V.VII. Gli assassini
Mìtja viene condannato a vent’anni di lavori forzati nell’inospitale Siberia per l’omicidio di suo padre, senza che gli venga concessa neppure un’attenuante. Ma non è lui l’assassino di Fëdor Pàvlovič, Mìtja non è che la vittima del più celebre errore giudiziario della storia della letteratura. I colpevoli della morte del vecchio Karamazov sono altri, e resteranno impuniti, almeno per quanto riguarda la giustizia umana: Smerdjàkov, l’assassino materiale, e Ivàn, l’assassino morale [1]. La sua fondamentale, nichilistica, anarchica, distruttiva idea del tutto è permesso sfocia nel suo esito ultimo, più estremo, il delitto, e senza che egli se ne renda effettivamente conto. Della propria innegabile e terribile responsabilità Ivàn viene a conoscenza progressivamente, nel corso di tre colloqui con il diabolico servo dal «viso avvizzito da eunuco», il primo in ospedale, dove questi è stato ricoverato dopo il fortissimo attacco di epilessia – dapprima simulato, poi reale -, il secondo e il terzo in una claustrofobica e asfissiante – kafkiana – stanzetta all’interno di una piccola e decrepita casupola di legno: «Le pareti erano foderate di un parato azzurro, piuttosto lacero in realtà, sotto il quale, nelle fessure, brulicavano scarafaggi a non finire, provocando un continuo fruscio» [2]. E questo ininterrotto fruscio è l’inquietante sottofondo, il macabro accompagnamento “musicale” degli ultimi due colloqui tra Ivàn e Smerdjàkov, sinistro elemento demoniaco, perché, come ricorda Thomas Mann, il diavolo «è il “Signore” degli insetti, dei ratti, dei topi, delle mosche, delle rane, delle cimici, dei pidocchi», e «questo dominio sulla parte meno appetibile del creato, questa sua simpatia per essa, non esprimono altro che la sua negazione appunto del creato e in genere della vita, il suo nichilismo» [3]. E il tacito, per metà inconscio patto tra Ivàn e Smerdjàkov è sancito proprio all’insegna della negazione, del creato e della vita, del nichilismo insomma. Tralasciando il primo incontro tra i due, soffermiamoci subito sul secondo. Ivàn desidera la morte del padre, per ricevere la cospicua eredità, sbarazzarsi di Mìtja e legarsi a Kàtja, ed è proprio questo desiderio che Smerdjàkov spiega di aver colto: «Pensai che certamente non sareste stato capace di uccidere, né volevate farlo, ma che avreste potuto desiderare che qualcun altro uccidesse» (600). E lasciando Skotoprigònevsk Ivàn autorizza il servo a mettere in pratica il suo diabolico e sanguinoso piano: «se vi aspettavate qualcosa da me e nello stesso tempo vi allontanavate, era come dirmi: puoi ammazzare mio padre, io non farò niente per impedirtelo» (601). Ivàn nega con forza, si oppone digrignando i denti – come farà contro la sua allucinazione -, ma Smerdjàkov lo incalza, implacabile, prendendosi gioco di lui, diabolicamente vendicativo – uccidendo Fëdor Pàvlovič il servo si vendica dell’intera famiglia Karamazov, direttamente e indirettamente, vendicandosi infine anche di se stesso -:
«Come potete dire di no? Perché allora, quando vi dissi quelle parole, non compiste il vostro dovere di figlio, e non mi conduceste immediatamente all’ufficio di polizia e non mi bastonaste… o quantomeno avreste dovuto spaccarmi la faccia sul posto, e voi invece, scusate, non vi arrabbiaste affatto, ma seguiste subito docilmente il mio stupido consiglio e partiste, cosa che era proprio senza alcuna logica, perché avreste dovuto rimanere per difendere la vita di vostro padre… Cosa avrei dovuto pensare?» (601).
Al termine di questo secondo colloquio, in cui comunque non emerge ancora nessuna prova effettiva che confermi concretamente le parole di Smerdjàkov, Ivàn confessa apertamente a se stesso che l’omicidio del padre era davvero ciò che si aspettava, ciò che desiderava, e corre dall’amata Kàtja, alla quale racconta tutto e rivela i suoi tormenti: «Se fosse stato Smerdjàkov ad uccidere, e non Dmìtrij, senza dubbio io sarei suo complice, perché l’ho istigato. Se l’abbia istigato ancora non so. Ma, se non è stato Dmìtrij che ha ucciso, ma lui, allora anch’io sono un assassino» (602). Kàtja, che ama Ivàn ma è troppo orgogliosa per legarsi a un altro uomo – se lasciasse Mìtja tradirebbe la sua artificiosa e tutta esteriore missione sacrificale [4] -, lo rassicura mostrandogli la lettera che inchioda il fratello. Ivàn continua tuttavia a ritenersi un assassino per aver desiderato la morte del padre, e tale lo definisce apertamente Smerdjàkov durante il loro terzo e ultimo colloquio, proprio alla vigilia della prima udienza del processo, l’incessante e sinistro fruscio degli scarafaggi irrequieti nascosti sotto il lacero parato azzurro sottofondo:
«Voi avete ucciso, voi siete il responsabile principale, io non sono stato che il vostro braccio, il vostro fedele servitore Ličarda, ed ho agito seguendo le vostre indicazioni» (607-608).
