Zosima in un'illustrazione di Il'ja Glazunov del 1982

Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso. Capitolo settimo – Zòsima, il monaco russo

«Si ride dell’obbedienza, del digiuno e della preghiera, ma intanto è proprio questo il solo percorso che conduca alla vera, schietta libertà: io estirpo da me i bisogni superficiali e inutili, domo e flagello la mia volontà egoista e orgogliosa con l’obbedienza, e raggiungo così, con l’aiuto di Dio, la libertà dello spirito, e con essa anche la felicità spirituale!»

VII.I. Un cristiano puro e ideale

Da una parte Ivàn, estremo nichilista dostoevskiano [1], dall’altra lo stàrec Zòsima, ideale, ma reale portavoce e incarnazione dell’autentico, puro, incontaminato messaggio cristiano. Nei Fratelli Karamazov questi due fondamentali personaggi rappresentano e personificano dunque – dall’impostazione polifonica rilevata da Bachtin si giunge a una visione d’insieme eminentemente allegorica, come mostra inoltre la perfetta corrispondenza tra interno ed esterno, tra pensiero, carattere e aspetto delle figure di Dostoevskij, dato emblematico, nell’ultimo romanzo, in Smerdjàkov [2] – i due poli opposti del pensiero dello scrittore russo: quello negativo, il sottosuolo, o sottosuolo del sottosuolo, come l’ho definito, il giovane intellettuale, illustre e brillante rampollo dell’intelligencija russa, quello positivo, Cristo, il vecchio religioso [3]. Tra di essi oscilla, come una canna – metafora pascaliana -, Alëša, con la sua acerba e fragile persona in divenire. Il confronto tra Ivàn e Zòsima e le loro rispettive convinzioni rappresenta il nucleo della riflessione filosofica dei Fratelli Karamazov, come sottolinea lo stesso Dostoevskij in numerose lettere, dove inoltre dichiara esplicitamente che la figura e gli insegnamenti dello stàrec costituiscono la risposta al e la confutazione del pensiero anarchico e distruttivo di Ivàn:

«Questa quinta parte, secondo la mia concezione, deve costituire il punto culminante di tutto il romanzo […]. L’idea che ne sta alla base […] è costituita dalla rappresentazione dell’estremo a cui può arrivare il sacrilegio e del nucleo dell’idea di distruzione caratteristica del nostro tempo in Russia nell’ambiente della gioventù estraniatasi dalla realtà; ma accanto al sacrilegio e all’anarchia viene proposta anche la loro confutazione, che sto appunto esponendo nelle ultime parole del moribondo stàrec Zòsima […]» [4];

«[…] questa parte del romanzo è per me quella culminante; s’intitola “Pro e contra” e l’idea che ne sta alla base è il rifiuto di Dio e la confutazione di tale rifiuto. La parte riguardante il rifiuto di Dio l’ho già conclusa e spedita, mentre quella che tratta della confutazione di tale rifiuto la manderò soltanto per il fascicolo di luglio. Ho trattato il rifiuto di Dio nella sua forma più estrema, almeno così come io stesso l’ho sentito e l’ho compreso, e cioè così come si manifesta nel momento attuale nella nostra Russia in tutto (o quasi) lo strato superiore della società: la negazione scientifica e filosofica dell’esistenza di Dio è stata ormai abbandonata, gli attuali socialisti attivi non se ne occupano più affatto (mentre invece se ne occupavano in tutto il secolo passato e nella prima metà di quello attuale); in compenso viene negata con tutte le forze la creazione divina, il mondo di Dio e il suo senso. È soltanto in questo che la cultura moderna riscontra l’assurdo. In tal modo mi lusingo con la speranza di aver mantenuto fede al realismo perfino in un tema così astratto. La confutazione della negazione di Dio (non in forma diretta, cioè non in un dibattito tra due personaggi) viene svolta nelle ultime parole dello stàrec morente. Molti critici mi hanno rimproverato per il fatto che, nei miei romanzi in generale, io non sceglierei i temi adatti, quelli veramente realistici, e così via. Io, al contrario, non conosco nulla di più reale proprio di questi temi…» [5];

«L’altroieri ho inviato alla redazione del “Messaggero Russo” il seguito dei Karamazov per il fascicolo di giugno (cioè la fine della quinta parte “Pro e contra”). In essa ho portato a termine ciò che dicono le labbra superbe e blasfeme. Il negatore contemporaneo, uno dei più accaniti, si dichiara esplicitamente a favore di ciò che consiglia il diavolo e sostiene che il suo insegnamento è più sicuro per gli uomini di quello di Cristo. Con ciò si dà una direttiva per il nostro socialismo russo, così sciocco (ma terribile, perché in esso è implicata la gioventù): il pane, la torre di Babele (cioè il futuro regno del socialismo) e il completo assoggettamento della libertà di coscienza, ecco a che cosa approda il disperato negatore e ateo! La differenza sta nel fatto che i nostri socialisti (ed essi non sono soltanto il nichilismo sotterraneo, Lei lo sa bene) sono dei gesuiti e dei mentitori coscienti che non riconoscono che il loro ideale consiste nella violenza esercitata sulla coscienza umana e nel ridurre l’umanità al livello di un gregge, mentre il mio socialista (Ivàn Karamazov) è un uomo sincero che riconosce francamente di trovarsi d’accordo con la concezione dell’umanità propria del Grande Inquisitore, e che la fede in Cristo sarebbe in grado di portare l’uomo ad un livello più alto di quello a cui esso realmente si trova. La domanda viene posta in modo assolutamente categorico: “Voi, futuri salvatori dell’umanità, in realtà la disprezzate o la rispettate?”
E tutto ciò essi pretendono di farlo in nome dell’amore per l’umanità: “La legge di Cristo – essi dicono – è troppo pesante e astratta; è intollerabile per le deboli forze dell’uomo”, e così, invece della legge della Libertà e della vera Cultura, gli propongono la legge delle catene e della schiavitù per il pane.
Nella parte seguente rappresenterò la morte dello stàrec Zòsima e riporterò le sue conversazioni in punto di morte con gli amici. Non si tratta di una predica, bensì di una specie di narrazione, il racconto della sua vita. Se mi riuscirà, farò qualcosa di veramente buono: costringerò il lettore a riconoscere che un cristiano puro e ideale non è qualcosa di astratto, bensì qualcosa che si può rendere in un’immagine reale, qualcosa di possibile e presente, e che il cristianesimo è l’unico rifugio per la Terra Russa da tutti i suoi mali. Prego Iddio che il quadro mi riesca; ne verrà fuori qualcosa di autenticamente patetico, purché mi sorregga l’ispirazione. E l’essenziale è che si tratta di un tema tale quale non è venuto in mente e nessuno degli attuali scrittori e poeti, e quindi qualcosa di assolutamente originale. È per questo che ho scritto tutto il romanzo, ma voglia Iddio che mi riesca ciò per cui adesso vivo in tanta ansietà!» [6];

