo quel ragazzo il cuore ce l’aveva buono come il pane; ma il giorno dopo tornò da capo. La mattina si lasciava caricare svogliatamente degli arnesi, e se ne andava al mare brontolando: – Tale e quale l’asino di compare Alfio! come fa giorno allunga il collo per vedere che vengono a mettermi il basto».

‘Ntoni vuole spezzare il ciclo continuo delle quotidiane fatiche che riducono l’uomo a «carne d’asino». Egli rivendica la propria dignità di uomo, non bestia da soma – «Io non sono una bestia come loro! […] Io non voglio vivere come un cane alla catena, come l’asino di compare Alfio» -, giungendo persino a maledire la propria nascita – «Era meglio che non mi avesse partorito, mia madre!» – un aspetto che, sommato al desiderio di mutare stato, di arricchirsi e di trasferirsi in città «a non far nulla», «a mangiare pasta e carne tutti i giorni», avvicina ‘Ntoni a un altro grande insoddisfatto della letteratura ottocentesca, Smerdjàkov, il servo che, nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, maledice la propria nascita – «Grigòrij Vasìl’evič mi rimprovera di rivoltarmi contro la mia nascita: “Tu”, dice, “le straziasti le viscere”. E sia, ma io mi sarei lasciato ammazzare mentre ero ancora nel suo ventre, pur di non venire al mondo» [7] – e uccide e deruba Fëdor Pàvlovič, suo signore e forse persino padre, per poter iniziare una nuova vita in Francia. Ma una differenza tra i due personaggi c’è ed è sostanziale, mentre infatti ‘Ntoni in fondo «il cuore ce l’aveva buono come il pane», Smerdjàkov si impone come la vera e propria anima nera dei Fratelli Karamazov. ‘Ntoni vuole diventare ricco e lasciare Trezza, trasferirsi nella metropoli e sguazzare nell’abbondanza. Ma nella domanda, affatto ingenua, del nonno, che gli domanda cosa faranno quando saranno ricchi, la fatica, la quotidiana «lotta per l’esistenza» si collocano al di sopra di tutto, come unico scopo e unico senso della vita dei Malavoglia. Scopo e senso che ‘Ntoni vorrebbe sovvertire, ma già in questo colloquio è predetto, dal nonno, il suo destino di ribelle sconfitto, di escluso, di esiliato, di ramingo: «Tu sei un ragazzo, e non lo sai!… non lo sai!… Vedrai cos’è quando non potrai più dormire nel tuo letto; e il sole non entrerà più dalla tua finestra!… Lo vedrai!». Un monito che ‘Ntoni, nella sua smania febbrile, ossessiva d’evasione, lascia cadere nel nulla. Il nonno deve arrendersi, deve lasciarlo andare, e così ‘Ntoni parte per Trieste, in cerca di fortuna. Quando torna a Trezza, altro che ricco!, non ha neppure le scarpe e, si sa, quando «uno non riesce ad acchiappare la fortuna è un minchione». E ricomincia la stessa storia:

«Nulla voleva fare, lui! Che gliene importava della barca e della casa? Poi veniva un’altra malannata, un altro colèra, un altro guaio e si mangiava la casa e la barca, e si tornava di nuovo a fare come le formiche».

‘Ntoni ha la disgrazia di essere consapevole dell’insensatezza del lavoro, della fatica, della vita. Della sua vita. Della vita dei Malavoglia. Quindi subisce il fascino della rivoluzione e si fa predicatore:

«Eh! bella giustizia che certuno abbiano a rompersi la schiena contro i sassi, e degli altri stiano colla pancia al sole, a fumar la pipa, mentre gli uomini dovrebbero essere tutti fratelli, l’ha detto Gesù, il più gran rivoluzionario che ci sia stato, e i suoi preti al giorno d’oggi fanno i birri e le spie!».

Ma dura poco e ‘Ntoni inizia la sua rovinosa caduta in basso, a precipizio nel sottosuolo paesano, facendosi ubriacone, inutile e degradato fannullone che spreca i suoi giorni all’osteria, come e con il famigerato Rocco Spatu. E i confronti con il nonno si inaspriscono.