Questa volta Smerdjàkov non si limita alle parole, ma, a sostegno di esse, mostra quella prova decisiva, inconfutabile, senza la quale Ivàn non gli avrebbe mai fino in fondo creduto: il servo tira fuori dalle calze i tremila rubli rubati a Fëdor Pàvlovič dopo averlo assassinato, dopo avergli fracassato il cranio a colpi di fermacarte. Ivàn è frastornato e Smerdjàkov non perde l’occasione per prendersi gioco di lui, di nuovo, come il Mefistofele di Goethe non perde occasione per prendersi gioco di Faust, di beffarlo, fino all’ultima, estrema canzonatura della sepoltura – tutti nei Fratelli Karamazov odiano, se stessi e gli altri, ma il servo è colui che odia più di tutti, come mostra chiaramente il delitto e il modo in cui è stato congeniato; è lui la vera anima nera del romanzo -:
«È con voi, solo con voi che ho ucciso, Dmìtrij Fëdorovič è innocente. […] Allora eravate tanto spavaldo, “tutto è permesso”, dicevate, e ora come siete spaventato!» (609).
Tutto è permesso… Nel corso della sua vita Dostoevskij ha mostrato la forza spesso devastante delle parole, che non restano mai solo parole, ma trovano sempre una loro concretizzazione pratica, consapevole, da Raskòl’nikov, che non si limita a teorizzare la sua distinzione tra uomini ordinari e uomini straordinari, tra pidocchi e Napoleoni, uccidendo due persone [5], ad Arkadij, che lavora su se stesso con impegno cenobitico per diventare un Rothschild [6], passando per Kirìllov, che dichiara: «Per tutta la vita ho voluto che non fossero solo parole. Ho vissuto proprio perché volevo questo, sempre. Anche adesso ogni giorno, voglio che non siano solo parole» [7], e si spara mettendo in pratica la sua filosofia del suicidio, o inconsapevole, come nel caso di Ivàn. La parola richiede una responsabilità pari a quella dell’azione – cosa che noi oggi, in balia della rettorica più becera, abbiamo colpevolmente dimenticato -, se non addirittura superiore, poiché la seconda si configura sempre come una conseguenza della prima. Un aspetto evidenziato dallo stàrec Zòsima, in relazione agli influssi negativi, nefasti che un adulto può avere su un bambino, senza neppure rendersene conto: «Ecco, tu sei passato accanto a un bambino piccolo, sei passato irritato, pronunciando una brutta parola, con l’anima piena di rabbia; tu non l’hai forse neanche notato, ma il bambino ti ha veduto e la tua immagine, ripugnante e maligna, forse è rimasta nel suo cuore indifeso. Tu non lo sai nemmeno, ma può darsi che con ciò tu abbia già gettato un seme cattivo, che forse crescerà, e questo perché non ti sei dominato davanti a lui, perché non hai coltivato in te un amore vigile, attivo» (327). Insomma, se non si ha nulla di positivo, di buono da dire, meglio tacere. Così Ivàn con le sue parole, accolte e messe in pratica da Smerdjàkov, produce la tragedia. Non solo, con il suo nichilismo finirà per traviare anche Alëša, come vedremo nel capitolo a lui dedicato. Intanto alle accuse di Smerdjàkov Ivàn reagisce con veemenza, dichiarando di voler confessare tutto, l’indomani, in tribunale:
«Ascolta, miserabile, essere spregevole! Non hai ancora capito che se fino adesso non ti ho ammazzato, è solo perché mi servi per rispondere domani in tribunale? Dio vede (Ivàn alzò una mano al cielo), anch’io forse sono colpevole, forse è vero che ho desiderato intimamente che… mio padre morisse, ma ti giuro che non ho tutte le colpe che mi attribuisci, e forse non ti ho neanche davvero istigato. No, io non ti ho istigato! Ma non è questo ora che importa, domani all’udienza, riconoscerò pubblicamente le mie responsabilità, ho deciso! Dirò tutto, tutto. E tu verrai con me! Accetterò qualunque cosa tu dica contro di me, qualunque dichiarazione tu faccia; non avrò paura di te; sarò io stesso a confermare tutto! Ma anche tu dovrai confessare davanti ai giudici! Lo devi fare, devi, ci presenteremo insieme! E così sarà!» (615).