«La Sua opinione su quanto finora ha letto dei Karamazov è per me molto lusinghiera (a proposito della forza e dell’energia di quanto ho scritto), ma Lei qui pone una questione assolutamente inevitabile: il fatto che non c’è ancora una risposta a tutte le tesi atee qui esposte, e che bisogna assolutamente darla. È proprio questo il punto, e appunto in questo sta tutta la mia attuale preoccupazione e trepidazione. Infatti io ho previsto che la risposta a tutta questa parte negativa la si troverà nella sesta parte, “Un monaco russo” […]. Pertanto la mia trepidazione è originata dal dubbio se tale risposta sarà sufficiente. Tanto più che non si tratta di una risposta diretta e puntuale alle tesi esposte in precedenza (nel Grande Inquisitore e anche prima), bensì soltanto indiretta. Qui viene rappresentato qualcosa di nettamente opposto alla concezione del mondo esposta in precedenza, ma, lo ripeto, non si tratta di una contrapposizione punto per punto, bensì, per così dire, di un’immagine artistica. Ed è appunto questo che mi preoccupa: sarò comprensibile e raggiungerò almeno in minima parte il mio scopo? Per giunta vi sono delle esigenze specificamente artistiche: era necessario rappresentare una figura modesta e maestosa, mentre in realtà la vita è piena di aspetti comici ed è maestosa soltanto nel suo senso interiore, cosicché, volente o nolente, per esigenze artistiche mi sono visto costretto a toccare anche gli aspetti più volgari della vita del mio monaco per non nuocere al realismo artistico. D’altronde vi sono certi insegnamenti del monaco che faranno gridare a tutti che sono assurdi perché sono troppo elevati. Naturalmente sono assurdi per il senso comune, ma mi sembra che siano giusti secondo un senso diverso, interiore. […] Ho scritto con grande amore» [7].

Da queste lettere emerge tutta l’importanza del personaggio di Zòsima, e non solo all’interno dei Fratelli Karamazov, ma dell’intera opera di Dostoevskij. Dostoevskij che, attraverso la figura dello stàrec, intende raggiungere obiettivi ambiziosi, per lui urgenti e brucianti: la confutazione del nichilismo distruttivo e anarchico sostenuto da Ivàn e la dimostrazione della reale verosimiglianza di «un cristiano puro e ideale» e della portata salvifica del cristianesimo. Obiettivi che lo scrittore russo pone alla base della creazione dei Fratelli Karamazov, fondati così su quella vocazione civile che Dostoevskij ha sempre sentito intimamente sua, conficcato nella propria epoca come un albero nella terra. Come dichiara egli stesso in conclusione dell’Adolescente, lo scrittore russo soffre «fortemente» il proprio tempo e con esso si misura e lotta, tormentato dai dubbi, certo, come ho già scritto nel corso del presente contributo, ma sempre fedele a Cristo, suo supremo «Credo» come lo definisce nella celebre lettera alla Fonvìzina, e di cui Zòsima è l’ultimo e più perfetto portavoce, l’ultima e più perfetta incarnazione.

VII.II. Lo stàrec e il popolo

Il narratore presenta l’istituzione dello stàrčestvo come un’introduzione piuttosto recente nei monasteri russi, accolta «neanche un secolo fa», mentre nell’Oriente ortodosso, soprattutto sul Sinai e sul monte Athos, vanta una tradizione millenaria. Quindi, in poche e chiare parole, spiega la funzione dello stàrec all’interno del monastero:

«Lo stàrec è colui che prende la vostra anima, la vostra volontà, e l’assorbe nella sua anima e nella sua volontà. Una volta scelto uno stàrec, voi rinunciate del tutto alla vostra volontà e la rimettete a lui in piena sottomissione, in perfetta abnegazione. Chi fa il voto accetta spontaneamente questa prova, questa terribile scuola di vita, nella speranza di riuscire, dopo la lunga prova, a vincere se stesso, a dominarsi tanto da poter finalmente raggiungere, tramite l’obbedienza di tutta una vita, la compiuta libertà, cioè la libertà del proprio io, e sfuggire così la sorte di coloro che vissero una vita intera senza ritrovare se stessi» [8].

Lo stàrec detiene dunque un potere enorme, illimitato, indiscutibile, e per questo motivo in molti monasteri russi lo stàrčestvo è stato oggetto di persecuzione, riuscendo però a resistere e ad affermarsi, a poco a poco, grazie anche al favore incontrato nel popolo. Gli stàrcy infatti sono oggetto di una vera e propria venerazione popolare, che dalle classi umili si diffonde sino alle più elevate, la cui ragione è spiegata nel seguente passo, frutto delle riflessioni di Alëša, che, pur giovanissimo, ha rimesso allo stàrec Zòsima la propria anima e la propria volontà:

«[…] egli comprendeva perfettamente che per l’umile anima delle plebi russe – piagata dalla fatica e dal dolore, ma soprattutto dalla continua ingiustizia e dal continuo peccato, suo e di tutta l’umanità – non c’era bisogno più forte e consolazione maggiore che trovare un santuario o un santo di fronte al quale prostrarsi in adorazione: “Se in noi ci sono il peccato, la menzogna e la tentazione, esiste pur sempre sulla terra, laggiù, in qualche posto, un essere santo e sublime; lui, in compenso, possiede la verità, almeno lui la conosce, la verità: dunque essa non muore sulla terra e un giorno giungerà anche tra noi e regnerà su tutta la terra, come ci è stato promesso!”» (48).

La consapevolezza, la necessaria, imprescindibile consapevolezza dell’esistenza, «sulla terra, laggiù, in qualche posto», di un uomo santo in possesso della verità: lo stàrčestvo esaudisce questo bisogno atavico nel popolo russo. E viene in mente quell’«adesso vive là» che conclude il racconto Padre Sergij di Tolstoj [9], altra grande opera di diffusione dell’autentico e puro messaggio cristiano – diffusione mai conciliante e pacifica, apologetica, né in Dostoevskij né in Tolstoj, il suo successore alla guida letteraria, filosofica e spirituale della Russia, ma sempre problematica e complessa, dialettica, tormentata da dubbi e tentazioni (non a caso padre Sergij afferra la scure e si mozza un dito per resistere alle lusinghe d’una bella donna).

Facendo di uno stàrec l’ultimo portavoce, l’ultima incarnazione del messaggio cristiano, Dostoevskij si dimostra favorevole allo stàrčestvo, per la positiva influenza sul popolo russo, così bisognoso di santi, e poi perché nella funzione dello stàrec si verifica quella vaporizzazione, quella dispersione dell’io che lo scrittore russo, nei Pensieri sulla morte e sull’immortalità, appunti presi nel 1864, durante la veglia del cadavere della prima moglie, Màrija Dmìtr’evna, definisce il maggiore e più elevato utilizzo che l’uomo possa fare della propria individualità:

«Màša distesa sulla tavola. La rivedrò io mai? Amare l’uomo come se stessi, secondo il comandamento di Cristo, non è possibile. Sulla terra la legge della personalità è d’impaccio. L’io è di ostacolo. Cristo soltanto poteva farlo, ma Cristo era l’ideale eterno sin dall’inizio dei tempi, quell’ideale a cui l’uomo tende, e deve tendere, per legge di natura. Tuttavia, dopo la comparsa di Cristo come ideale dell’uomo incarnato, è diventato chiaro come il giorno che l’evoluzione ultima e suprema della personalità individuale (e questo proprio al culmine dell’evoluzione, anzi nel momento stesso in cui il fine dell’evoluzione sarà raggiunto) in cui l’uomo riconosca, si renda conto e si convinca con tutta la forza della sua natura che l’impiego più alto che egli possa fare della sua individualità, nel momento in cui il suo io abbia raggiunto la pienezza dello sviluppo, consiste nel distruggere questo stesso io, nel donarlo interamente a tutti e a ciascuno indivisibilmente e senza riserve. E in ciò consiste la felicità più sublime… E appunto questo è il paradiso di Cristo. […] Ma, almeno secondo la mia facoltà di giudizio, sarebbe assolutamente insensato raggiungere uno scopo così alto se, al momento del raggiungimento di tale fine, tutto dovesse spegnersi e scomparire, e cioè se non ci fosse più vita per l’uomo dopo averlo raggiunto. Ne consegue che esiste una vita futura, il paradiso» [10].

