Monumento a Giuseppe Parini, Milano

Breve itinerario pariniano

«e la splendida turba e il vano fasto
lieto deride».

I. L’esordio letterario di Giuseppe Parini, con la raccolta di versi Alcune poesie di Ripano Eupilino (1752), avviene sotto il segno dell’Arcadia, dunque all’insegna del culto dei modelli classici e di una concezione tradizionale della letteratura. Il tono muta nelle sette odi scritte dalla seconda metà degli anni Cinquanta a fine anni Sessanta, cui vanno sommate le prime due parti del Giorno, il Mattino e Mezzogiorno. Questi componimenti si contraddistinguono per l’interesse rivolto all’attualità e lo spiccato impegno civile, che avvicinano Parini al movimento illuminista. Ne è un esempio emblematico l’ode La salubrità dell’aria, letta dall’autore all’Accademia dei Trasformati nel 1759 nel corso di una seduta pubblica che aveva come tema «l’aria». E il componimento pone infatti la delicata e attualissima questione dell’igiene e della salute pubblica. Leggiamo.

Oh beato terreno
Del vago Eupili mio,
Ecco al fin nel tuo seno
M’accogli; e del natìo
Aere mi circondi;
E il petto avido inondi.

Già nel polmon capace
Urta sè stesso e scende
Quest’etere vivace,
Che gli egri spirti accende,
E le forze rintegra,
E l’animo rallegra.

Però ch’austro scortese
Quì suoi vapor non mena:
E guarda il bel paese
Alta di monti schiena,
Cui sormontar non vale
Borea con rigid’ ale.

Nè quì giaccion paludi,
Che dall’impuro letto
Mandino a i capi ignudi
Nuvol di morbi infetto:
E il meriggio a’ bei colli
Asciuga i dorsi molli.

Pera colui che primo
A le triste ozïose
Acque e al fetido limo
La mia cittade espose;
E per lucro ebbe a vile
La salute civile.

Certo colui del fiume
Di Stige ora s’impaccia
Tra l’orribil bitume,
Onde alzando la faccia
Bestemmia il fango e l’acque,
Che radunar gli piacque.

Mira dipinti in viso
Di mortali pallori
Entro al mal nato riso
I languenti cultori;
E trema o cittadino,
Che a te il soffri vicino.

Io de’ miei colli ameni
Nel bel clima innocente
Passerò i dì sereni
Tra la beata gente,
Che di fatiche onusta
È vegeta e robusta.

Quì con la mente sgombra,
Di pure linfe asterso,
Sotto ad una fresc’ ombra
Celebrerò col verso
I villan vispi e sciolti
Sparsi per li ricolti;

E i membri non mai stanchi
Dietro al crescente pane;
E i baldanzosi fianchi
De le ardite villane;
E il bel volto giocondo
Fra il bruno e il rubicondo,

Dicendo: Oh fortunate
Genti, che in dolci tempre
Quest’aura respirate
Rotta e purgata sempre
Da venti fuggitivi
E da limpidi rivi.

Ben larga ancor natura
Fu a la città superba
Di cielo e d’aria pura:
Ma chi i bei doni or serba
Fra il lusso e l’avarizia
E la stolta pigrizia?

Ahi non bastò che intorno
Putridi stagni avesse;
Anzi a turbarne il giorno
Sotto a le mura stesse
Trasse gli scelerati
Rivi a marcir su i prati

E la comun salute
Sagrificossi al pasto
D’ambizïose mute,
Che poi con crudo fasto
Calchin per l’ampie strade
Il popolo che cade.

A voi il timo e il croco
E la menta selvaggia
L’aere per ogni loco
De’ varj atomi irraggia,
Che con soavi e cari
Sensi pungon le nari.

Ma al piè de’ gran palagi
Là il fimo alto fermenta;
E di sali malvagi
Ammorba l’aria lenta,
Che a stagnar si rimase
Tra le sublimi case.