Smerdjàkov non crede alle enfatiche minacce di Ivàn, troppo intelligente, troppo amante del denaro, del rispetto, della bellezza femminile e dell’agio per infangarsi pubblicamente da sé in tribunale, troppo simile a suo padre, il lussurioso buffone, per farlo. Il servo rivela così un lato di Ivàn, meramente materiale, meramente sensuale, che nel romanzo non riesce mai a manifestarsi con chiarezza, sovrastato dalla dimensione intellettuale, decisamente prevalente. Ma, a dispetto delle parole irriverenti e svalutanti di Smerdjàkov, Ivàn sente davvero sorgere dentro di sé, per la prima volta, un uomo nuovo, deciso a confessare pubblicamente tutto, a riconoscersi pubblicamente colpevole:
«C’era ancora la tempesta. S’incamminò con sicurezza, ma a un tratto sentì che le forze gli mancavano. “È una reazione fisica”, pensò sorridendo. Fu colto da una gioia improvvisa, e sentì nascere dentro di sé una forza incrollabile; i dubbi che l’avevano tormentato negli ultimi tempi, erano svaniti! Aveva preso la sua decisione “e non sarebbe più tornato indietro”, pensò soddisfatto. In quell’istante inciampò su qualcosa che lo fece quasi cadere. Fermatosi, riconobbe ai suoi piedi il contadino che aveva spinto a terra, ancora disteso nello stesso posto, immobile e privo di sensi. Aveva il viso quasi completamente coperto di neve. Ivàn lo tirò su e se lo caricò sulle spalle. Avendo visto luce in una casetta alla sua destra, si avvicinò, bussò alle finestre e, quando sentì la voce del padrone di casa che gli rispondeva lo pregò di aiutarlo a trasportare il contadino al posto di polizia, promettendogli tre rubli di ricompensa. Il proprietario si vestì e uscì. Non starò ora a descrivere nei particolari come Ivàn Fëdorovič riuscì nel suo intento di far accogliere il contadino al posto di polizia, e a farlo subito visitare da un dottore, accollandosi tutte le spese con generosità. Dirò soltanto che spese così quasi un’ora. Ma Ivàn Fëdorovič fu molto soddisfatto. I suoi pensieri si disperdevano per poi rimettersi insieme: “Se non fossi stato così risoluto nel prendere una decisione per domani”, riconobbe con gioia, “non avrei certo dato un’ora del mio tempo per quel contadino, sarei passato oltre, senza considerare che avrebbe corso il rischio di morire di freddo… Ma dove ho trovato la forza per guardarmi dentro?”, pensò nello stesso momento con un piacere anche maggiore: “E c’è chi pensa che io stia diventando pazzo!”» (617).
Ma dura poco, troppo poco, perché la malattia psichica di cui è vittima Ivàn lo aggredisce con una tale forza da metterlo faccia a faccia con il suo doppio – sì, in prossimità della fine dei Fratelli Karamazov, Ivàn finisce per sdoppiarsi davvero (l’unico tra tutti i personaggi del romanzo), e in colui la cui sinistra presenza, il cui nome terribile si sono insinuati già diverse volte nel corso di questo capitolo: il diavolo.
V.VIII. Il diavolo
Alla diabolica allucinazione, naturale conseguenza del «disordine mentale» che lo affligge e che è stato certamente acuito, aggravato dalla confessione di Smerdjàkov e dunque dalla conferma della sua colpevolezza morale [8], Ivàn si oppone con tutte le forze, rinfacciando più volte al diavolo come egli sia nient’altro che una creazione della sua mente in subbuglio (lo stesso farà Adrian Leverkühn nel Doctor Faustus di Mann [9]):
«Ci sono momenti in cui non ti vedo e non ti sento, ma intuisco sempre quello che vai cianciando, perché sono io, io stesso che parlo, e non tu!» (620); «Tu sei un inganno, sei la mia malattia, uno spettro. Il fatto è che non so come annientarti e mi toccherà sopportarti per qualche tempo. Tu sei una mia allucinazione. Sei l’incarnazione di me stesso, ma solo di una parte di me… dei miei pensieri, dei miei sentimenti, di quelli vili e inutili» (620); «Insultandoti, insulto me stesso! […] tu sei me, ma con un’altra faccia. Dici le stesse cose che io penso… e non sei in grado di dire niente di nuovo!» (621).
Ivàn si oppone, ma ormai è tardi, la sua mente è troppo sconvolta perché si possano far tornare le cose a posto con un semplice no. Ivàn è costretto a misurarsi con quella che considera la parte peggiore di se stesso, e il risultato è un altro momento di grande letteratura, secondo solo, nei Fratelli Karamazov, al Grande Inquisitore. Il diavolo di Ivàn si presenta come un «parassita di lusso», dall’«apparenza elegante», ma dalla «sostanza misera», ed è singolare il suo più grande desiderio, ovvero il più grande desiderio di Ivàn, o almeno di una parte – la peggiore – di esso, perché quando parliamo dell’uno parliamo anche dell’altro:
«Il mio più grande desiderio è d’incarnarmi, ma per sempre, senza più tornare indietro, in una grassa mercantessa che pesi più di un quintale, e di avere le sue stesse convinzioni. Il mio sogno è andare in chiesa e accendere una candela con devozione sincera, quant’è vero Iddio. I miei tormenti allora svanirebbero» (622).
