Cristo e il Grande Inquisitore in un'illustrazione di Il'ja Glazunov del 1985

Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso. Capitolo quinto – Ivàn, il nichilista estremo – V-VI

V.V. L’estremo rifiuto

Che Ivàn Karamazov si imponga come l’ultimo, definitivo, estremo nichilista dostoevskiano è lo stesso scrittore russo a dichiararlo, nell’appunto già citato in conclusione del precedente paragrafo [1] – che ricordo: «Neppure in Europa vi sono state, né vi sono, delle affermazioni ateistiche di tale forza» [2] – e nelle lettere, come quelle del 10 e del 19 maggio 1879 inviate rispettivamente a Ljubimov e Pobedonoscev, redattore del «Messaggero Russo» il primo, pubblicista, senatore e procuratore del Santo Sinodo il secondo:

«Questa quinta parte, secondo la mia concezione, deve costituire il punto culminante di tutto il romanzo e pertanto dev’essere portata a termine con cura particolare. L’idea che ne sta alla base […] è costituita dalla rappresentazione dell’estremo a cui può arrivare il sacrilegio e del nucleo dell’idea di distruzione caratteristica del nostro tempo in Russia nell’ambiente della gioventù estraniatasi dalla realtà […]. Nel testo che Le ho or ora inviato io rappresento soltanto il carattere di uno dei principali personaggi del romanzo che esprime le sue fondamentali convinzioni. Tali convinzioni sono appunto ciò che io considero una sintesi dell’attuale anarchismo russo. È la negazione non di Dio, bensì del senso del mondo da Lui creato. Tutto il socialismo è derivato e ha preso le mosse dalla negazione del senso della realtà storica per concludere con il programma della distruzione e dell’anarchia» [3]; «Ho trattato il rifiuto di Dio nella sua forma più estrema, almeno così come io stesso l’ho sentito e l’ho compreso, e cioè così come si manifesta nel momento attuale nella nostra Russia in tutto (o quasi) lo strato superiore della società: la negazione scientifica e filosofica dell’esistenza di Dio è stata ormai abbandonata, gli attuali socialisti attivi non se ne occupano più affatto (mentre invece se ne occupavano in tutto il secolo passato e nella prima metà di quello attuale); in compenso viene negata con tutte le forze la creazione divina, il mondo di Dio e il suo senso» [4].

Dunque Ivàn non nega Dio, ma il senso del mondo creato da Dio: è questo il punto centrale, davvero fondamentale, che permette al giovane intellettuale di imporsi come il nichilista ultimo, definitivo, estremo, e che nel romanzo trova nel seguente passo, da cui ho tratto la citazione posta in epigrafe a questo capitolo, l’esatta e definitiva formulazione:

«[…] cosa pensi che abbia intenzione di fare adesso con te? Che voglia spiegarti il più rapidamente possibile la mia essenza, e quindi che tipo d’uomo sono, cosa credo e cosa spero, è così, non è vero? Perciò ti dico semplicemente che io accetto l’esistenza di Dio. Ecco però ciò che va notato: se Dio esiste e ha davvero creato la terra, l’ha creata – come ci è perfettamente noto – secondo la geometria euclidea, e ha creato lo spirito umano dandogli soltanto il principio delle tre dimensioni dello spazio. Eppure si sono trovati e si trovano tuttora geometri e filosofi, anche tra i più illustri, i quali dubitano che l’intero universo o – per dirla con un termine più esteso – l’intero esistente sia stato creato solo in conformità con le leggi della geometria euclidea, e osano persino ipotizzare che due linee parallele, le quali – secondo Euclide – non possono assolutamente incontrarsi sulla terra, possano invece incontrarsi in qualche punto dell’infinito. Mio caro, io ho deciso che se non sono neanche in grado di comprendere questo, ancor meno potrei comprendere Dio. Confesso umilmente di non avere alcuna attitudine a risolvere tali problemi, io ho uno spirito euclideo, terrestre; e perciò come potremmo risolvere ciò che non è di questo mondo? Consiglio anche a te di non pensare mai a queste cose, mio Alëša, e tanto meno se Dio esista oppure no. Sono tutte questioni assolutamente inadeguate a uno spirito creato con la sola nozione delle tre dimensioni. Accetto dunque Dio, e non accetto volentieri solo Lui, ma anche la Sua saggezza e i Suoi fini, che ci sono del tutto ignoti; credo nell’ordine, nel senso della vita, credo nell’eterna armonia, in cui – si dice – dovremo tutti fonderci un giorno, credo nel Verbo, al quale tende l’universo e che era “presso Dio” ed è esso stesso Dio, ecc., e così via all’infinito. Molte parole sono state dette a tal proposito. Sembra dunque che io sia sulla buona strada, non credi? Eppure, pensa che in ultima analisi questo mondo di Dio non lo accetto, pur sapendo che esiste, anzi, non lo ammetto affatto. Non è Dio che non accetto, capisci, ma il mondo da Lui creato, è il mondo di Dio che non accetto e per quanto mi sforzi non riesco ad accettare. Mi spiego meglio: io sono convinto, alla stregua di un bimbo, che le sofferenze saranno sanate e cancellate; che tutta l’umiliante commedia delle contraddizioni umane dileguerà come un pietoso miraggio, come il deprecabile prodotto di un pensiero impotente e infinitamente piccolo, come un atomo dello spirito umano euclideo; che in ultimo, alla fine del mondo e nel momento dell’eterna armonia, si compirà e si rivelerà qualcosa di così prezioso che basterà per colmare tutti i cuori, per placare tutte le indignazioni, per riscattare tutti i misfatti umani, tutto il sangue da essi versato, basterà perché sia possibile non soltanto il perdono, ma anche la giustificazione di quanto è accaduto tra gli uomini. E sia, avvenga pure e si riveli tutto questo, io però non l’accetto e non lo voglio accettare! Si congiungano pure le parallele sotto il mio sguardo: io lo vedrò e dirò che si sono congiunte, ma tuttavia non l’accetterò. Eccoti il mio essere, Alëša, ecco la mia tesi» [5].

Secondo Dostoevskij non esiste una forma più estrema di rifiuto, e a sostegno della sua tesi Ivàn si serve, spiega lo stesso scrittore nella già citata lettera a Ljubimov, «di un argomento secondo me incontrovertibile, e cioè l’assurdità della sofferenza dei bambini, e ne deduce l’assurdità di tutta la realtà storica» [6]. Dostoevskij sottolinea inoltre come tutto ciò che viene raccontato da Ivàn sia fondato sulla realtà: «Tutti gli episodi che si riferiscono ai bambini sono accaduti nella realtà e sono stati pubblicati dai giornali, e io posso citarne anche la fonte esatta; niente è stato inventato di sana pianta da me» [7]. Soldati che scannano neonati con pugnali e baionette come fossero maiali e sotto gli occhi delle madri, oppure che gli sfracellano le tenere testoline con un colpo di pistola a quattro dita dalla faccia, dopo averli divertiti; genitori che rinchiudono la figlia nella latrina, al freddo e al gelo, e per punirla che di notte non avvisa in tempo dei propri bisogni, le imbrattano il viso con i suoi stessi escrementi, costringendola persino a mangiarli; generali che danno la caccia – letteralmente – a un piccolo servo di otto anni perché ha ferito un preziosissimo levriero, fino a farlo sbranare dal branco, di nuovo sotto gli occhi della madre. Insomma, ricorrendo a cruenti, efferati – anche se «una fiera non riuscirà mai ad essere così spietata, così raffinatamente e artisticamente spietata» – fatti di cronaca, Ivàn realizza una galleria degli orrori di cui si serve per giungere a questa conclusione:

«Ascoltami: io ho preso come esempio i soli bambini perché la cosa risultasse più evidente. A tutte le lacrime umane di cui è imbevuta la terra intera, dalla crosta fino al centro, non accennerò neanche, ho ristretto il mio tema di proposito. Io sono una cimice, e confesso in tutta umiltà che non riesco proprio a comprendere a quale scopo sia stato tutto congegnato così. Gli uomini stessi, dunque, sono colpevoli: era stato dato loro il paradiso, hanno voluto la libertà e hanno rapito il fuoco al cielo, sapendo che sarebbero diventati infelici; quindi non c’è motivo di compiangerli. Oh, il mio povero spirito terrestre ed euclideo mi permette solo di sapere che il dolore esiste, che non ci sono colpevoli, che ogni cosa scaturisce direttamente e semplicemente da un’altra, che tutto scorre e si equilibra; ma, già, questi non sono che vaneggiamenti euclidei, lo so bene, e non posso adattarmi a vivere in base ad essi! Cosa importa che non ci siano colpevoli, che ogni cosa scaturisca direttamente e semplicemente da un’altra e che io sappia tutto questo! Ciò di cui ho bisogno è una condanna suprema, o finirò con l’annichilire. Ma non dev’essere una condanna in una dimensione indefinita e remota, chissà dove e chissà quando, ma qui sulla terra, e tale che vi possa assistere io stesso. Io ho creduto e voglio vedere anch’io, e se per quel giorno fossi già morto, mi si resusciti, perché se tutto dovesse avvenire senza di me, sarebbe un’ingiustizia troppo grande. Di certo non ho sofferto semplicemente per concimare con il mio essere – con le mie colpe e le mie sofferenze – la futura armonia di non so chi. Io voglio vedere con i miei occhi il daino ruzzare accanto al leone e l’ucciso alzarsi ad abbracciare il suo uccisore. Io voglio essere presente quando tutti apprenderanno di colpo perché tutto sia stato così. Su questo desiderio poggiano tutte le religioni della terra, e io credo. Ma ecco, da quest’altra parte, i bambini: che ne farò? È questo il problema che non posso risolvere. Per la centesima volta ripeto: le questioni sono molte, ma ho preso in considerazione soltanto i bambini, perché solo così è irrimediabilmente chiaro ciò che sento il bisogno di dire. Ascolta: ammesso che tutti debbano soffrire per conquistare con la sofferenza l’eterna armonia, ma cosa c’entrano qui i bambini? Rispondimi, ti prego! Non si capisce assolutamente a che scopo debbano patire anche loro e perché debbano conquistarsi con le sofferenze quell’armonia. Per quale motivo sono serviti anche loro per concimare la futura armonia a vantaggio di altri? Io comprendo la solidarietà del peccato, tra gli uomini, e comprendo anche la solidarietà nella espiazione: ma la solidarietà nel peccato non coinvolge i bambini, e se la verità risiede davvero nel fatto che anche loro sono solidali con i padri in tutti i delitti di cui questi si sono macchiati, una tale verità non è certo di questo mondo e mi riesce incomprensibile. Qualche burlone potrà anche dire che tanto il bambino crescerà e avrà il tempo di peccare, ma di certo non è cresciuto quel bambino di otto anni sbranato dai cani! Oh! Alëša, io non sono blasfemo! Lo so bene che ci sarà un originario sconvolgimento dell’universo quando tutti, in cielo e sotto terra, si fonderanno in un unico inno e tutto ciò che vive o ha vissuto griderà: “Tu sei giusto, Signore, perché si sono svelate le Tue vie!”. Quando la madre abbraccerà il carnefice che fece straziare suo figlio dai cani, e tutt’e tre proclameranno tra le lacrime: “Tu sei giusto, Signore!”, allora certo sarà il trionfo della conoscenza e tutto si spiegherà. Ma ecco, è proprio questo che mi blocca, è proprio questo che io non posso accettare. E mentre sono sulla terra mi affretto a prendere le mie misure. Vedi, Alëša, se vivrò anch’io fino a quel momento, o se resusciterò per vederlo, potrà realmente accadere che anch’io esclami con gli altri, vedendo la madre abbracciare il carnefice del suo bimbo: “Sei giusto, Signore!”, ma io questo non lo voglio esclamare. Finché sono ancora in tempo, corro ai ripari e perciò rifiuto del tutto la suprema armonia. Essa non vale neanche una sola lacrima di quella bambina torturata che si batteva il petto con il suo piccolo pugno e pregava il “buon Dio” nel suo fetido anfratto, versando le sue lacrime invendicate. Non la vale, perché quelle lacrime sono ancora da riscattare. E dovranno essere riscattate, altrimenti non ci potrà mai essere neanche l’armonia. Ma come, come le riscatterai? È forse possibile? Vendicandole in seguito? Ma a che mi serve vendicarle, a che mi serve l’inferno per i carnefici, a che può rimediare l’inferno, quando i bambini sono stati già martirizzati? E che armonia è questa, se c’è l’inferno? Io voglio perdonare, voglio abbracciare, e non che si continui a soffrire. E se le sofferenze dei bambini sono servite a completare quella somma di sofferenze che era necessaria per il raggiungimento della verità, io affermo fin d’ora che tutta la verità non vale un simile prezzo. Insomma, non voglio che la madre abbracci il carnefice che fece straziare suo figlio dai cani! Si guardi bene dal perdonarlo! Lo perdoni per sé, se vuole, perdoni pure il carnefice per la sua smisurata sofferenza materna, ma non ha il diritto di perdonare la sofferenza del suo bambino straziato; si guardi dal perdonare il carnefice, anche se lo perdonasse il bambino stesso! Ma se è così, se non si ha il diritto di perdonare, dov’è l’armonia? C’è nel mondo intero un essere che possa perdonare e che ne abbia il diritto? Io non voglio l’armonia, non la voglio per amore verso l’umanità. Preferisco che le sofferenze rimangano invendicate. Rimarrei piuttosto con il mio dolore invendicato e con il mio sdegno insaziato, anche se avessi torto! Troppo poi si è esagerato il valore di quell’armonia, l’ingresso costa troppo caro per le nostre tasche. E, perciò mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso. E, se sono un galantuomo, ho l’obbligo di restituirlo il prima possibile. E così faccio. Non è che non accetti Dio, Alëša, ma Gli restituisco nel modo più rispettoso il mio biglietto» (255-256).