Quivi i lari plebei
Da le spregiate crete
D’umor fracidi e rei
Versan fonti indiscrete;
Onde il vapor s’aggira;
E col fiato s’inspira.

Spenti animai, ridotti
Per le frequenti vie,
De gli aliti corrotti
Empion l’estivo die:
Spettacolo deforme
Del cittadin su l’orme!

Nè a pena cadde il sole
Che vaganti latrine
Con spalancate gole
Lustran ogni confine
De la città, che desta
Beve l’aura molesta.

Gridan le leggi è vero;
E Temi bieco guata:
Ma sol di sè pensiero
Ha l’inerzia privata.
Stolto! E mirar non vuoi
Ne’ comun danni i tuoi?

Ma dove ahi corro e vago
Lontano da le belle
Colline e dal bel lago
E dalle villanelle,
A cui sì vivo e schietto
Aere ondeggiar fa il petto?

Va per negletta via
Ognor l’util cercando
La calda fantasìa,
Che sol felice è quando
L’utile unir può al vanto
Di lusinghevol canto [1].

L’opposizione tra campagna, il polo positivo, e città, il polo negativo, costituisce il fulcro attorno al quale ruota l’intero componimento. Una campagna concreta, osservata con l’occhio scientifico proprio dell’illuminista e ormai lontana dalla frivolezza, dalla leziosità e dall’astrattezza proprie della poesia arcadica, caratterizzata da un’aria benefica e opposta alla città, dominata al contrario da fetidi e mortali miasmi, dalle acque stagnanti delle risaie, estese fino alle porte delle città da speculatori avidi, assetati di denaro e incuranti degli effetti dannosi sui cittadini e i lavoratori. Da qui l’altra fondamentale opposizione tra grano, il «crescente pane», e il «mal nato riso», in cui si rivela la vicinanza di Parini ai cosiddetti fisiocratici (da phýsis, natura, e krátos, potere), che individuavano nell’agricoltura la sola fonte di ricchezza della collettività, degradando industria e commercio a mere attività di scambio. Fonte di ricchezza ma anche di salute, fisica e morale, in quanto costringe a un contatto diretto e continuato con la benevola natura. Non mancano tuttavia nell’ode pariniana elementi bucolici convenzionali, e non potrebbe essere altrimenti per un poeta dalla formazione classica, virgiliana e soprattutto oraziana, con l’idealizzazione sostanziale della vita contadina, di cui si esclude la componente forse principale dell’epoca: la drammatica miseria.

Le due ultime strofe costituiscono di fatto una vera e propria dichiarazione di poetica. Parini rifiuta l’idea di poesia come mero esercizio formale; in piena sintonia con l’impegno interventista e riformatore contemporaneo persegue l’«utile» («ognor l’util cercando»), ma sempre unito al «lusinghevol canto», fedele al classico principio oraziano che prevede la fusione tra efficacia e diletto. In tal senso, significativo il modo in cui Parini, pur affrontando e inserendo nel proprio componimento materie prosaiche – emblematici i crudi particolari relativi all’ambiente cittadino: letame, carogne, acque putride -, non rinuncia al linguaggio aulico e prezioso, che in un certo senso legittima poeticamente aspetti per definizione impoetici. Pur nello slancio polemico e riformatore, il poeta resta fedele alle forme classicistiche tradizionali, distinguendosi così dagli altri illuministi dell’area lombarda riuniti attorno al «Caffè».

II. Tra le altre odi “illuministiche” di Parini ricordo L’impostura (1760-1764), L’educazione (1764), L’innesto del vaiuolo (1765), Il bisogno (1766) e La musica (1769). A questo intenso impegno civile, ardimentoso e polemico, si collega il poema in endecasillabi sciolti Il Giorno, originariamente articolato in tre parti: Mattino, Mezzogiorno e Sera (quest’ultima parte si sdoppierà successivamente nel Vespro e nella Notte). Al centro del Giorno vi è la rappresentazione satirica, velenosamente satirica della nobiltà del tempo. Vestendo i panni del precettore, il poeta vuole insegnare al giovane signore come colmare i vari momenti della sua giornata, sconfiggendo così quella noia che si impone come suprema nemica del mondo aristocratico. Nel Giorno predomina dunque, sulla componente narrativa, quella descrittiva, con l’esposizione di una giornata tipo del giovane nobile (un’esistenza in un giorno, potremmo sintetizzare così il senso del poema pariniano).