Il conflitto tra affermazione e negazione che divide, lacera, spacca Ivàn conducendolo fino a questo punto, di massima crisi psichica, di follia, si riflette anche nella sua diabolica allucinazione, lei stessa tormentata dai dubbi, perché alla fine, «seppure si potesse provare l’esistenza del diavolo, questa dimostrerebbe forse l’esistenza di Dio?» (620). No, ormai non più. Eppure, nonostante i dubbi e l’aspirazione all’autodistruzione – altro tratto peculiarmente ivaniano -, il diavolo svolge una determinata funzione nel mondo, che spiega egli stesso, rivelando così la sua indispensabilità:
«Mi hanno scelto come capro espiatorio, mi hanno obbligato a oppormi, e la vita ha avuto inizio. Noi la comprendiamo questa messa in scena: io, per esempio, aspiro solamente alla mia autodistruzione. No, mi viene ordinato, resta in vita perché senza di te nulla durerebbe. Se tutto sulla terra fosse frutto della razionalità, nulla accadrebbe mai. Senza di te non ci sarebbero mutamenti; invece sono necessari. Così eccomi qua, impegnato a contravvenire, a provocare cambiamenti, e a realizzare cose irragionevoli a comando. Gli uomini, con tutta la loro innegabile intelligenza, scambiano questa messa in scena per una cosa seria. Questa è la tragedia. Certo, soffrono, ma… Il rovescio della medaglia è vivere, vivere una vita concreta e non fantastica; soffrire infatti è vivere. Senza dolore, come potrebbe esistere il piacere? Tutto si trasformerebbe in un interminabile Te Deum: una vita da santi sì, ma che noia! E io allora? Io sono come un fantasma che ha perso la cognizione della realtà, e alla fine ha dimenticato anche il suo nome. Tu ridi… ma non stai ridendo, ti sei arrabbiato ancora. Ti arrabbi sempre, solo lo spirito ti interessa, e invece, ti ripeto, rinuncerei alla mia vita negli spazi, a tutti i miei titoli e onori, solo per incarnarmi in una mercantessa pesante più di un quintale e per accendere candele votive a Dio» (625).
In questa paradossale – come paradossali sono le tesi sostenute dal Grande Inquisitore – spiegazione del diavolo relativa alla sua funzione nel mondo, comprendiamo perché Ivàn lo consideri l’incarnazione della parte peggiore di se stesso: per la sua attenzione alla dimensione esclusivamente materiale, sensuale della vita, secondo il punto di vista di Fëdor Pàvlovič [10], di cui Ivàn, ricordando l’illuminante giudizio di Smerdjàkov, ripreso poi da Ippolìt Kirìllovič nella parte introduttiva della sua arringa, dedicata allo studio dei caratteri, è il più simile dei figli. Ecco così che il conflitto interiore che strazia Ivàn si arricchisce di un ulteriore motivo, oltre alla suprema opposizione tra l’affermazione e la negazione di Dio: l’opposizione tra la spiritualità e la sensualità, con la prima che rientra nell’ambito affermativo, la seconda in quello negativo, naturalmente. Ed è proprio dal prevalere della materialità e della sensualità che scaturisce la tragedia, il desiderio della morte del padre, realizzato da Smerdjàkov, alimentato dalla volontà di ricevere la cospicua eredità paterna, sbarazzarsi di Mìtja e conquistare Kàtja.
Oltre a ciò, dall’irriverente e dispettoso diavolo veniamo a sapere che Ivàn, oltre al Grande Inquisitore, ha concepito un’altra leggenda, quando aveva appena diciassette anni, la leggenda del pensatore che negava ogni cosa:
«È una leggenda sul paradiso. Si racconta che qui, sulla terra, vivesse un certo pensatore e filosofo che “negava ogni cosa: le leggi, la coscienza, la fede”, e soprattutto l’aldilà. Quando giunse la sua ora, era sicuro di entrare nell’oscurità del nulla, ed ecco che gli apparve davanti la vita eterna. Si stupì e s’indignò: “Tutto questo”, disse, “non rientra nelle mie convinzioni”. E per ciò fu condannato […] a camminare per un quadrilione di chilometri […]; solo alla fine del suo cammino, gli avrebbero concesso il perdono e le porte del paradiso si sarebbero aperte.
[…] il condannato al quadrilione si fermò, guardò in giro e si allungò di traverso sulla strada: “Non ho nessuna intenzione di camminare, per principio non camminerò!”. Prendi l’anima di un russo non credente e istruito, e combinala con quella del profeta Giona, che per tre giorni e tre notti fece il broncio nel ventre della balena, e otterrai il carattere di quel pensatore che si stendeva sulla strada.
[…] Rimase coricato più o meno per mille anni, poi si alzò e prese a camminare.
[…] Appena gli fu aperto il paradiso ed egli vi si fiondò, prima ancora che fossero trascorsi due secondi, due secondi di orologio […], esclamò che, anche solo per quei due secondi, valeva la pena fare non solo un quadrilione di chilometri, ma un quadrilione di quadrilioni, elevato per giunta alla quadrimilionesima potenza! Insomma, cantò “osanna” in modo così esagerato, che gli altri uomini di pensiero un po’ più dignitosi che si trovavano là, all’inizio non si degnavano neanche di rivolgergli il saluto: troppo immediato era stato il suo voltafaccia. È l’indole russa» (626-628).