Distruggere il proprio io per raggiungere la massima, suprema felicità, il paradiso di Cristo. Eccezion fatta per lo stàrec Zòsima e, in parte, per Alëša, tutti i personaggi dei Fratelli Karamazov fanno esattamente il contrario, affermando se stessi con impeto parossistico, e sprofondando così nella suprema infelicità.

VII.III. Le parole di Zòsima. Prima parte

Come Cristo, al quale ha consacrato la propria esistenza dopo l’improvvisa conversione, Zòsima fonda sull’incontro e sul dialogo, non solo con i colleghi monaci, ma anche, e soprattutto, con la gente comune, senza distinzioni sociali e anzi privilegiando gli umili, umiliati e offesi, la sua attività-missione di stàrec. Zòsima incontra, riceve, ascolta, consiglia e diffonde il messaggio cristiano, donandolo più che insegnandolo, come il persuaso michelstaedteriano, di cui il modello ideale, insieme con Socrate, è proprio Cristo [11]. Perché il popolo ha bisogno di conforto, di vicinanza, di comprensione, di perdono, non di insegnamenti; ha bisogno di un santo in possesso della verità dinanzi al quale prostrarsi e che, al tempo stesso, si prostri al cospetto di quel popolo che lo venera dal profondo, con un ardore fisico oltre che spirituale, che infiamma le viscere oltre che l’anima: di un monaco russo insomma, non di un Grande Inquisitore, tutto compreso nel suo ruolo autoritario. E poi perché il popolo non deve apprendere Cristo, che, proprio in quanto popolo, e per di più popolo russo, già sa, conosce, porta e custodisce dentro di sé, come mostra con grande efficacia Ivàn nell’incipit del suo poema [12], e nonostante gli innumerevoli peccati commessi, come ha potuto verificare Dostoevskij stesso in prima persona durante i quattro, terribili ma decisivi, oltremodo formativi anni di katorga nell’inospitale Siberia, rievocati artisticamente nelle Memorie di una casa morta [13].

Zòsima è dunque portavoce e incarnazione – in questo senso la sua stessa vita, come vedremo tra poco, assume i tratti della parabola – del puro, autentico, incontaminato, ortodosso in una sola parola, messaggio cristiano, che rivive in ogni suo singolo gesto – il più celebre dei quali è senza dubbio l’inchino al cospetto di Mìtja e dell’immenso, insostenibile dolore che lo attende, durante la scandalosa riunione della famiglia Karamazov nella sua cella [14] – e in ogni sua singola parola, alimentato da quell’amore attivo contrapposto all’amore contemplativo, così esteriore e spettacolare dunque vano e superficiale:

«Se non raggiungerete la felicità, ricordatevi sempre che siete sulla buona strada e cercate di non allontanarvene. Soprattutto, fuggite la menzogna, qualunque menzogna, specialmente verso voi stessa. Vigilate sulla vostra menzogna ed esaminatela ogni ora, ogni momento. Fuggite anche il disgusto nei confronti degli altri e di voi stessa: ciò che nel vostro animo vi sembra malvagio si purifica per il solo fatto che voi stessa l’abbiate scoperto. Allo stesso modo non cedete alla paura, benché la paura non sia che la conseguenza di ogni menzogna. Non lasciatevi mai intimorire dalla vostra debolezza nel tendere all’amore, né dalle cattive azioni che tale debolezza potrà comportare. Mi dispiace di non potervi dire nulla di più consolante, perché l’amore attivo, rispetto a quello contemplativo, è una cosa crudele e spaventosa. L’amore contemplativo ha sete di azioni rapide e decise, e che attraggano gli sguardi di tutti. Si arriva così al punto di sacrificare persino la vita, purché le cose non vadano per le lunghe, ma si compiano in fretta, come a teatro, e che tutti vedano e applaudano. L’amore attivo è invece fatica e perseveranza, e per alcuni è addirittura una scienza vera e propria. Ma io vi dico fin d’ora che nel momento stesso in cui vi accorgerete con orrore che – nonostante ogni vostro sforzo – non solo non vi siete accostata alla meta, ma anzi ve ne siete allontanata, proprio allora, vi dico, voi raggiungerete a un tratto la meta e scorgerete chiaramente sopra di voi la miracolosa forza del Signore, che vi ha sempre amato e vi ha sempre misteriosamente guidato» (75).

Zòsima rivolge queste parole a una benestante signora di poca fede, la ridicola e melodrammatica Chochlakòv, ma valgono naturalmente per ogni essere umano, e, tra tutti i personaggi dei Fratelli Karamazov, per uno in particolare, Kàtja, vittima di un orgoglio smisurato, il cui impeto sacrificale, la cui vocazione olocaustica non porteranno a niente di buono, anzi, alla condanna invece che alla salvezza del povero fidanzato, Mìtja [15].

Nelle ultime ore della sua vita, costretto a restare in cella, Zòsima si rivolge soprattutto ai monaci, rivelando il senso ultimo, più profondo del loro ruolo e condannandone con forza la superbia, la presunzione di santità, di elevazione rispetto agli abitanti del mondo, smarriti in esso:

«Noi non siamo più santi degli uomini che abitano il mondo solo perché siamo venuti qui e ci siamo chiusi tra queste mura; al contrario, chiunque è venuto qui, fosse solo per questo fatto, ha riconosciuto di essere peggiore di ogni laico, di tutti e di tutto sulla terra… E quanto più un monaco vivrà tra le sue mura, tanto più a fondo dovrà esserne cosciente. Perché se così non fosse, sarebbe venuto qui invano. Quando poi comprenderà di essere non solo peggiore di ogni laico, ma anche colpevole di ogni cosa di fronte a tutti gli uomini, di ogni peccato umano, universale e individuale, solo allora sarà raggiunto il fine di questo nostro ascetismo. Sappiate infatti, miei cari, che noi tutti siamo indubitabilmente colpevoli di ogni cosa su questa terra, non solo a causa della colpa universale che ci accomuna: ciascuno di noi assume su di sé le colpe di tutti gli uomini e di ogni individuo che vive sulla terra. Questa consapevolezza rappresenta il coronamento della vita del monaco, come di qualunque uomo sulla terra, d’altra parte. Perché i monaci non sono diversi dagli altri, semplicemente sono come tutti gli uomini dovrebbero essere» (177-178).