Nel Mattino, pubblicato per la prima volta nel 1763, dunque in pieno fervore civile e illuministico di Parini, vediamo il giovane signore coricarsi all’alba, al termine di una notte trascorsa a teatro e ai tavoli da gioco. Quindi viene descritto il suo risveglio a tarda mattinata, la colazione e la toeletta. Ma leggiamo i primi 157 versi del poema, ovviamente nella versione presentata dalla prima edizione, che sarà poi ammorbidita, diciamo così, dalle successive, cospicue correzioni operate dal poeta, ormai distante dal clima battagliero che caratterizza la produzione di questo periodo.

Giovin Signore, o a te scenda per lungo
Di magnanimi lombi ordine il sangue
Purissimo celeste, o in te del sangue
Emendino il difetto i compri onori
E le adunate in terra o in mar ricchezze
Dal genitor frugale in pochi lustri,
Me Precettor d’amabil Rito ascolta.
Come ingannar questi nojosi e lenti
Giorni di vita, cui sì lungo tedio
E fastidio insoffribile accompagna
Or io t’insegnerò. Quali al Mattino,
Quai dopo il Mezzodì, quali la Sera
Esser debban tue cure apprenderai,
Se in mezzo agli ozj tuoi ozio ti resta
Pur di tender gli orecchi a’ versi miei.
Già l’are a Vener sacre e al giocatore
Mercurio ne le Gallie e in Albione
Devotamente hai visitate, e porti
Pur anco i segni del tuo zelo impressi:
Ora è tempo di posa. In vano Marte
A sè t’invita; che ben folle è quegli
Che a rischio de la vita onor si merca,
E tu naturalmente il sangue aborri.
Nè i mesti de la Dea Pallade studj
Ti son meno odiosi: avverso ad essi
Ti feron troppo i queruli ricinti
Ove l’arti migliori, e le scienze
Cangiate in mostri, e in vane orride larve,
Fan le capaci volte echeggiar sempre
Di giovanili strida. Or primamente
Odi quali il Mattino a te soavi
Cure debba guidar con facil mano.
Sorge il Mattino in compagnìa dell’Alba
Innanzi al Sol che di poi grande appare
Su l’estremo orizzonte a render lieti
Gli animali e le piante e i campi e l’onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
Letto cui la fedel sposa, e i minori
Suoi figlioletti intepidìr la notte;
Poi sul collo recando i sacri arnesi
Che prima ritrovàr Cerere, e Pale,
Va col bue lento innanzi al campo, e scuote
Lungo il picciol sentier da’ curvi rami
Il rugiadoso umor che, quasi gemma,
I nascenti del Sol raggi rifrange.
Allora sorge il Fabbro, e la sonante
Officina riapre, e all’opre torna
L’altro dì non perfette, o se di chiave
Ardua e ferrati ingegni all’inquieto
Ricco l’arche assecura, o se d’argento
E d’oro incider vuol giojelli e vasi
Per ornamento a nuove spose o a mense.
Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
Qual istrice pungente, irti i capegli
Al suon di mie parole? Ah non è questo,
Signore, il tuo mattin. Tu col cadente
Sol non sedesti a parca mensa, e al lume
Dell’incerto crepuscolo non gisti
Jeri a corcarti in male agiate piume,
Come dannato è a far l’umile vulgo.
A voi celeste prole, a voi concilio
Di Semidei terreni altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
Per novo calle a me convien guidarvi.
Tu tra le veglie, e le canore scene,
E il patetico gioco oltre più assai
Producesti la notte; e stanco alfine
In aureo cocchio, col fragor di calde
Precipitose rote, e il calpestìo
Di volanti corsier, lunge agitasti