Ivàn stesso nel suo intimo, nonostante la proclamazione della distruzione, dell’anarchia, dell’estremo rifiuto di Dio e, ancor più di Dio, del senso del mondo da lui creato, brama quei due secondi, quella pace che gli è del tutto sconosciuta. Sì, oltre alla morte del padre Ivàn desidera anche la fede, la salvezza, e di ripercorrere, ma a fasi invertite, il percorso del Grande Inquisitore: non dal deserto alla negazione, ma dalla negazione al deserto:
«[…] i dubbi, l’insicurezza, la lotta della fede contro l’incertezza sono alle volte, per un uomo profondo come te, una tale tortura che è meglio cessare di vivere. Proprio perché so di quel millesimo della tua fede ho voluto spingerti definitivamente tra le braccia dello scetticismo, raccontandoti quella storia. Ti faccio passare alternativamente dalla fede allo scetticismo, e lo faccio con uno scopo preciso. È un metodo nuovo: quando avrai smesso completamente di credere in me, prenderai subito a garantirmi che io non sono un sogno, ma che esisto realmente; ti conosco. Sarà allora che avrò ottenuto il mio risultato. E il mio è un fine nobile. Seminerà in te un solo minuscolo granello di fede, ma ne crescerà una quercia, e una quercia così frondosa che tu, standone alla sua ombra, desidererai raggiungere “i padri eremiti del deserto e le donne senza peccato”, perché questo è il tuo più grande e intimo desiderio: ti nutrirai di cavallette e andrai a far penitenza nel deserto» (628).
Trovare la fede e raggiungere gli anacoreti nel deserto e fare penitenza e cibarsi di cavallette: è questo il grande e intimo, profondo desiderio di Ivàn, più dell’incarnazione in una grassa mercantessa pesante più di un quintale. Desiderare che l’affermazione trionfi sulla negazione insomma, che la schiacci e si sviluppi nella sua forma più radicale, perché Ivàn, come tutti gli altri nichilisti dostoevskiani, non conosce compromessi, mezze misure, per lui tutto è bianco o nero, caldo o freddo, mai grigio o tiepido. Per lui, come per Raskòl’nikov, Svidrigàjlov, Kirìllov, Kraft si può dire ciò che Tichon dice a Stavrògin: «Voi non avete voluto essere soltanto tiepido» [11].
Quando si parla di diavoli in letteratura è inevitabile fare riferimento a colui che si impone come il diavolo per eccellenza, il più celebre, il più grande, di fatto ineguagliabile: il Mefistofele di Goethe, e il diavolo ivaniano lo fa da sé, dichiarando esattamente il contrario di ciò che dichiara Mefistofele in una battuta divenuta oramai proverbiale:
«Mefistofele, quando appare a Faust, dichiara di volere il male; e non fa che il bene. Liberissimo, ma per me vale proprio il contrario. Sono forse in tutto l’universo l’unico che ami la verità e desideri sinceramente il bene. Ero presente quando il Cristo morto sulla croce saliva al cielo, portando con sé l’anima del ladrone crocifisso alla sua destra, io potei sentire l’esultanza dei cherubini che cantavano e lodavano: “Osanna!” e la fragorosa contentezza dei serafini, che faceva tremare il cielo e tutto l’universo. Ebbene, ti giuro su quello che c’è di più sacro che anche a me venne il desiderio di unirmi al coro e di cantare con gli altri: “Osanna!”. Già questa lode mi sfuggiva, già mi sgorgava dal cuore… Tu lo sai, io sono molto sensibile, e impressionabile dalle cose artistiche. Ma il buon senso – la caratteristica più sciagurata della mia natura – anche quella volta mi frenò dall’uscire dai limiti, e mi fermai trattenendo il respiro! Infatti, che cosa sarebbe successo, pensai appena in tempo, se anch’io avessi gridato “osanna”? Tutto, nel mondo, sarebbe svanito, e non sarebbe successo più nulla. Fu così che, solamente per senso del dovere e per la mia posizione sociale, fui obbligato a soffocare un mio nobile impulso e a restare nell’infamia. Qualcuno si attribuisce tutto l’onore del bene e a me non resta che il disonore. Ma non invidio l’onore di vivere alle spalle degli altri, non nutro grandi ambizioni. Perché, tra gli abitatori del mondo, deve essere l’unico bersaglio delle maledizioni di tutta la gente perbene e persino dei loro calci, dovendo alle volte, quando assumo sembianze umane, accettare anche tali conseguenze? È ovvio che qui c’è un segreto, che non deve assolutamente essermi rivelato, perché se io arrivassi a capire di che cosa si tratta, potrei mettermi a cantare “osanna”, e allora subito il necessario lato oscuro sparirebbe e nel mondo intero dilagherebbe la ragione, ma sarebbe anche la fine di tutto, pensa ai giornali e alle riviste; chi vorrebbe più comprarle? Io so che in ultimo mi lascerò sottomettere, percorrerò anch’io il mio quadrilione e scoprirò il segreto. Ma finché questo non accadrà, continuerò a malincuore e di cattivo umore a svolgere la mia missione: far cadere migliaia di anime in cambio della salvezza di una sola. Quante anime, per esempio, si dovettero rovinare e quante buone reputazioni infangare per ottenere un solo giusto, Giobbe, per il quale io fui così spietatamente schernito, temporibus illis! No, finché non arriverò a conoscere il segreto, per me continueranno a esistere due verità: quella di lassù, la loro, che tutta ignoro, e la mia. Ancora non so quale sia la più vera…» (630-631).