Un uomo decide di farsi monaco, di abbandonare il mondo, la società ed entrare in monastero perché riconosce di essere peggiore di tutti e di tutto. Inoltre in queste fondamentali righe riecheggia prepotente uno degli ultimi messaggi dostoevskiani più forti, più intensi, più passionali, ovvero la colpevolezza di ogni singolo uomo rispetto alle colpe altrui, messaggio già espresso da Tichon nei Demòni, ma rimasto sconosciuto perché inserito nel capitolo censurato della confessione di Stavrògin:

«Peccando, ogni uomo pecca contro tutti gli altri e ogni uomo è in qualche modo colpevole dei peccati altrui. Non esiste un peccato isolato. Io sono un grande peccatore, forse più di voi» [16].

Nessuno può dirsi innocente, nessuno, e men che meno l’uomo che ha deciso di farsi monaco riconoscendo se stesso peggiore di tutti e di tutto. Un messaggio di una forza e di un’intensità straordinarie e che non riguarda solamente I demòni e I fratelli Karamazov, dove pure trova la sua espressione più chiara e definitiva, ma l’intera opera di Dostoevskij, come sottolinea Affinati: «Dostoevskij ci fa capire che il caos non è fuori di noi: appare piuttosto celato dentro la personalità di ognuno. Al termine dei suoi romanzi spunta spesso una vocina misteriosa che fa così: stai attento, questo potrebbe capitare anche a te. Nessuno può dire: io non c’entro. Quando un uomo commette un delitto, piccolo o grave, si accende una luce rossa intermittente che non riguarda soltanto lui» [17]. Dostoevskij stesso si considerava un grande peccatore, tormentato fino all’ultimo dei suoi giorni dai dubbi, e anche per questo motivo nessuna delle sue opere si impone come un’apologia di Cristo, ma sempre come una dialettica tra quello che Dostoevskij definisce con ardore il suo «Credo», e il nichilismo, l’ateismo, il sottosuolo in una sola parola, che talvolta finisce persino per sovrastare e distruggere tutto, come nei Demòni, in assoluto il più nero dei romanzi dostoevskiani.

VII.IV. La vita di Zòsima

VII.IV.I. Markèl

In punto di morte, ai monaci solennemente raccolti nella sua cella, Zòsima racconta la propria vita. Un esemplare resoconto biografico inaugurato dal ricordo del fratello maggiore dello stàrec, Markèl, stroncato dalla tisi ad appena diciassette anni (Zòsima rivela di amare tanto Alëša proprio per la straordinaria somiglianza con Markèl), senza il quale non sarebbe mai diventato un monaco. Ateo precoce a causa della funesta influenza di un intellettuale esule frequentato intere giornate (si riflette qui, come nel rapporto tra Ivàn e Alëša, l’influsso negativo dei socialisti sulla gioventù russa, terribili dunque oltre che sciocchi), con l’improvvisa malattia Markèl cambia del tutto spiritualmente, disseminando amorevoli parole:

«Mamma […], non piangere, la vita è un paradiso, e noi tutti siamo in paradiso, ma non vogliamo riconoscerlo; ma se volessimo riconoscerlo, domani stesso il mondo intero diventerebbe un paradiso» (297).

Parole che ricordano quelle di Kirìllov nei Demòni:

«L’uomo è infelice perché non sa di essere felice; solo per questo»; «Se sapessero di star bene, starebbero bene, ma finché non sapranno di star bene, non staranno bene»; «Non sono buoni […] perché non sanno di essere buoni» [18].

Un paradosso solo in apparenza, perché, come dice Tichon a Stavrògin, l’«ateo assoluto […] è pur sempre sul penultimo scalino in alto prima della perfettissima fede» [19]. Quanto Markèl sia stato importante, o meglio, fondamentale nella formazione di Zòsima, nel suo impervio cammino verso la fede, lo dimostra con evidenza il fatto che egli abbia mutuato proprio dal fratello maggiore l’idea della generale colpevolezza dell’uomo, vero e proprio contraltare dell’idea ivaniana del tutto è permesso, da cui scaturisce la tragedia dei Fratelli Karamazov:

«Mammina, sangue mio […], sangue mio dolce e caro, sappi che in verità ognuno è colpevole dinanzi a tutti per tutti e per tutto. Io non so come spiegartelo, ma sento che è così fino a soffrirne. E come abbiamo fatto a vivere, a adirarci l’uno contro l’altro senza saper nulla di tutto ciò?» (298).

Markèl, prima di morire, nella terza settimana dopo Pasqua, chiede a Zòsima, allora Zinòvij, di vivere per lui, e nel ricordo del suo fratello maggiore scomparso così presto, egli non avrebbe potuto vivere meglio.

VII.IV.II. Intermezzo

Prima di proseguire nel racconto della sua vita, Zòsima si sofferma sul rapporto con le Sacre Scritture e nelle sue parole riecheggia subito quello che possiamo considerare il vero e proprio testamento di Dostoevskij, ribadito poi da Alëša nel conclusivo discorso presso la pietra e, al di fuori del romanzo, dallo stesso scrittore nel Discorso su Puškin, ovvero l’importanza dei ricordi infantili:

«[…] per l’uomo non esistono ricordi più preziosi di quelli della sua prima infanzia trascorsa nella casa dei genitori, ed è quasi sempre così, basta solo che nella famiglia ci sia un po’ di amore e di concordia» (299).

Qualche riga più avanti poi Zòsima compendia il senso della fiducia di Dostoevskij nei confronti del popolo russo, fiducia sconfinata e inossidabile, germogliata in lui durante l’esperienza-di-vita della katorga, in cui si accorge dell’inadeguatezza dell’ideologia socialista, sostenuta sino a quel momento e che gli era costata persino una condanna a morte commutata poi in quattro anni di lavori forzati, e rafforzatasi nel corso della sua viscerale esistenza, fino a imporsi come uno dei punti fondamentali del suo pensiero, strettamente legato al supremo ideale di Cristo (il cosiddetto messianismo russo):

«Chi non crede in Dio non crede nemmeno nel popolo di Dio. Chi invece ha avuto fede nel popolo di Dio scorgerà anche la Sua santità, anche se non ci avesse mai creduto prima. Soltanto il popolo e la sua forza spirituale a venire convertiranno i nostri atei, che si sono allontanati dalla terra natia» (303).

In queste parole si misura tutta la chilometrica, incolmabile distanza che separa Zòsima da Smerdjàkov, il quale, in quanto anima nera del romanzo, odia la Russia con tutto se stesso, di un odio profondo, feroce, e da Ivàn e dal Grande Inquisitore, in cui la fiducia nel genere umano è completamente assente, e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di un’autorità, di un’illustre esponente di quella forza oscura, il cattolicesimo romano, che del sistematico traviamento di Cristo ha fatto il suo principale strumento di potere. Quanto lo sopracitate parole dello stàrec aderiscano al punto di vista di Dostoevskij, alla sua Weltanschauung, lo dimostra con evidenza la lettera del 19 dicembre 1880 a Blagonravov, già citata nel capitolo dedicato a Ivàn a proposito della verosimiglianza della sua diabolica allucinazione:

«Lei ha perfettamente ragione di concludere che io scorgo la causa del male nella miscredenza e penso che chi nega il principio nazionale nega anche la fede. E da noi è proprio così, giacché tutto il nostro carattere nazionale è fondato sul cristianesimo. Le parole contadino e Russia ortodossa costituiscono i nostri fondamenti essenziali e primari. Da noi un russo che rinnega il principio nazionale (e ce ne sono molti) è immancabilmente ateo o indifferente. E viceversa: qualsiasi miscredente o indifferente non è assolutamente in grado di comprendere né il popolo russo né il principio nazionale russo. Il problema più importante oggi è questo: come fare per costringere la nostra intelligencija a convenire su questo? Si provi a dire una parola su questo: o la divoreranno o la considereranno un traditore. Ma traditore nei confronti di chi? Nei loro confronti, e cioè nei confronti di qualcosa che sta tra le nuvole e per il quale è perfino difficile trovare un nome con cui chiamarsi. O forse traditore nei confronti del popolo? No, questo no, allora preferisco restare con il popolo, giacché soltanto da esso ci si può aspettare qualcosa, e non certo dall’intelligencija russa, che nega il popolo e non è neppure intelligente» [20].