Il queto aere notturno, e le tenèbre
Con fiaccole superbe intorno apristi,
Siccome allor che il Siculo terreno
Dall’uno all’altro mar rimbombar feo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
Le tede de le Furie anguicrinite.
Così tornasti a la magion; ma quivi
A novi studj ti attendea la mensa
Cui ricoprien pruriginosi cibi
E licor lieti di Francesi colli,
O d’Ispani, o di Toschi, o l’Ongarese
Bottiglia a cui di verde edera Bacco
Concedette corona; e disse: siedi
De le mense reina. Alfine il Sonno
Ti sprimacciò le morbide coltrici
Di propria mano, ove, te accolto, il fido
Servo calò le seriche cortine:
E a te soavemente i lumi chiuse
Il gallo che li suole aprire altrui.
Dritto è perciò, che a te gli stanchi sensi
Non sciolga da’ papaveri tenaci
Mòrfeo prima, che già grande il giorno
Tenti di penetrar fra gli spiragli
De le dorate imposte, e la parete
Pingano a stento in alcun lato i raggi
Del Sol ch’eccelso a te pende sul capo.
Or qui principio le leggiadre cure
Denno aver del tuo giorno; e quinci io debbo
Sciorre il mio legno, e co’ precetti miei
Te ad alte imprese ammaestrar cantando.
Già i valetti gentili udìr lo squillo
Del vicino metal cui da lontano
Scosse tua man col propagato moto;
E accorser pronti a spalancar gli opposti
Schermi a la luce, e rigidi osservàro,
Che con tua pena non osasse Febo
Entrar diretto a saettarti i lumi.
Ergiti or tu alcun poco, e sì ti appoggia
Alli origlieri i quai lenti gradando
All’omero ti fan molle sostegno.
Poi coll’indice destro, lieve lieve
Sopra gli occhi scorrendo, indi dilegua
Quel che riman de la Cimmeria nebbia;
E de’ labbri formando un picciol arco,
Dolce a vedersi, tacito sbadiglia.
O, se te in sì gentile atto mirasse
Il duro Capitan qualor tra l’armi,
Sgangherando le labbra, innalza un grido
Lacerator di ben costrutti orecchi,
Onde a le squadre varj moti impone;
Se te mirasse allor, certo vergogna
Avria di sè più che Minerva il giorno
Che, di flauto sonando, al fonte scorse
Il turpe aspetto de le guance enfiate.
Ma già il ben pettinato entrar di novo
Tuo damigello i’ veggo; egli a te chiede
Quale oggi più de le bevande usate
Sorbir ti piaccia in preziosa tazza:
Indiche merci son tazze e bevande;
Scegli qual più desii. S’oggi ti giova
Porger dolci allo stomaco fomenti,
Sì che con legge il natural calore
V’arda temprato, e al digerir ti vaglia,
Scegli ‘l brun cioccolatte, onde tributo
Ti dà il Guatimalese e il Caribbèo
C’ha di barbare penne avvolto il crine:
Ma se nojosa ipocondrìa t’opprime,
O troppo intorno a le vezzose membra
Adipe cresce, de’ tuoi labbri onora
La nettarea bevanda ove abbronzato
Fuma, ed arde il legume a te d’Aleppo
Giunto, e da Moca che di mille navi
Popolata mai sempre insuperbisce.
Certo fu d’uopo, che dal prisco seggio
Uscisse un Regno, e con ardite vele
Fra straniere procelle e novi mostri
E teme e rischi ed inumane fami
Superasse i confin, per lunga etade
Inviolati ancora: e ben fu dritto
Se Cortes, e Pizzarro umano sangue
Non istimàr quel ch’oltre l’Oceàno
Scorrea le umane membra, onde tonando
E fulminando, alfin spietatamente
Balzaron giù da’ loro aviti troni
Re Messicani e generosi Incassi,
Poichè nuove così venner delizie,
O gemma degli eroi, al tuo palato [2].