Nel diavolo, ancora una volta, si riflette l’esigenza di fede propria di Ivàn – ne viene fuori un universo ribaltato, in cui un cardinale, il Grande Inquisitore, si dichiara dalla parte del diavolo, mentre questi confessa di aver avuto il desiderio di unirsi al coro dei cherubini durante l’ascesa di Cristo -, e questa, proprio questa si impone come la principale prova della sua inesistenza. Il diavolo reale, per come l’ha creato Goethe, simili parole le direbbe solo per scherno, perché egli è l’ultra-nichilista che anela nient’altro che alla distruzione: «Sono lo spirito che nega sempre. E con ragione: perché tutto quello che nasce è degno di finire in perdizione. E però meglio sarebbe che non nascesse nulla. Così è, che quanto voi chiamate peccato e distruzione e, in una parola, il male, è il mio proprio elemento» [12]. Così, per quanto Ivàn si imponga come l’ultimo, definitivo, estremo nichilista dostoevskiano, concepisce un diavolo meno definitivo ed estremo del Mefistofele di Goethe, modello ideale dell’ultra-nichilista, in quanto eterna incarnazione del male.
Grazie alle parole del diavolo abbiamo la possibilità di addentrarci ancora più in profondità nel pensiero di Ivàn e scoprire ulteriori aspetti, come il suo svolgimento kirilloviano:
«”Esiste gente moderna”, avevi concluso la scorsa primavera, mentre ti preparavi a venire qui, “che si ripromette di distruggere tutto e di ricominciare dall’antropofagia. Che stupidi, non hanno tenuto conto delle mie idee! Secondo me, l’unica cosa da eliminare radicalmente è l’idea di Dio nell’umanità; ecco da dove bisogna cominciare! È da qui, da qui che ci si deve muovere, o uomini incapaci di vedere e di capire! Una volta che tutta l’umanità avrà rinunciato a Dio (e io credo che questa era, come le diverse ere geologiche, un giorno arriverà), tutte le vecchie concezioni crolleranno da sé, senza bisogno di antropofagia, e per prima crollerà la vecchia morale, e tutto si rinnoverà. Gli uomini si raggrupperanno per appropriarsi di tutto quello che la vita può offrire, ma avendo come unico fine la gioia e la felicità di questo mondo. L’uomo si celebrerà in un orgoglio divino, titanico, e nascerà l’uomo-dio. Trionfando sempre e in ogni campo sulla natura, grazie alla sua volontà e alla sua scienza, l’uomo prenderà a godere in ogni istante di un piacere così sublime che sostituirà tutte le antiche speranze di ricompense ultraterrene. Tutti saranno consapevoli di essere definitivamente mortali, senza possibilità di resurrezione, e andranno incontro alla morte con sereno coraggio, come degli dèi. Per fierezza capiranno di non doversi lamentare perché la vita è breve, e ameranno il loro prossimo senza niente in cambio. L’amore nutrirà solo l’attimo della vita terrena, ma proprio la consapevolezza di questa sua fugacità ne raddoppierà l’ardore, mentre prima si diluiva nelle speranze di un amore oltre la morte e l’infinito…”, e avanti su questo tono. Delizioso!
[…] Il problema, diceva il mio giovane intellettuale, sta in questo: è possibile che possa un giorno vedere la luce una simile era? Se nascerà, tutto sarà definito e l’umanità si darà la sua forma definitiva. Ma siccome, vista la consolidata stupidità del genere umano, a tale forma non si arriverà nemmeno tra mille anni, così per tutti quelli che già oggi abbiano coscienza della verità è giusto comportarsi come più gli aggrada, seguendo i nuovi principi. In questo senso “tutto gli è permesso”. Ma non solo: se anche quell’epoca non dovesse consolidarsi mai, poiché in ogni caso Dio e l’immortalità non esistono, all’uomo nuovo sarà concesso di trasformarsi in uomo-dio (anche se fosse l’unico al mondo) e poi, è evidente, nella sua nuova condizione potrà, quando lo riterrà opportuno, abbattere a cuor leggero tutte le anacronistiche barriere morali dell’uomo-schiavo. Per Dio non c’è legge! Ovunque io vorrò piazzarmi, quello diventerà subito il posto più importante… “tutto è permesso” e basta!» (632).