Scindere fede e fiducia nel popolo secondo Dostoevskij non è possibile, l’esclusione dell’una porta automaticamente all’esclusione dell’altra, è inevitabile, non ci sono alternative. Ed egli ne ha preso coscienza proprio laddove il popolo viene segregato per aver mostrato il suo volto peggiore: la katorga. La dimostrazione che in Dostoevskij la rettorica è assente. Come ogni parola del persuaso michelstaedteriano, anche ogni sua parola è luminosa «perché, con profondità di nessi l’una alle altre legandosi, crea la presenza di ciò che è lontano. Egli può dar le cose lontane nelle apparenze vicine così, che anche quello che di queste soltanto vive, vi senta un senso ch’egli ignorava, e muovere il cuore d’ognuno» [21].

VII.IV.III. Il duello e il visitatore misterioso

Zòsima in giovinezza ha conosciuto il mondo, è stato ufficiale, per una donna ha sfidato un uomo a duello, e proprio questo duello segna la svolta nella sua vita, lo strappo decisivo, il momento di crisi che cambia tutto, rimescola tutto, conferendo all’esistenza un nuovo senso, inatteso. Egli sostiene il fuoco dell’avversario, senza paura, ma quando tocca a lui sparare getta via la pistola, trafitto e illuminato dal caro ricordo di Markèl e delle sue amorevoli parole. Zòsima rassegna allora le dimissioni e decide di entrare in monastero, di farsi monaco, ma prima deve misurarsi con il visitatore misterioso e la sua drammatica storia. Visitatore misterioso autore di un importante discorso sull’isolamento umano:

«Per trasformare il mondo, per rimetterlo a nuovo, occorre che gli uomini stessi intraprendano spiritualmente una nuova strada. Finché tu non sarai diventato davvero il fratello di tutti, la fratellanza non spunterà. Guidati dalla scienza e dall’interesse, gli uomini non sapranno mai distribuire tra loro senza iniquità i loro beni e i loro diritti. Nessuno ne avrà abbastanza e tutti borbotteranno, si invidieranno e si stermineranno a vicenda. Voi domandate quando avverrà tutto. Avverrà, ma prima deve concludersi il periodo dell’isolamento umano. […] Quello che regna adesso dappertutto, nel nostro secolo più che mai, ma che ancora non si è concluso, ancora non è giunto al suo termine. Ognuno infatti tende oggi a separare il più possibile la propria personalità, vuole sperimentare in se stesso la pienezza della vita, ma intanto da tutti i suoi sforzi scaturisce, anziché la pienezza della vita, soltanto un completo suicidio, perché, invece di determinare pienamente il proprio essere, si cade in un perfetto isolamento. Infatti, tutti nel nostro secolo si sono separati come tante unità, ognuno si isola nel suo buco, ognuno si allontana dagli altri, si nasconde e nasconde quel che possiede, e finisce per rifuggire gli uomini, mentre li respinge da sé. Nel suo isolamento ammassa ricchezze e pensa: “Quanto sono forte, ora, e libero da ogni ansia!”, e non sa il folle che, quanto più accumula, tanto più affonda in un’impotenza autodistruttiva. Infatti si è abituato a non confidare che in se stesso e a scindersi come un’unità dal tutto, in cuor suo si è abituato a non credere nell’aiuto del prossimo, negli uomini e nell’umanità, e trema soltanto all’idea che vadano perduti il suo denaro e i diritti con esso acquisiti. È grottesco come lo spirito umano sia diventato oggi incapace di comprendere che la vera garanzia della personalità non consiste nel suo isolato sforzo individuale, ma nella solidarietà universale degli uomini. Senz’altro anche questo terribile isolamento giungerà finalmente a termine, e tutti comprenderanno una buona volta quanto fosse innaturale la loro reciproca separazione. Tale sarà lo spirito dell’epoca e ci si stupirà di essere rimasti così a lungo nella tenebra senza vedere la luce. Allora apparirà nel cielo il segno del Figlio dell’Uomo… Ma fino a quel giorno occorrerà custodire il vessillo, e anche da solo l’uomo dovrà dare l’esempio e trarre la sua anima dall’isolamento per promuovere la comunione fraterna, a costo di passare per pazzo. Questo perché non vada distrutto il grande ideale…» (312).

Un discorso attualissimo, in cui compare uno dei temi fondamentali dell’opera di Dostoevskij, quello dell’isolamento appunto, tema stirneriano [22] connesso soprattutto agli uomini del sottosuolo, dal protagonista delle omonime Memorie [23] a Smerdjàkov e Ivàn, passando per Raskòl’nikov [24], Kirìllov, Arkadij [25], tutti illustri isolati, estraniati. Ma il visitatore misterioso crede ardentemente, indubitabilmente nel cambiamento, non si abbandona al nulla e all’egoismo come i personaggi citati, illuminato anch’egli da quella fiducia nel genere umano che è caratteristica di Cristo e che s’impone come uno degli argomenti principali dei Fratelli Karamazov.

Il visitatore misterioso nasconde un segreto terribile: quattordici anni prima ha ucciso una donna ed è riuscito a farla franca, come Smerdjàkov. Ma la notizia dell’improvvisa conversione di Zòsima allora Zinàvij lo spinge a confessare, lui che, nonostante tutto, si è rifatto una vita, ha moglie, tre figli e si è gettato a capofitto nella filantropia nel tentativo – vano – di espiare la propria colpa. Il momento del castigo prima o poi arriva, è inevitabile, ma la confessione del visitatore misterioso non è immediata, anzi, avviene dopo settimane di intensi e strazianti turbamenti, di maligni ripensamenti, come Raskòl’nikov. L’uomo infine confessa, ma nessuno gli crede, anzi, il suo gesto viene spiegato, razionalizzato, svalutato, svuotato insomma, ricorrendo al confortante paracadute della follia, sempre pronto a metodizzare ciò che in realtà sfugge alla ragione umana, eliminando il terrore derivante dall’inspiegabilità del fatto, come Malpelo nella cava in cui lavora, rosso e quindi colpevole di ogni singola disgrazia che accade in quell’angusto e mortale labirinto sotterraneo.

Il passato mondano conferisce maggiore credibilità e valore alla figura di Zòsima, come avviene per fra Cristoforo nei Promessi sposi e padre Sergij nell’omonimo racconto di Tolstoj. Così Dostoevskij risponde alle sue brucianti esigenze artistico-filosofiche: il realismo e la rappresentazione di «un cristiano puro e ideale», la cui vicenda biografica, divisa perfettamente in due dallo spartiacque della conversione, assume la valenza della parabola.