Si tratta di pagine di straordinaria intensità, in cui, attraverso le parole di Ivàn, Dostoevskij stesso dà forma e voce ai suoi dubbi. La sofferenza dei bambini è un argomento «incontrovertibile», come lo definisce lo stesso scrittore russo, legatissimo alla figura del fanciullo – relativamente ai Fratelli Karamazov si pensi all’attenzione dedicata alla triste vicenda del piccolo Il’juša -, quasi scientifico, da cui Ivàn deduce l’assurdità della realtà storica. È questo il tema principale e inconfutabile a sostegno del suo pensiero estremamente nichilistico, del suo determinato rifiuto del mondo di Dio e, di contro, dell’affermazione della distruzione e dell’anarchia. Anche Dostoevskij dubita – come confessa egli stesso -, ma non nega, non rifiuta, neppure dinanzi a un argomento «incontrovertibile» come quello della sofferenza dei bambini, e nel tentativo di fornire una motivazione di questa sua fiducia incrollabile, a oltranza nella fede ortodossa e nell’ideale cristiano, ci soccorre ancora una volta quella celebre lettera alla Fonvìzina citata già in diverse occasioni: «arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità» [8]. Il supremo «Credo» di Dostoevskij si spinge oltre, oltre la scienza, oltre la storia, le trascende, vi resiste, vacillando ma spezzandosi mai, quella storia sulla quale Ivàn erge e con la quale giustifica il suo pensiero e il suo essere. Ed è umano che nel «grande crogiolo dei dubbi», per un uomo che riesca nell’impresa di passarlo, attraversarlo e approdare all’«osanna», ce ne sia uno che vi resti intrappolato, e un altro ancora che torni indietro decidendosi per il rifiuto, la negazione, la distruzione, l’anarchia. Per quanto ami Dostoevskij, sarà sempre quest’ultimo uomo ad avere ragione: Ivàn Karamazov. Come dice il Mefistofele di Goethe, prototipo letterario dell’ultra-nichilista, «tutto quello che nasce è degno di finire in perdizione. E però meglio sarebbe che non nascesse nulla» [9].

V.VI. Il Grande Inquisitore

A proposito di Mefistofele, rifiutato il mondo di Dio, è proprio dalla parte del diavolo che si schiera Ivàn, come spiega Dostoevskij in una lettera a Ljubimov dell’11 giugno 1879:

«L’altroieri ho inviato alla redazione del “Messaggero Russo” il seguito dei Karamazov per il fascicolo di giugno (cioè la fine della quinta parte “Pro e contra”). In essa ho portato a termine ciò che dicono le labbra superbe e blasfeme. Il negatore contemporaneo, uno dei più accaniti, si dichiara esplicitamente a favore di ciò che consiglia il diavolo e sostiene che il suo insegnamento è più sicuro per gli uomini di quello di Cristo. Con ciò si dà una direttiva per il nostro socialismo russo, così sciocco (ma terribile, perché in esso è implicata la gioventù): il pane, la torre di Babele (cioè il futuro regno del socialismo) e il completo assoggettamento della libertà di coscienza, ecco a che cosa approda il disperato negatore e ateo! La differenza sta nel fatto che i nostri socialisti (ed essi non sono soltanto il nichilismo sotterraneo, Lei lo sa bene) sono dei gesuiti e dei mentitori coscienti che non riconoscono che il loro ideale consiste nella violenza esercitata sulla coscienza umana e nel ridurre l’umanità al livello di un gregge, mentre il mio socialista […] è un uomo sincero che riconosce francamente di trovarsi d’accordo con la concezione dell’umanità propria del Grande Inquisitore, e che la fede in Cristo sarebbe in grado di portare l’uomo ad un livello più alto di quello a cui esso realmente si trova. La domanda viene posta in modo assolutamente categorico: “Voi, futuri salvatori dell’umanità, in realtà la disprezzate o la rispettate?”
E tutto ciò essi pretendono di farlo in nome dell’amore per l’umanità: “La legge di Cristo – essi dicono – è troppo pesante e astratta; è intollerabile per le deboli forze dell’uomo”, e così, invece della legge della Libertà e della vera Cultura, gli propongono la legge delle catene e della schiavitù per il pane» [10].

Il riferimento è naturalmente al poema, pensato e trattenuto nella memoria, ma non scritto, Il Grande Inquisitore, che Ivàn racconta ad Alëša (nel rapporto tra i due fratelli si riflettono la pressione e gli influssi nefasti del socialismo sulla gioventù russa denunciati da Dostoevskij) dopo la professione del suo estremo rifiuto, nell’intreccio di arte, filosofia e morale uno dei più grandi testi mai creati. Siamo a Siviglia, nel periodo più oscuro dell’inquisizione spagnola, quando ogni giorno «con splendidi autodafé / si bruciavano gli eretici» [11]. È in questo momento di massima contraddizione del cattolicesimo romano che Cristo torna sulla terra, compare sulle «strade infuocate» di Siviglia, «che solo il giorno prima, in un grandioso autodafé, aveva visto bruciare ad maiorem Dei gloriam quasi un centinaio di eretici per ordine del cardinale Grande Inquisitore e al cospetto del re, della corte, dei cavalieri, dei cardinali, delle più leggiadre dame di corte, dell’intera popolazione» (260). Cristo compare in silenzio – il suo tratto caratteristico -, furtivo, eppure tutti lo riconoscono: «Il popolo è attratto verso di Lui da una forza irresistibile. Lo circonda, accorre sempre più numeroso, Lo segue» (260). Cristo attraversa silenzioso la folla che lo ha attorniato e sorride, di un sorriso infinitamente compassionevole, perché il «sole dell’amore arde nel Suo cuore, i Suoi occhi sprigionano i raggi della Luce, del Sapere e della Forza, che effondendosi sugli uomini ne fanno tremare il cuore d’amore, in una muta corrispondenza» (260). Non c’è bisogno di parole, tutto avviene con estrema naturalezza, spontaneità. Non c’è bisogno della mediazione linguistica, la comunicazione avviene a un livello ben più profondo, intimo, spirituale. Cristo tende le braccia verso gli uomini che lo sanno e lo circondano, li benedice e dal suo contatto sgorga e si propaga «una forza risanatrice»: egli è salute, e viene in mente Michelstaedter, che di Cristo fa, insieme con Socrate, il modello ideale del persuaso [12]. Cristo dona la vista a un vecchio cieco dall’infanzia e resuscita una bambina, pronunciando, oggi come allora, la formula «Talitha kum». Non dirà altro, in tutto il poema. Dopo il miracolo il popolo si agita, monta come la marea, grida e si commuove, lasciandosi andare al pianto. Ma ecco che proprio in questo istante, questo fatidico istante di trionfo della salute e della vita sulla malattia e sulla morte, passa il Grande Inquisitore, quasi novantenne, indosso non «la sontuosa veste cardinalizia» delle grandi occasioni – i roghi -, ma il «vecchio e rozzo saio monastico», seguito dagli aiutanti, dai servi e dalla “sacra” guardia. Anche il Grande Inquisitore, come il popolo, ha assistito al miracolo, ne è stato testimone oculare, ma la sua reazione è ben diversa rispetto a quella del popolo: non grida di giubilo, non singhiozzi, ma una cupa e profonda ostilità. Cristo per lui non è una soluzione ai problemi, una risposta alle domande, ma una fonte inesauribile di quesiti e grattacapi. In quell’istante il vecchio cardinale vede la sua autorità vacillare e reagisce di conseguenza, come si deve a un’autorità che per diventare tale si è servita delle parole e del sacrificio di Cristo, tradendoli e traviandoli: lo fa arrestare. Il popolo non si oppone, anzi, si inchina al cospetto del Grande Inquisitore, che benedice la folla prostrata ai suoi piedi e passa oltre. Termina il giorno, sopraggiunge «la scura, calda, afosa notte di Siviglia», l’aria odorosa «di limoni e alloro», e il vecchio cardinale si reca nel carcere del Santo Uffizio dove è stato condotto e rinchiuso Cristo. Sono faccia a faccia, soli, illuminati dalla luce flebile di una fiaccola. Il Grande Inquisitore rivela subito al prigioniero le sue intenzioni:

«Io non so chi Tu sia, e non voglio sapere se Tu sia Lui o solo una Sua immagine, ma domani stesso io Ti condannerò e Ti farò ardere sul rogo come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi baciava i Tuoi piedi domani non esiterà ad attizzare il tuo rogo a un mio cenno […]» (261).

Il Grande Inquisitore si distingue per una feroce coerenza e, come sottolinea Ivàn, per la prima volta in novant’anni manifesta il suo pensiero, per la prima volta dice ciò che per quasi un secolo ha taciuto, mettendolo in pratica, facendone la sua ragione di vita, ma senza esprimerlo mai. Il vecchio cardinale finalmente parla, mentre nega a Cristo il diritto di aggiungere altro a quanto fu già detto. È così che deve essere, spiega Ivàn, perché qui risiede «il tratto più essenziale del cattolicesimo romano»: tutto è ora nelle mani del papa e una nuova parola di Cristo non sarebbe che un disturbo, un attentato all’autorità papale e a tutto ciò su cui essa si fonda. L’ennesima stoccata di Dostoevskij alla Chiesa di Roma – della cui critica, spesso violenta, lo scrittore russo ha fatto una delle sue bandiere -, stoccata che, pagina dopo pagina del Grande Inquisitore, affonda sempre più in profondità, fino a rivelare il patto stretto dal cattolicesimo romano con il diavolo.

Al centro del poema di Ivàn Karamazov sta il grande tema della libertà, con il Grande Inquisitore che attribuisce a sé e ai suoi il merito di averla finalmente soppressa e di aver fatto ciò per la felicità degli uomini. Il vecchio cardinale affronta ed elabora questo tema ricorrendo al celebre episodio evangelico delle tentazioni nel deserto:

«In quelle tre domande infatti – sostiene il Grande Inquisitore – è come compendiata e predetta tutta la storia dell’umanità, sono dati i tre archetipi in cui si concreteranno tutte le insolubili contraddizioni della natura umana su tutta la terra. A quel tempo ciò non poteva essere ancora così evidente, poiché l’avvenire era ignoto, ma ora che sono passati quindici secoli, noi vediamo che in quelle tre domande tutto è stato vaticinato e predetto con una tale precisione e tutto si è avverato a tal punto, che non è più possibile aggiungere o togliere una sola parola» (263).