«- Che non ti vergogni di far questa vita? – gli disse alfine il nonno, il quale era venuto apposta a cercarlo colla testa bassa e tutto curvo; e piangeva come un fanciullo nel dir così, tirandolo per la manica dietro la stalla della Santuzza, perché nessuno li vedesse. – E alla tua casa non ci pensi? e ai tuoi fratelli non ci pensi? Oh, se fossero qui tuo padre e la Longa! ‘Ntoni! ‘Ntoni!…
– Ma voi altri ve la passate forse meglio di me a lavorare, e ad affannarvi per nulla? È la nostra mala sorte infame! ecco cos’è! Vedete come siete ridotto, che sembrate un arco di violino, e sino a vecchio avete fatto sempre la stessa vita! Ora che ne avete? Voi altri non conoscete il mondo, e siete come i gattini cogli occhi chiusi. E il pesce che pescate ve lo mangiate voi? Sapete per chi lavorate, dal lunedì al sabato, e vi siete ridotto a quel modo che non vi vorrebbero neanche all’ospedale? per quelli che non fanno nulla e che hanno denari a palate, lavorate!
– Ma tu non ne hai denari, né io ne ho! Non ne abbiamo avuti mai, e ci siamo guadagnato il pane come vuol Dio; è per questo che bisogna darsi le mani attorno, a guadagnarli, se no si muore di fame.
– Come vuole il diavolo, volete dire! Che è tutta opera di Satanasso la nostra disgrazia! Ora sapete quel che vi aspetta, quando non potrete più darvele attorno le mani, perché i reumatismi le avranno ridotte come una radica di vite? Vi aspetta il vallone sotto il ponte per andare a creparvi.
– No! no! – esclamò il vecchio tutto giulivo, e gettandogli al collo le braccia rattratte come radiche di vite. – I denari per la casa ci son già, e se tu ci aiuti…
– Ah! la casa del nespolo! Credete che sia il più bel palazzo del mondo, voi che non avete visto altro?
– Lo so che non è il più bel palazzo del mondo. Ma non dovresti dirlo tu che ci sei nato, tanto più che tua madre non ci è morta.
– Nemmeno mio padre non ci è morto. Il nostro mestiere è di lasciare la pelle laggiù, in bocca ai pescicani Almeno, finché non ce la lascio, voglio godermi quel po’ di bene che posso trovare, giacché è inutile logorarmi la pelle per niente! E poi? quando avrete la casa? e quando avrete la barca? E poi? e la dote di Mena? e la dote di Lia?… Ah! sangue di Giuda ladro! che malasorte è la nostra!».

Non è finita qui. ‘Ntoni si dà al contrabbando, ferisce quasi mortalmente don Michele con una coltellata e viene condannato a cinque anni di carcere. L’esito del suo incontenibile desiderio di libertà e di emancipazione, di ricchezza e di ozio, è la totale privazione della libertà. Certo, dietro le sbarre non deve fare nulla e il suo sogno, almeno in parte – ironicamente – si è realizzato. Intanto padron ‘Ntoni muore e Alessi riesce a riscattare la casa del nespolo e mette su famiglia: i Malavoglia esistono ed esisteranno ancora. Ma la conclusione del romanzo è tutta incentrata su ‘Ntoni, che torna a Trezza dopo aver scontato la pena. Un ‘Ntoni diverso, finalmente consapevole, ma in ritardo. Il suo destino è lontano da quel piccolo lembo di costa di cui troppo tardi ha compreso il valore.

«Anch’io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo andarmene».

‘Ntoni confessa di aver sbagliato tutto. Ora sa, ma non è possibile tornare indietro, e neppure fermarsi. Egli deve andarsene, perché non c’è scampo al suo destino di esclusione e d’erranza. I Malavoglia si concludono con l’ultimo, lungo sguardo d’addio di ‘Ntoni a Trezza, e con questa sua ultima battuta:

«Ora è tempo d’andarsene, perché fra poco comincerà a passar gente. Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu».