VII.V. Le parole di Zòsima. Seconda parte

Terminato il racconto dell’esemplare vita di Zòsima, l’attenzione viene posta di nuovo sulle ultime parole del monaco, alcune delle quali di un’attualità sconcertante, persino dolorosa:

«Comprendendo la libertà come moltiplicazione e immediato appagamento dei bisogni, essi [gli uomini] deformano la propria natura, poiché generano in loro stessi molte brame e abitudini insensate e le più assurde fantasie. Non vivono che per la reciproca invidia, per la sensualità e l’ostentazione. […] E si è arrivati a questo, che di beni materiali se n’è accumulata una maggiore quantità, ma la felicità è diminuita» (322).

La deformazione di cui parla Zòsima ha raggiunto nella nostra epoca, dominata dalla Grande Stupidità di manniana memoria [26], dalla rettorica, dall’ignoranza, dall’inautenticità, dall’ultra-capitalismo che spaccia per necessario ciò che è superfluo e andrebbe distrutto, il culmine, trionfando come mai prima nella storia del genere umano – l’apogeo del Progresso! -, e leggere oggi un’opera come I fratelli Karamazov serve anche a prendere coscienza di ciò. Certo, un uomo solo, per quanto consapevole, non può cambiare le cose – neppure Socrate e Cristo ci sono riusciti, traditi dai loro stessi discepoli -, ma può leopardianamente resistere, non lasciarsi contaminare dall’imperante deformazione e restare fedele a una forma di vita più autentica. Non ne otterrà niente di buono, sia chiaro, solo ulteriori fastidi, nessuno lo premierà mai per la sua diversità – che mai deve essere interpretata in termini di superiorità, ci tengo a precisarlo, siamo tutti dei poveri disgraziati, senza distinzioni, e quando lo capiremo sarà troppo tardi -, anzi, ma almeno – magra, magrissima consolazione, lo so – non vive nella menzogna e accoglierà la morte per quella che effettivamente è: una liberazione.

Nuovi bisogni dunque, inutili, vani, superflui dominano il mondo. Altra cosa è il monaco e la sua vita:

«Si ride dell’obbedienza, del digiuno e della preghiera, ma intanto è proprio questo il solo percorso che conduca alla vera, schietta libertà: io estirpo da me i bisogni superficiali e inutili, domo e flagello la mia volontà egoista e orgogliosa con l’obbedienza, e raggiungo così, con l’aiuto di Dio, la libertà dello spirito, e con essa anche la felicità spirituale!» (322).

Ma con la consapevolezza, sempre, di non essere migliori di tutti gli altri, anzi, di essere peggiori di tutti gli altri.

Zòsima esalta ancora, e con rinnovata trasparenza e intensità, il popolo, dal quale «verrà la salvezza della Russia», che «affronterà l’ateo e lo vincerà», fino alla nascita della «Russia una e ortodossa», perché «questo popolo porta in sé Dio» (323); dedica un pensiero agli animali, «senza peccato», al contrario degli uomini, e ai bambini, anche loro «senza peccato, come gli angeli», e che «vivono per intenerire i nostri cuori, per purificare le nostre anime, e sono per noi come un esempio» (327); torna di nuovo sulle potenti parole di Markèl sottolineando la responsabilità di ogni singolo uomo riguardo gli altrui delitti:

«Tieni soprattutto a mente che non puoi essere giudice di nessuno. Infatti, nessuno su questa terra può giudicare il delinquente senza aver prima riconosciuto di essere egli stesso un delinquente come colui che gli sta davanti, e che di quel delitto egli è forse più responsabile di chiunque altro» (328-329).

Zòsima dedica la penultima parola ai suicidi, per i quali, nonostante il rifiuto della Chiesa, si deve pregare, perché nessuno è stato più infelice di loro e perché l’amore non infastidirà mai Cristo; l’ultima a coloro che restano orgogliosi e superbi pur nella condanna infernale, che non «possono contemplare il Dio vivente senza odio e vorrebbero che il Dio della vita non esistesse, che Dio distruggesse Se stesso e tutta la Sua creazione» (331). Ultra-nichilisti imprigionati in eterno nel regno dell’ultra-nichilista per eccellenza: il goethiano Mefistofele [27].

VII.VI. L’odore della putrefazione

La morte di Zòsima suscita un’«aspettativa impaziente […], un’incredibile agitazione addirittura “sconveniente”». Ma, invece del tanto atteso miracolo, accade qualcosa di completamente opposto, naturale, certo, ma sconveniente, anzi, addirittura scandaloso visto il personaggio, e che il narratore dichiara di rievocare solo per la fortissima impressione esercitata su Alëša (la puntualizzazione non è dovuta al fatto in sé, al trionfo schiacciante della natura sulla trascendenza, ma a tutto ciò che esso genera, in un luogo sacro e tra religiosi).

«Il fatto è che cominciò a esalare dalla bara, a poco a poco, ma sempre più forte, l’odore della putrefazione; odore che verso le tre del pomeriggio tutti potevano percepire e continuava ad aumentare gradatamente» (338).

Ne segue uno scandalo intollerabile, le cui radici affondano nell’odio profondo nutrito da molti monaci e laici nei confronti di Zòsima:

«[…] lo stàrec, sebbene si fosse accattivato molta gente, e non con i miracoli ma con l’amore, e avesse radunato intorno a sé una moltitudine di persone che lo amava, aveva, proprio per questo motivo, suscitato prima delle invidie e poi delle brutali ostilità, dichiarate e occulte, non soltanto fra quelli del monastero, ma anche fra i laici. In realtà non aveva fatto mai del male, ma molti si chiedevano: “Perché è considerato santo?”. E questa sola domanda, ripetuta tante e tante volte, aveva finito per creare un abisso di odio senza fondo» (339).

Il sentimento dominante nei Fratelli Karamazov, l’odio, non risparmia neppure un luogo sacro come il monastero, e per di più un monastero russo, baluardo dell’autentico e puro messaggio cristiano, e lo scandalo generato dal naturalissimo odore della putrefazione, mostra quanto le parole di Zòsima sulla figura e la funzione del monaco siano necessarie e urgenti, affatto gratuite. D’accordo, ovunque c’è del marcio, perché la Danimarca è in fondo il mondo intero e l’intera storia del genere umano, ma è tanto più disgustoso quando contamina uomini che a Cristo, almeno in apparenza, hanno consacrato le loro esistenze (almeno il Grande Inquisitore, in questo senso, ha il coraggio, più che la sfrontatezza, di essere sincero e coerente, anche se non fino in fondo, non riuscendo davvero a bruciare Cristo). Dall’odio poi scaturisce la gioia, che brilla negli sguardi maligni e beffardi dei monaci e dei – presunti – fedeli ostili a Zòsima, il cui pensiero si può riassumere in questa frase pronunciata da un borghese, un impiegato religiosissimo secondo il parere comune e udita da padre Pàisij: «Il giudizio di Dio non è dunque uguale a quello degli uomini!» (340).

In realtà, la decomposizione che aggredisce immediatamente il cadavere di Zòsima non è espressione del giudizio divino, ma processo naturale. La natura rivendica con ferocia e brutalità se stessa dopo la morte di un uomo che non riconosce e non può riconoscere santo, ma uomo e basta, anzi, corpo e basta, mera materia destinata inesorabilmente al disfacimento. Non può non venire in mente il Cristo morto di Holbein, dipinto in cui la morte di Cristo è raffigurata con una spietatezza e una verosimiglianza impressionanti, crudeli, che colpiscono nel profondo l’osservatore.