Nell’interpretazione del noto episodio evangelico fornita dal Grande Inquisitore, le tentazioni formulate, avanzate dal diavolo trasferiscono l’esperienza e gli insegnamenti di Cristo da una dimensione esclusivamente spirituale a una dimensione materiale, ovvero socialista, in una prospettiva di riduzione, di svalutazione dell’essere umano a semplice numero, come tale facilmente controllabile e manipolabile (ciò che, detto di sfuggita, tra parentesi, siamo noi tutti oggi, vittime e al tempo stesso complici di una politica dominata dalla rettorica – del male come del bene, sia chiaro – e di un ultra-capitalismo basato sulla forzata imposizione del superfluo come necessario). Il diavolo, lo spirito «intelligente e terribile, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere» – manca solamente l’aggettivo ironico perché esso corrisponda pressoché esattamente al Mefistofele di Goethe -, il «grande spirito», come lo definisce il vecchio cardinale, tenta Cristo innanzitutto esortandolo a trasformare le pietre in pani, ma Cristo resiste, perché non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola pronunciata da Dio. Ovvero, secondo la brillante interpretazione del Grande Inquisitore, teologo marxista: «che libertà può mai esserci, se l’ubbidienza è comprata con i pani?» (263). Ma è proprio nel nome di questo stesso pane, materiale, continua il vecchio cardinale, che «lo spirito della terra insorgerà contro di Te e Ti vincerà, e tutti lo seguiranno» (264). Passeranno i secoli e fondandosi sulla sua sapienza, sulla sua scienza, necessariamente limitate, l’umanità proclamerà l’inesistenza del delitto e del peccato, perché non esistono assassini, ladri, peccatori, ma solo affamati, e allora al posto del tempio di Cristo sorgerà un nuovo edificio, una nuova torre di Babele.

«Ecco cosa significa quella domanda che Ti fu fatta nel deserto, ed ecco cosa hai rinnegato in nome della libertà, da Te collocata al di sopra di tutto. In quella domanda tuttavia si racchiudeva un grande segreto di questo mondo. Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu avresti dato una risposta all’universale ed eterna inquietudine dell’uomo, dell’individuo come dell’umanità intera: “Di fronte a chi prostrarsi?”. Non vi è affanno più tormentoso e continuo per l’uomo, rimasto libero, che il ricercare al più presto un essere di fronte al quale prostrarsi» (264-265).

La distanza tra Cristo e il Grande Inquisitore si misura soprattutto su un aspetto: la fiducia nel genere umano, sconfinata nel primo, del tutto assente nel secondo. E non potrebbe essere altrimenti, perché l’autorità, qualunque autorità, si fonda necessariamente sulla totale assenza di fiducia nel genere umano, l’una esclude obbligatoriamente l’altra. Per questo motivo Cristo rifiuta con decisione l’impegno politico, rivoluzionario – «a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» -, nel quale, secondo una affascinante interpretazione, avrebbe voluto coinvolgerlo Giuda e dal quale sarebbe scaturito il tradimento [13]. Da questo dato si sviluppano numerose ridefinizioni della figura di Cristo e delle sue parole in chiave anarchica, da pensatori e scrittori atei come Stirner e Michelstaedter, che ne fanno l’uno il modello del ribelle [14], l’altro, come ho già ricordato, del persuaso, ma anche da pensatori e scrittori cristiani, come Tolstoj, l’erede di Dostoevskij nel delicato ruolo di guida non solo artistico-letteraria, ma anche e soprattutto spirituale della Russia, che proprio sul Vangelo fonda il suo impegno anti-statalista e anti-ecclesiastico successivo alla conversione del 1881 [15]. Tutti risvolti contro-dostoevskiani questi ultimi, certo, ma che rivelano la complessità e, soprattutto, la fertilità del tema, che si presta a numerose e differenti interpretazioni (in questo senso, clamorosa la differenza di pensiero tra Dostoevskij e Tolstoj, entrambi fervidi e inossidabili credenti).

Riprendendo la lettura del poema, secondo il Grande Inquisitore la libertà è per l’uomo un peso insostenibile, ed è soprattutto questo che il vecchio cardinale rimprovera a Cristo:

«Invece di impadronirti della libertà degli uomini, Tu l’hai ulteriormente accresciuta! Avevi forse dimenticato che la tranquillità e persino la morte è più cara all’uomo della libera scelta tra il bene ed il male? Non esiste nulla di più seducente per l’uomo della libertà di coscienza, ma nulla è altrettanto straziante» (265).