Una battuta di un’ironia corrosiva e bruciante, amaro suggello di un romanzo in cui il pessimismo domina incontrastato. I Malavoglia mostrano come migliorare la propria condizione, mutare il proprio stato sia di fatto impossibile, come ogni sforzo per sottrarsi al proprio destino sia vano. Sia padron ‘Ntoni, con l’archetipico azzardo del negozio dei lupini, che suo nipote, con la sua ardente smania di emancipazione, falliscono, inevitabilmente. Verga riconosce l’inesorabilità del progresso, ma nei suoi confronti non nutre la benché minima fiducia. Tutti gli uomini sono «vinti», e anche «i vincitori d’oggi […] saranno sorpassati domani», come scrive nella prefazione dell’opera. E il pessimismo verghiano si aggraverà nel tempo, fino a sprofondare nel nulla e nella completa insensatezza – nel nichilismo, insomma – in Mastro-don Gesualdo, con il protagonista capace di mutare stato, grazie alla sua «testa fine» e al suo furore faustiano, fino a imporsi come l’uomo più ricco del paese, ma destinato, proprio per questo motivo, a una sconfitta ancor più cocente e umiliante.

III. La concezione negativa della storia e, più in generale, della vita caratteristica di Verga, di evidente derivazione leopardiana [8], nell’ambito narrativo italiano del secolo successivo conoscerà sviluppi estremi, esiti apocalittici con Pirandello e con Svevo, nelle profezie di fine del mondo di Serafino Gubbio nei suoi Quaderni [9] e di Zeno Cosini nel celebre finale della sua Coscienza [10]: l’apocalisse come inevitabile termine ultimo del famigerato, sedicente “progresso”. Perché, come scrive Carlo Michelstaedter ne La persuasione e la rettorica, «Tutti i progressi della civiltà sono regressi dell’individuo» [11]. Leopardi, Verga, Pirandello, Svevo e Michelstaedter lo avevano già capito, mentre noi oggi sembriamo averlo colpevolmente dimenticato, sprofondati nella «tirannia delle cose e delle abitudini» [12], schiavi del superfluo, supremo idolo al quale immoliamo ogni sacrosanto giorno un pezzo della nostra coscienza senza neppure domandarci se il gioco valga la candela – normale, spaventosamente normale in un’epoca in cui l’inconsistenza del contingente ha soppiantato il «midollo dell’universale» [13].

NOTE

[1] Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo Giovanni Verga, «Mastro-don Gesualdo»: ascesa e rovina del self-made man.

[2] Le citazioni sono tratte da Giovanni Verga, I Malavoglia, Mondadori, Milano 1968.

[3] Giovanni Verga, Mastro-don Gesualdo, Newton Compton editori, Roma 2015, p. 72.

[4] Pieter de Meijer, Achille Tartaro, Alberto Asor Rosa, La narrativa italiana dalle origini ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1997.

[5] Per un approfondimento su alcuni dei romanzi citati rimando agli articoli L’impotenza, la malattia mortale di Jacopo Ortis. Prima parte, Seconda parte, Cesare Pavese – La luna e i falò (della Gaminella e di Santa), Alessandro Manzoni, «I promessi sposi»: la ribalta degli inosservati. Prima parte, Seconda parte, Terza parte, Vivo morto, morto vivo… insomma, Mattia Pascal, La coscienza di Zeno: originalità e malattia della vita.

[6] Alberto Asor Rosa, I Malavoglia, in Letteratura italiana. Le opere, vol. III, Dall’Ottocento al Novecento, Einaudi, Torino 1995.

[7] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 236. Per un approfondimento sul personaggio rimando al capitolo sesto dello studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso: Smerdjàkov, l’anima nera del romanzo.

[8] Per un approfondimento sul pensiero leopardiano rimando agli articoli Giacomo Leopardi, il nulla, Giacomo Leopardi, «Canto notturno» ovvero l’inconveniente di essere nati, Sulle operette morali.

[9] «Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si danno; ne ascolto i discorsi, i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere alla realtà di quanto vedo e sento, che non potendo d’altra parte credere che tutti facciano per ischerzo, mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si complica e s’accelera, non abbia ridotto l’umanità in tale stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin de’ conti, tanto di guadagnato. Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo» (Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Mondadori, Milano 1974, p. 4).

[10] «Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quasi innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie» (Italo Svevo, La coscienza di Zeno, in Id., Romanzi, Mondadori, Milano 1992, p. 1117).

[11] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 1982, p. 156. Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

[12] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 322.

[13] Ivi, p. 21.

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