Hans Holbein il Giovane, Il corpo di Cristo morto nella tomba, 1521.

Nell’Idiota Rogòžin ha in casa una copia del sorprendente e inedito quadro, dinanzi al quale il principe Myškin esclama che, osservandolo, «c’è da perdere ogni fede». «E infatti si perde», conferma Rogòžin [28]. Nello stesso romanzo torna sul dipinto Ippolìt, che ne parla nella sua Indispensabile spiegazione:

«Normalmente, gli artisti che affrontano questo soggetto fanno in modo di dare a Cristo un viso bellissimo: un viso che gli orrendi supplizi non sono riusciti a deformare. Invece, nel quadro di Rogòžin, si vede il cadavere di un uomo che è stato straziato prima di essere crocifisso, un uomo percosso dalle guardie e dalla folla, che è stramazzato sotto il peso della croce e che ha sofferto per sei ore (secondo il mio calcolo) prima di morire. Il viso dipinto in quel quadro è proprio quello di un uomo appena tolto dalla croce; non è irrigidito dalla morte ma è ancora caldo e, starei per dire, vitale. La sua espressione è quella di chi sta ancora sentendo il dolore patito. Un viso di un realismo spietato. Io so che, secondo la Chiesa, fin dai primi secoli, Cristo, fattosi uomo, soffrì realmente come un uomo e che il suo corpo fu soggetto a tutte le leggi della natura. Il viso del quadro è gonfio e sanguinolento; gli occhi dilatati e vitrei. Ma, nel contemplarlo, si pensa: “Se gli Apostoli, le donne che stavano presso la croce, i fedeli, gli adoratori e tutti gli altri videro il corpo di Cristo in quello stato, come potevano credere all’imminente resurrezione? Se le leggi della natura sono così potenti, come farebbe l’uomo a dominarle quando la loro prima vittima è stato proprio Colui che, da vivo, impartiva i suoi ordini alla stessa natura, Colui che disse: ‘Talitha cumi!’, e la bambina morta resuscitò; Colui che esclamò: ‘Alzati e cammina!’, e Lazzaro, che era già morto, uscì fuori dal suo sepolcro?”. Guardando quel quadro, si è presi dall’idea che la natura non sia altro che un mostro enorme, muto, inesorabile, una macchina immensa ma sorda e insensibile, capace di afferrare, lacerare, schiacciare e assorbire nelle sue viscere un Essere che, da solo, valeva come la natura intera con tutte le sue leggi e tutta la terra che, forse, fu creata solo perché potesse nascere quell’uomo! Il quadro dà proprio l’impressione di questa forza cieca, crudele, stupida, alla quale tutto è fatalmente soggetto. Dentro di esso, non c’è nessuno fra quelli che erano soliti seguire Gesù. In quella sera, una sera che annientava tutte le loro speranze e forse anche tutta la loro fede, coloro che seguivano Gesù dovettero provare un’angoscia senza nome. Atterriti, si dileguarono, sostenuti soltanto da una grande idea, un’idea che nessuno avrebbe più potuto togliergli o cancellargli: se il Maestro, alla vigilia del supplizio, avesse potuto vedere la propria immagine, sarebbe salito lo stesso sulla croce? Sarebbe morto nel modo in cui morì?» [29].

Sulla stessa scia Kirìllov, nei Demòni:

«Ascolta una grande idea: c’era un certo giorno sulla terra, e in mezzo alla terra stavano tre croci. Un uomo sulla croce credeva a tal punto che disse a un altro: “Oggi sarai con me in paradiso.” Il giorno finì, entrambi morirono, se ne andarono e non trovarono né paradiso, né resurrezione. Non si avverò quel ch’era stato detto. Ascolta bene: quell’uomo era il più grande che mai fu al mondo, diede al mondo una ragione di vita. Tutto il pianeta, con tutto quello che c’è sopra, senza quell’uomo, è pura follia. Non c’è stato prima, e non c’è stato dopo un uomo come quello, mai, ha persino del miracoloso. È davvero un miracolo che non ci sia mai stato e non ci sarà mai uno come Lui. Se è così, se le leggi della natura non hanno risparmiato neanche Lui, non hanno risparmiato neanche il proprio miracolo, costringendolo a vivere nella menzogna e a morire per una menzogna, ne deriva che tutto il pianeta è menzogna e si regge sulla menzogna, su una stupida presa in giro. Quindi anche le leggi del pianeta sono menzogna, sono un diabolico vaudeville. Perché allora vivere, rispondimi, se sei un uomo?» [30].

Commenta Pacini: «La minaccia più terribile per la fede, per Dostoevskij, è rappresentata dalla coscienza della forza anonima e implacabile della necessità, il Lògos che, secondo Eraclito, domina il mondo, la Natura che crea e distrugge, e che si presenta a Ippolìt nel suo incubo sotto l’aspetto di uno schifoso rettile» [31]. La natura dunque va ad aggiungersi alle assurde e insensate sofferenze dei bambini – argomento utilizzato da Ivàn a sostegno del suo rifiuto di Dio e del senso del mondo creato da Dio – quale minaccia della fede. Dostoevskij stesso dubita, fino all’ultimo dei suoi giorni, ma, pur comprendendone a fondo le ragioni, portandole dentro di sé, parte integrante della sua persona, non cede mai alla negazione. Perché il suo «Credo» trascende ogni legge, naturale e scientifica, dimostrandosi più forte della stessa verità. In questo suo irresistibile, irriducibile ardore religioso, lo stàrec Zòsima è il personaggio, non solo dei Fratelli Karamazov, ma dell’intera opera di Dostoevskij, che più e meglio di ogni altro incarna l’ideale cristiano dello scrittore russo. Zòsima, «cristiano puro e ideale», concreta e reale risposta a e confutazione di Ivàn e del suo pensiero distruttivo e anarchico.

VII.VII. Il monaco

Della lotta al socialismo, all’ateismo, al nichilismo, all’anarchia e alla distruzione Dostoevskij fa la sua missione di scrittore civile. A tutte queste componenti sociali e filosofiche negative, racchiuse nell’immagine del sottosuolo, egli contrappone Cristo, supremo ideale umano. Ma questo polo positivo del pensiero di Dostoevskij come si traduce nella pratica esistenziale? Nella figura del monaco, al di là del ruolo religioso, come stile di vita e di pensiero – perché «i monaci non sono diversi dagli altri, semplicemente sono come tutti gli uomini dovrebbero essere» -, per come lo descrive Zòsima:

«Si ride dell’obbedienza, del digiuno e della preghiera, ma intanto è proprio questo il solo percorso che conduca alla vera, schietta libertà: io estirpo da me i bisogni superficiali e inutili, domo e flagello la mia volontà egoista e orgogliosa con l’obbedienza, e raggiungo così, con l’aiuto di Dio, la libertà dello spirito, e con essa anche la felicità spirituale!» (322).