Il «Precettor d’amabil Rito», come si presenta il poeta, presenta subito la condizione in cui versa il destinatario delle sue attenzioni, il giovane signore. Una condizione di immobilismo, improduttività e dunque inutilità sociale: l’abbiente giovanotto rifiuta l’esercizio delle armi, celando la sua viltà dietro generose e magnanime ragioni pacifiste e umanitarie, e l’impegno intellettuale, mascherando la sua svogliatezza attraverso il terribile ricordo della crudele severità degli studi condotti nei primi anni. Ora, sin da questi primi versi, è evidente la carica ironica del poema di Parini, che, attraverso il ricorso sistematico, scientifico alla pratica antifrastica, si scaglia con veemenza contro l’aristocrazia e la sua vanità, la sua inutilità sociale. Inutilità che risalta ancor di più attraverso il confronto con lavoratori quali il contadino e l’artigiano, portatori di valori positivi come l’integrità morale e la laboriosità produttiva. Parini svuota così di senso quel privilegio nobiliare opponendogli il valore dell’individuo che, attraverso il lavoro utile, e necessario, alla società, si impone quale supremo esempio di rettitudine.

L’ironia pariniana agisce tramite l’esaltazione iperbolica del nobile e del suo mondo, messi entrambi in ridicolo e attaccati con particolare violenza nella conclusione del brano proposto, dove lo sterminio dei conquistadores nel Nuovo Mondo viene giustificato nel nome delle pregiate e prelibate bevande messe a disposizione del giovane signore per la sua colazione: «Certo fu d’uopo, che dal prisco seggio / Uscisse un Regno, e con ardite vele / Fra straniere procelle e novi mostri / E teme e rischi ed inumane fami / Superasse i confin, per lunga etade / Inviolati ancora: e ben fu dritto / Se Cortes, e Pizzarro umano sangue / Non istimàr quel ch’oltre l’Oceàno / Scorrea le umane membra, onde tonando / E fulminando, alfin spietatamente / Balzaron giù da’ loro aviti troni / Re Messicani e generosi Incassi, / Poichè nuove così venner delizie, / O gemma degli eroi, al tuo palato».

Dopo la colazione e la lunga e accurata toeletta il giovane signore è finalmente pronto per uscire e andare a trovare la sua dama. Parini riproduce il diffusissimo fenomeno aristocratico del cicisbeismo, che dava alla donna sposata il diritto di avere un “cavalier servente” che la affiancasse in luogo del marito, a sua volta impegnato con un’altra donna. Ciò che in teoria doveva essere un semplice servizio reso alla donna, si trasformava spesso in adulterio, di fatto legittimato. È un tema che compare nel Mezzogiorno, pubblicato nel 1765, dove il signore viene seguito in visita alla dama, poi durante il pranzo. Anche qui l’ironia pariniana raggiunge punte di acredine davvero straordinarie, come quando si racconta dell’episodio che vede protagonista la cagnolina della dama, «vergine cuccia de le Grazie alunna», e il misero servo che ha osato sferrarle un calcio, giocandosi così il posto di lavoro.