Come Kirìllov, altro illustre nichilista dostoevskiano, filosoficamente meno estremo, secondo la concezione dello scrittore russo, ma più perfetto di Ivàn perché suicida, anche Karamazov concepisce l’idea dell’«uomo-dio», che rovescia quella cristiana di Dio-uomo. Inoltre, in questo passo ricco di echi filosofici, da Stirner [13] a Nietzsche, passando per Mainländer [14] – tutti annunciatori della morte di Dio e Stirner e Mainländer prima del ben più celebre e inflazionato e strumentalizzato Nietzsche -, scopriamo come l’estremo esito del pensiero ivaniano, ovvero la regola del «tutto è permesso», scaturisca da una visione utopica del mondo successiva al superamento della religione e della vecchia morale, rappresentandone in un certo senso un ripiegamento, frutto dell’irriducibile sfiducia nei confronti del genere umano e della convinzione della sua «consolidata stupidità» – la posizione propria del Grande Inquisitore, che la sviluppa però in senso esclusivamente autoritario -. Ancora un indizio del superamento di Ivàn del socialismo, in favore di un anarchismo individualistico di stampo stirneriano (lo stesso Kirìllov, pur nella sua nichilistica perfezione, non è affatto un misantropo, come Ivàn, e con la sua filosofia del suicidio punta a migliorare la condizione dell’intero genere umano).
L’allucinazione di Ivàn svanisce quando alla finestra bussa Alëša, che informa il fratello del suicidio di Smerdjàkov. L’estrema beffa del servo, il colpo di grazia definitivo alla salute mentale, di fatto già compromessa, di Ivàn. Se esisteva per lui ancora una possibilità, seppur minima, prossima allo zero, di ritrovare la ragione, la lucidità e la pace in termini più o meno brevi, essa svanisce nel nulla insieme con l’assassino materiale del vecchio Karamazov. E per il povero Mìtja, ragione a parte, è lo stesso [15].
V.IX. La deposizione
Ivàn comunica ad Alëša che del suicidio di Smerdjàkov lo aveva già informato il diavolo, poco prima del suo arrivo:
«[…] la tua speranza era che Smerdjàkov venisse riconosciuto colpevole e mandato in prigione, che Mìtja fosse prosciolto, e tu condannato solo moralmente […], mentre in molti ti avrebbero elogiato. E invece Smerdjàkov è morto, si è impiccato; adesso al processo chi mai potrà credere alle tue parole, a te solo» (636-637).
Ivàn è perfettamente consapevole del fatto che la morte del servo annulla il suo pubblico sacrificio, il suo nobile proposito di rivelare a tutti la verità e scagionare il fratello maggiore, ingiustamente accusato della morte del padre, eppure non rinuncia. Così Ivàn, chiamato a testimoniare dopo Grùšen’ka, entra nell’aula, sicuro, ma il suo aspetto è tutt’altro che rassicurante: ha un colorito «terreo», da «moribondo», e gli occhi «opachi». Alëša, vedendolo, scatta con un lamento, ma nessuno se ne cura. La catastrofe è inevitabile. Ivàn innanzitutto consegna i tremila rubli ricevuti il giorno precedente da Smerdjàkov e lo accusa dell’omicidio del padre, accusando subito anche se stesso:
«Lui ha ucciso, e io l’avevo istigato… Chi non desidera la morte del proprio padre?» (667).
Quindi, provocato dal presidente del tribunale, che gli domanda se abbia la testa a posto, Ivàn si scaglia contro il pubblico:
«Certo che è al suo posto… è una testa ignobile come la vostra, come quella di tutti questi brutti ceffi! […] È stato ucciso un padre, e fanno finta di esserne sconvolti […] Recitano la parte uno con l’altro. Gli ipocriti! Tutti desiderano la morte del padre. Un serpente divora l’altro… Se qui non ci fosse un parricidio, si indignerebbero e andrebbero via di pessimo umore… Che spettacolo! Panem et circenses! Del resto, non sono diverso io!» (667).
Ivàn, esasperato, si scaglia confusamente contro la società intervenuta in massa ad assistere al processo, alcuni presenti giunti persino da Mosca e Pietroburgo, contro quella spettacolarizzazione del dramma di cui noi oggi ci nutriamo ogni sacrosanto giorno. Panem et circenses, ancora, di nuovo, e oggi più di ieri. Alëša scatta di nuovo in piedi e grida di non dare retta a Ivàn, malato e delirante, ma nessuno ancora lo ferma. «State tranquilli, non sono pazzo, semplicemente sono un assassino!», ribatte l’intellettuale, che infine, al culmine del «disordine mentale», chiama a testimoniare il diavolo:
«Vede, Eccellenza, ha la coda, non sarebbe una cosa proprio regolare! Le diable n’existe point! Non fateci troppo caso, è un diavolo miserabile, da nulla, […] sicuramente ora è qui, in qualche angolo, magari sotto il banco dei corpi del reato; dove altro potrebbe trovarsi? Ascoltatemi, io gli ho detto: non voglio stare zitto, e lui mi parla di cataclismi geologici… stupidaggini! Su, scarcerate il mostro… ha cantato un inno, perché il suo cuore è leggero! Proprio come un ubriacone incallito, quando schiamazza che “se n’è andato Van’ka a Pìter”, mentre io, per un attimo di serenità, darei un quadrilione di quadrilioni. Voi non sapete niente di me! Tutto ciò è privo di senso! Prendete me al suo posto! Non sono venuto qui per niente… Perché, perché tutta la realtà è così insensata?» (667-668).