Libero «dalla tirannia delle cose e delle abitudini», da quella schiavitù del superfluo in cui noi oggi anneghiamo senza neppure rendercene conto, il monaco torna a una dimensione esistenziale autentica, a un’adeguata affermazione d’individualità, rovesciando la definizione di rettorica di Michelstaedter, al possesso presente della propria vita, ricorrendo ancora al filosofo goriziano e al suo concetto di persuasione. Per questo motivo Zòsima ordina ad Alëša, suo prediletto discepolo, di uscire sì dalle mura del monastero, ma di soggiornare nel mondo proprio come un monaco. Alëša, nelle intenzioni di Dostoevskij, avrebbe poi dovuto prendere tutta un’altra strada, opposta a quella indicatagli da Zòsima. Un tradimento, di cui è spia la trascrizione da parte di Alëša dell’ultima conversazione dello stàrec, accogliendo la distinzione michelstaedteriana tra parola scritta e parola parlata:

«La “persuasione”, secondo Michelstaedter, deve […] dialogare con il “se stesso” preso individualmente – questa l’unica dialettica per lui accettabile. Nell’Appendice V, il goriziano riprende le argomentazioni del Fedro contro l’orazione scritta, per affermare la necessità di una parola che non si limiti al dibattito dell’opinione, ma esprima la realtà profonda di un “incontro” (come nel caso degli amici Rico e Nino). Ci vuole, insomma, una confidenza totale con l’altro, perché scocchi la scintilla della “parola intima”. La distinzione tra incontro e relazione, per altro, non è dimostrabile perché – se Michelstaedter vuol essere coerente con i suoi presupposti – il momento magico (e miracoloso assai) del contatto spirituale può essere soltanto vissuto; ma non può essere riprodotto, pena l’involgarirsi. Platone che trascrive Socrate, già comincia a tradirlo» [32].

La stessa cosa vale per Cristo e gli apostoli, dalla cui trascrizione delle parole inizia quel processo di traviamento del messaggio cristiano culminante nel cattolicesimo romano. Socrate-Platone-Aristotele, Cristo-Apostoli-Chiesa, in un progressivo processo di degradazione della persuasione inaugurato dalla scrittura. Ivàn Karamazov lo sa, e infatti non trascrive Il Grande Inquisitore, ma lo conserva nella memoria, raccontandolo e non leggendolo ad Alëša, trasmettendone al fratello minore il messaggio nichilistico e distruttivo con un’efficacia di cui, purtroppo, non conosceremo mai nel particolare gli effetti devastanti, ma in generale sì, con Alëša che, secondo il progetto di Dostoevskij, avrebbe dovuto spingersi là dove nessun personaggio dostoevskiano si è mai spinto. Ma dove non arriva la letteratura arriva la realtà, a conferma dell’impressionante forza profetica di Dostoevskij.

NOTE

[1] Per un approfondimento sul secondo dei fratelli Karamazov rimando al capitolo quinto del presente contributo, Ivàn, il nichilista estremo – I-IVV-VIVII-IX.

[2] Per un approfondimento sul servo, assassino del vecchio Karamazov, rimando al capitolo sesto del presente contributo, Smerdjàkov, l’anima nera del romanzo.

[3] Per un approfondimento sul pensiero dello scrittore russo rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.

[4] Lettera a Ljubimov del 10 maggio 1879, in Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 154-155.

[5] Lettera a Pobedonoscev del 19 maggio 1879, ivi, pp. 156-157.

[6] Lettera a Ljubimov dell’11 giugno 1879, ivi, pp. 158-159.

[7] Lettera a Pobedonoscev del 24 agosto (13 settembre) 1879, ivi, p. 160.

[8] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 45. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[9] Lev Tolstoj, Padre Sergij, a cura di Igor Sibaldi, Feltrinelli, Milano 2015, p. 86. Per un approfondimento sul racconto rimando all’articolo Padre Sergij, oltre se stessi.

[10] Citato in Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, pp. 153-154.

[11] Sulla persuasione come dono, scrive Cacciari: «[…] la Persuasione si dà. Nessuno può afferrarla, nessuno può “comprehenderla”. Sarebbe un ente tra gli altri, se fosse “a portata di mano”. […] Nel perfetto persuaso si dà vita – ed egli può donarla: non ne discorre, non la “insegna” (Massimo Cacciari, La lotta “su” Platone. Michelstaedter e Nietzsche, in AA.VV., Eredità di Carlo Michelstaedter, Atti del Convegno internazionale di Studi su Michelstaedter. «Il coraggio dell’impossibile», Gorizia, 1-3 ottobre 1987, a cura di Silvio Cumpeta e Angela Michelis, Forum, Udine 2002, p. 103). Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

[12] «Egli compare in silenzio, furtivamente, ma ecco – cosa strana – che tutti Lo riconoscono. Spiegare perché Lo riconoscano, questo potrebbe essere uno dei passi più belli del poema. Il popolo è attratto verso di Lui da una forza irresistibile, Lo circonda, accorre sempre più numeroso, Lo segue» (260).

[13] Per un approfondimento sul romanzo rimando agli articoli Dostoevskij e l’esperienza di vita della katorga: lettura delle «Memorie di una casa morta». IntroduzioneDostoevskij e l’esperienza di vita della katorga: lettura delle «Memorie di una casa morta». Prima parteDostoevskij e l’esperienza di vita della katorga: lettura delle «Memorie di una casa morta». Seconda parte.

[14] Per un approfondimento sul maggiore dei fratelli Karamazov rimando al capitolo secondo del presente contributo: Mìtja, una candela che brucia da entrambi i lati.

[15] Per un approfondimento sulla fidanzata di Mìtja rimando al capitolo terzo del presente contributo: L’orgogliosa Kàtja.

[16] Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Giovanni Buttafava, BUR, Milano 2006, p. 772.

[17] Eraldo Affinati, Il peso dell’altro ne I fratelli Karamazov, in Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 12.

[18] Fëdor Dostoevskij, I demoni, cit., pp. 284-285. Per un approfondimento sul personaggio rimando all’articolo Aleksèj Niljč Kirillov, l’Uomo-Dio.

[19] Ivi, p. 746.

[20] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, cit., pp. 163-164.

[21] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 88.

[22] Per un approfondimento sul pensatore tedesco e la sua filosofia anarchico-egoistica rimando all’articolo Max Stirner, L’unico e la sua proprietà.

[23] Per un approfondimento sull’opera rimando agli articoli Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parteDostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Seconda parte.

[24] Per un approfondimento su Raskòl’nikov e il romanzo di cui è protagonista rimando all’articolo Delitto e castigo, dalla dialettica alla vita.

[25] Per un approfondimento sul protagonista dell’Adolescente rimando al contributo Personaggi e temi dell’«Adolescente» di Dostoevskij. Capitolo secondo – L’idea di Arkadij.

[26] Thomas Mann, La montagna incantata, traduzione di Ervino Pocar, Corbaccio, Milano 1992, pp. 588-599. Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo L’evoluzione di Hans Castorp ne La montagna incantata di Thomas Mann.

[27] Per un approfondimento sul personaggio di Mefistofele e sull’opera di Goethe in generale rimando all’articolo Alcune superflue considerazioni sul monumentale Faust di Goethe.

[28] Fëdor Dostoevskij, L’idiota, traduzione di Federigo Verdinois, in Id., Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 725. Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo L’idiota, il fallimento della bellezza.

[29] Ivi, p. 842.

[30] Fëdor Dostoevskij, I demoni, cit., pp. 673-674.

[31] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, cit., p. 67.

[32] Francesco Muzzioli, Michelstaedter, Milella, Lecce 1987, pp. 56-57.

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