Qual anima è volgar la sua pietade
All’Uom riserbi; e facile ribrezzo
Dèstino in lui del suo simìle i danni,
I bisogni, e le piaghe. Il cor di lui
Sdegna comune affetto; e i dolci moti
A più lontano limite sospinge.
«Pera colui che prima osò la mano
Armata alzar su l’innocente agnella,
E sul placido bue: nè il truculento
Cor gli piegàro i teneri belati
Nè i pietosi mugiti nè le molli
Lingue lambenti tortuosamente
La man che il loro fato, ahimè, stringea».
Tal ei parla, o Signore; e sorge intanto
Al suo pietoso favellar dagli occhi
De la tua Dama dolce lagrimetta
Pari a le stille tremule, brillanti
Che a la nova stagion gemendo vanno
Dai palmiti di Bacco entro commossi
Al tiepido spirar de le prim’aure
Fecondatrici. Or le sovviene il giorno,
Ahi fero giorno! allor che la sua bella
Vergine cuccia de le Grazie alunna,
Giovenilmente vezzeggiando, il piede
Villan del servo con l’eburneo dente
Segnò di lieve nota: ed egli audace
Con sacrilego piè lanciolla: e quella
Tre volte rotolò; tre volte scosse
Gli scompigliati peli, e da le molli
Nari soffiò la polvere rodente.
Indi i gemiti alzando: aita aita
Parea dicesse; e da le aurate volte
A lei l’impietosita Eco rispose:
E dagl’infimi chiostri i mesti servi
Asceser tutti; e da le somme stanze
Le damigelle pallide tremanti
Precipitàro. Accorse ognuno; il volto
Fu spruzzato d’essenze a la tua Dama;
Ella rinvenne alfin: l’ira, il dolore
L’agitavano ancor; fulminei sguardi
Gettò sul servo, e con languida voce
Chiamò tre volte la sua cuccia: e questa
Al sen le corse; in suo tenor vendetta
Chieder sembrolle: e tu vendetta avesti
Vergine cuccia de le grazie alunna.
L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo
Udì la sua condanna. A lui non valse
Merito quadrilustre; a lui non valse
Zelo d’arcani uficj: in van per lui
Fu pregato e promesso; ei nudo andonne
Dell’assisa spogliato ond’era un giorno
Venerabile al vulgo. In van novello
Signor sperò; chè le pietose dame
Inorridìro, e del misfatto atroce
Odiàr l’autore. Il misero si giacque
Con la squallida prole, e con la nuda
Consorte a lato su la via spargendo
Al passeggiere inutile lamento:
E tu vergine cuccia, idol placato
Da le vittime umane, isti superba [3].

Il passo è carico di uno snobismo nauseante, sin dall’inizio, dove si dichiara che solo l’anima volgare può riservare la sua pietà per l’uomo. Un episodio così insignificante, così sciocco dal punto di vista della dama, viene presentato come una vera e propria tragedia – «Ahi fero giorno!» -, che al solo ricordo suscita ancora angoscia e spavento. E la stessa cagnolina viene sovraccaricata di tratti mitologici e sovrannaturali, tanto bella da sembrare allevata dalle Grazie. Il colpo rifilato dal servo alla bestia assume così la gravità di un sacrilegio, e terribile è la reazione della dama: il licenziamento immediato. La «vergine cuccia» ha avuto la sua vendetta. Con un sapiente utilizzo dell’ironia, Parini anche qui non solo ridicolizza l’aristocrazia, ma ne rivela anche il carattere dannoso, attraverso il trattamento riservato al sacrilego servo, a cui non vale «merito quadrilustre» per salvargli il posto. Quello aristocratico è sostanzialmente un mondo al rovescio, in cui persino le bestie vengono elevate al rango di idoli, mentre gli uomini che a questa cerchia non appartengono, non valendo nulla, vengono a questi stessi idoli sacrificati. Animato da un sincero umanitarismo, Parini dà libero sfogo al proprio sdegno sociale.

Il Mezzogiorno si conclude infine con la passeggiata del giovane signore e della sua dama nel corso, luogo di ritrovo dell’intera nobiltà cittadina. Anche nel Giorno, come abbiamo avuto modo di vedere da questi due brani, nonostante l’impeto fortemente critico e polemico che anima l’intero poema, domina il linguaggio aulico, che però questa volta contribuisce, e non poco, a esaltare l’impianto ironico, la ridicolizzazione della classe nobiliare, oramai ridotta a vero e proprio morbo sociale, e che Parini, quale riformista moderato, più che annientare, come farà la Rivoluzione francese di lì a poco, vuole risvegliare da questo torpore dannoso e ricondurre ai fasti di un tempo.