Il delirante sproloquio di Ivàn si conclude con una domanda terribile, la domanda del nichilista, che lo consuma come un tarlo e lo consumerà fino all’ultimo dei suoi giorni se incapace di approdare all’indifferenza. Ivàn viene trascinato fuori dall’aula a forza, mentre grida frasi sconnesse, incomprensibili. È questa l’ingloriosa, scandalosa, umiliante uscita di scena dell’illustre rampollo dell’intelligencija russa, dell’ultimo, definitivo, estremo nichilista dostoevskiano. Come il Mefistofele di Goethe, che, dopo aver beffato tante volte Faust, viene infine beffato dagli angeli che gli sottraggono quell’anima per la quale aveva tanto sudato, così Ivàn, dopo aver beffato tutto, Dio, il mondo, la società, viene infine beffato da se stesso, dalla sua mente sconvolta, offrendo a quel pubblico di stolti che tanto detesta uno spettacolo memorabile, impagabile, affondando definitivamente Mìtja. Non sapremo mai se egli un giorno ritroverà la salute e raggiungerà quell’istante di pace agognato più di ogni altra cosa, per il quale darebbe un quadrilione di quadrilioni, oppure se sprofonderà per sempre nella malattia, come il principe Myškin, come Nietzsche. Di certo sappiamo che il suo pensiero distruttivo e anarchico non resterà inascoltato, ma sarà accolto e messo in pratica proprio da colui che Ivàn voleva strappare allo stàrec Zòsima e condurre con sé sulla via dell’estremo nichilismo, verso l’oscurità del nulla.
NOTE
[1] Rimando subito ai paragrafi precedenti di questo capitolo: Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso. Capitolo quinto – Ivàn, il nichilista estremo – I-IV, Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso. Capitolo quinto – Ivàn, il nichilista estremo – V-VI.
[2] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 598. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[3] Thomas Mann, Sul «Faust» di Goethe, traduzione di A. Arzeni, in Johann Wolfgang Goethe, Faust, traduzione di G. Manacorda, BUR, Milano 2008, pp. XXXI-XXXII.
[4] Per un approfondimento sulla fidanzata di Mìtja rimando al capitolo terzo del presente contributo: L’orgogliosa Kàtja.
[5] Per un approfondimento su Raskòl’nikov e il romanzo di cui è protagonista rimando all’articolo Delitto e castigo, dalla dialettica alla vita.
[6] Per un approfondimento sul protagonista dell’Adolescente rimando al contributo Personaggi e temi dell’«Adolescente» di Dostoevskij. Capitolo secondo – L’idea di Arkadij.
[7] Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Giovanni Buttafava, BUR, Milano 2006, p. 670. Per un approfondimento sul personaggio rimando all’articolo Aleksèj Niljč Kirillov, l’Uomo-Dio.
[8] Dostoevskij stesso sottolinea con convinzione la verosimiglianza dell’episodio, cui tiene particolarmente nella sua missione civile di scrittore realista. Si legga ad esempio la lettera del 19 dicembre 1880 inviata a Blagonravov, medico che aveva confermato allo scrittore l’attendibilità scientifica dell’allucinazione di Ivàn: «Per il fatto che io predico Dio e il principio nazionale qui si sforzano in ogni modo di cancellarmi dalla faccia della terra. Per quel capitolo dei Karamazov (sull’allucinazione di Ivàn), di cui Lei, che è medico, è così soddisfatto, hanno già provato a farmi passare per un retrogrado e un fanatico che scrive ormai soltanto delle assurdità. Loro s’immaginano ingenuamente che tutti esclameranno scandalizzati: “Come, Dostoevskij si è messo a scrivere del diavolo? Oh, ma com’è triviale, com’è arretrato!” Ma mi sembra che non ci siano riusciti. Io sono molto grato a Lei, specialmente come medico, per il Suo giudizio sulla veridicità della mia rappresentazione della malattia psichica di cui soffre questo personaggio. L’opinione di un esperto mi sarà di sostegno, e Lei sarà d’accordo sul fatto che quest’uomo (Ivàn Karamazov), in quelle determinate circostanze, non poteva avere nessun’altra allucinazione se non proprio questa» (Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 164).
[9] Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo L’«arco vertiginoso» di Adrian Leverkühn nel Doctor Faustus di Thomas Mann.
[10] Per un approfondimento sul vecchio Karamazov rimando al capitolo primo del presente contributo: Fëdor Pàvlovič, un padre del nostro tempo.
[11] Fëdor Dostoevskij, I demoni, cit., p. 748. Per un approfondimento sul protagonista dei Demòni rimando agli articoli Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parte, Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Seconda parte.
[12] Johann Wolfgang Goethe, Faust, cit., p. 99. Per un approfondimento sull’opera rimando all’articolo Alcune superflue considerazioni sul monumentale Faust di Goethe.
[13] Per un approfondimento sul pensatore tedesco e la sua filosofia anarchico-egoistica rimando all’articolo Max Stirner, L’unico e la sua proprietà.
[14] Per un approfondimento sul pensatore tedesco e la sua filosofia del suicidio rimando all’articolo Philipp Mainländer, il suicidio come redenzione dall’esistenza.
[15] Per un approfondimento sul maggiore dei fratelli Karamazov rimando al capitolo secondo del presente contributo: Mìtja, una candela che brucia da entrambi i lati.