III. A partire dagli anni Settanta la poesia di Parini muta completamente tono, come dimostrano le odi galanti Il pericolo (1787), Il dono (1790), Il messaggio (1793), o l’ode Alla Musa (1795), composta per il marchese Febo d’Adda in occasione dell’imminente paternità, o ancora le due ultime parti, rimaste incompiute, del Giorno, il Vespro e la Notte, o infine le correzioni apportate alle due prima parti del poema pubblicate negli anni Sessanta. Parini si allontana dalle delicate tematiche civili e sociali, la sua tensione morale si smorza ed egli si rivolge ad argomenti più universali, dunque più astratti, ravvoltolandosi di fatto in se stesso, isolandosi (è quanto emerge ad esempio da una lettera di Giuseppe Nicchi al conte Corniani: «Parini è l’uomo di pochi amici: persuaso di vivere tra malvagi si tiene sulle difese e pochi uomini gli si accostano» [4]). Anche a livello formale avviene un cambiamento: Parini si avvicina al Neoclassicismo, diffuso soprattutto grazie alle teoria di Winckelmann, che il poeta assorbe direttamente, insegnando all’Accademia di Belle Arti di Brera. Sulle cause di questo mutamento di Parini si è discusso molto. Binni individua nella maturazione interiore del poeta il motivo della svolta:

«Senza nessun abbandono del saldo dovere verso la città umana, dell’umanesimo illuministico nella sua pratica concretezza del riformismo “lombardo”, il Parini denuncia sempre più nella sua poetica matura l’esigenza di una visione della vita più serena, di un tono magnanimo e superiore che si incontra e si convalida con le offerte del gusto neoclassico. La funzione alta della poesia come espressione di bellezza-verità, il decoro estetico e morale, scaturisce così dal medio equilibrio umano raggiunto dal Parini più maturo e corrisponde agli ideali estetici più profondi del neoclassicismo settecentesco pur dentro i suoi margini sfumati di estetismo, di compiacimento idillico, di residui di grazia rococò. Una chiarezza interiore, una luminosità più calma e costante, una pacata saggezza di fronte allo spirito frizzante e vigorosamente polemico del periodo precedente […] corrispondono, in questo Parini che vede con maggior distacco e maggior padronanza la materia della sua esperienza, ad una linea costruttiva ampia e meno minutamente rilevata, entro cui si distendono immagini e motivi in colori poco intensi e pur morbidi, in musica meno brillante, persino a volte in una impressione di minor vigore e di minore urgenza vitale.
L’armonia che risulta dalla visione più ferma della vita (da sensazione istintiva e costruzione civile) è letterariamente adeguata in una poetica coerente alla migliore suggestione della condizione etico-estetica del neoclassicismo ed anzi si può ben dire che nella nostra letteratura quella poetica si realizza, al di là del fanatico entusiasmo del Winckelmann, in maniera esemplare e tale da potersi considerare un momento fondamentale nella storia di quel gusto, nella sua applicazione in sede letteraria. La condizione del “cor gentile” e dell'”orecchio placato” diventa la base sentimentale e poetica delle ultime Odi» [5].

Secondo Petronio la causa è da ricercare invece nella delusione storica di Parini, rappresentata dalla svolta assolutistica di Giuseppe II, una delusione che peraltro Parini condividerebbe con esponenti dell’Illuminismo lombardo molto distanti, almeno formalmente, dalla sua concezione della poesia, anche quando quest’ultima vive la sua fase illuministica, come i fratelli Verri per esempio, e, più in generale, quegli intellettuali in orbita «Caffè»:

«Tutto […] contribuiva ad allontanare l’uomo e il poeta dai temi e dai toni della sua prima lirica teresiana: il processo della cultura milanese che si faceva sempre più scientifica, sempre più tecnica, sempre più pratica, lontana da quell’ideale di equilibrio tra “utile” e “lusinghevol canto” che il Parini aveva lungamente perseguito; il processo storico dello stato lombardo, che pareva concedere troppo a ispirazioni eversive, lontane da quel moderato illuminismo che il Parini aveva sognato e cantato; la lezione di grandi e di piccoli […] che la politica aveva travolti; l’esempio di amici o di avversari, che si rinchiudevano tutti nel proprio guscio e disertavano le riunioni della Patriottica per attendere solo al loro lavoro paziente di amministratori; il senso di solitudine che sentiva crescere intorno a sé, quella particolare malinconica solitudine dell’uomo che non capisce più il corso dei tempi e ne ha un senso di gelo. Ce n’è abbastanza, mi pare, per capire come al di là delle ragioni di letteratura e di gusto – fossero ragioni strutturali, di fondo, della società del suo tempo a fare così lenta e stanca e incompiuta la continuazione del Vespro e della Notte, così diverse le ultime odi. […]
A prima vista, la poetica è quella di una volta, la poetica, che già era stata di Orazio, dell’utile mescolato al dolce, dell’armonia tra l’utile e il canto lusinghevole; ma solo a prima vista, ché, ancora una volta, le stesse parole hanno assunto un nuovo valore. Lì utile indicava utilità sociale, educazione dei propri concittadini a correggere alcuni difetti e a sviluppare alcune virtù, sì da migliorare concretamente quella società in quel particolare momento storico; qui utile indica invece una educazione dello spirito e del gusto valida per tutti gli uomini e per tutti i tempi, a superare vizi o a coltivare virtù che non sono caratteristici di una società e di un determinato momento storico, ma appartengono all’uomo. E lì il discorso si rivolgeva a tutti i propri concittadini, in una fiducia illuministica nella possibilità di trasformare il mondo; qui si rivolge ad uno stuolo “numerato e casto” di spiriti congeniali, in uno scrostarsi sprezzante dal “vile volgo maligno”. Queste odi, dunque, sono ancora morali, ma di una moralità aristocratica e schiva, che si rinchiude in se stessa e si esalta nella contemplazione di sé o di altri pochi simili a sé; per cui anche il discorso si fa, naturalmente, sempre più aristocratico dal punto di vista formale, esaltandosi in un classicismo di lingua e di stile dalla fattura impeccabile ma senza fermenti, chiudendo un’età non aprendone un’altra, come ambivano a fare i versi meno perfetti ma più ricchi di umori di certe odi di prima» [6].

Quale che sia la ragione del mutamento pariniano – la tesi proposta da Petronio appare più convincente di quella proposta da Binni -, senza escludere neppure una fisiologica stanchezza, come ho accennato prima, esso si manifesta non solo nelle odi di quest’ultimo periodo, ma anche nei frammenti delle due ultime parti del Giorno, il Vespro e la Notte. Ora, senza entrare nel dettaglio, basti ricordare che in questi due frammenti la polemica antinobiliare di Parini perde brio e vitalità, facendosi più sfumata, smorzata. La spietatezza e la crudeltà lasciano spazio alla commedia mondana, alla satira di costume. L’ironia violentemente polemica degli anni Sessanta scompare; ora tutto appare in penombra.

Quando Parini scrive il Vespro e la Notte è ormai sopraggiunta la Rivoluzione francese ad annientare l’aristocrazia, e come ha sottolineato Savoca, proprio questa rappresentazione lievemente, quasi sorridentemente, bonariamente ironica della nobiltà lombarda trasmette un sentimento di vuoto e di morte che non era nelle intenzioni dell’autore, ma che il lettore percepisce in modo nitido e inquietante. L’aristocrazia rappresentata da Parini si configura così come un mondo popolato da spettri; un mondo giunto alla fine dei suoi giorni, che gode, inconsapevole, della sua desolazione.

NOTE

[1] Giuseppe Parini, Le Odi, a cura di Dante Isella, Ricciardi, Milano 1975.

[2] Giuseppe Parini, Il Giorno, a cura di Dante Isella, Guanda, Parma 1996.

[3] Ivi.

[4] Citato in Giuseppe Petronio, Parini e l’Illuminismo lombardo, Feltrinelli, Milano 1961.

[5] Walter Binni, La poesia del Parini e il Neoclassicismo, in Id., Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento, La Nuova Italia, Firenze 1963.

[6] Citato in Giuseppe Petronio, Parini e l’Illuminismo lombardo, cit.

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