E ancora:

«Invece di impadronirti della libertà umana, Tu l’hai moltiplicata e hai per sempre gravato con il peso dei suoi tormenti la vita morale dell’uomo. Tu hai voluto il libero amore dell’uomo, perché Ti seguisse liberamente, attratto e conquistato da Te. Invece di seguire la salda legge antica, in futuro l’uomo avrebbe dovuto decidere da sé tra il bene e il male, liberamente, che cosa fosse bene e che cosa fosse male, avendo come unica guida la Tua immagine; ma non avevi pensato al fatto che se lo si fosse oppresso con un fardello così terribile come il libero arbitrio, egli avrebbe finito col respingere e contestare persino la Tua immagine e la Tua verità? Egli infine esclamerà che la verità non è in Te, perché era impossibile abbandonarli ad ansie e tormenti peggiori di quelli a cui Tu li hai abbandonati, lasciando loro tante inquietudini e tante contraddizioni insolubili. È così che hai disposto Tu stesso la rovina del Tuo regno, e non darne più la colpa a nessuno» (266).

Il Grande Inquisitore accusa Cristo stesso del suo fallimento, gli rinfaccia con decisione e risentimento le sue responsabilità nella rovina del regno celeste. Perché in un essere imperfetto e insufficiente come l’uomo il libero arbitrio, secondo la pessimistica concezione del vecchio cardinale, si rovescia nel suo opposto, divenendo peso terribilmente opprimente, soffocante, insostenibile. Tre forze, continua il Grande Inquisitore nel suo serrato j’accuse, permettono di vincere e avvincere «per sempre» la coscienza umana, «il miracolo, il mistero e l’autorità», e Cristo le ha rifiutate, una dopo l’altra, tutte. Si ricordi la seconda tentazione, quando lo «spirito sapiente e terribile» pone Cristo in cima al tempio e lo invita a gettarsi giù, perché sta scritto che gli angeli sosterranno il Figlio di Dio. Ma sta scritto anche, risponde Cristo al diavolo, di non tentare il Signore.

«Oh, Tu comprendesti allora – sostiene il Grande Inquisitore – che facendo anche solo un passo, un solo movimento per gettarti giù, avresti senz’altro tentato il Signore e perduto ogni fede in Lui, e Ti saresti sfracellato su quella terra che eri venuto a salvare, e si sarebbe rallegrato lo spirito sagace che Ti aveva tentato» (266).

Cristo rifiuta così il miracolo, sperando che l’uomo sia capace di accontentarsi di Dio, ma, dichiara il vecchio cardinale, «l’uomo cerca non tanto Dio quanto i miracoli», a tal punto che di miracoli finirà con il crearseli di propri, fino a inchinarsi al cospetto di maghi e fattucchiere per i loro fasulli e blasfemi prodigi. Cristo ha commesso l’errore madornale di sopravvalutare gli uomini, sostiene il Grande Inquisitore, e torniamo di nuovo al fondamentale tema della fiducia nel genere umano:

«[…] non hai voluto asservire l’uomo con un miracolo, e bramavi una fede libera, non fondata sul prodigio. Bramavi un amore libero, e non i servili entusiasmi dello schiavo davanti alla potenza che l’ha per sempre riempito di terrore. Ma anche qui Tu hai tenuto troppo in conto gli uomini, poiché per quanto ribelli per natura essi non sono che schiavi. Guarda e giudica Tu stesso, sono passati quindici secoli, guardali: chi hai innalzato fino a Te? Ti giuro, l’uomo è stato creato più debole e più vile di quanto Tu non pensassi! Può forse compiere quel che puoi compiere Tu? Dimostrando tanta stima nei suoi confronti, Tu agisti come se avessi cessato di averne compassione, perché pretendesti troppo da lui, e chi è che ha agito così? Proprio colui che lo amava più di se stesso! Se lo avessi stimato meno avresti preteso meno da lui, perché più lieve sarebbe stato il suo carico. Egli è debole e vile» (267).

Il discorso del Grande Inquisitore procede per paradossi: come il libero arbitrio, suprema manifestazione di libertà, di indipendenza viene ribaltato nel suo opposto, ovvero peso opprimente, insostenibile, così la fiducia e la stima incondizionate, sconfinate di Cristo nei confronti dell’uomo vengono valutate dal vecchio cardinale come una dimostrazione di mancanza di compassione, e proprio da parte di colui che diceva di amare l’uomo più di se stesso. Fino al paradosso ultimo ed estremo, l’acconsentimento del cattolicesimo romano all’ultima tentazione e la sua professione di fede non in Cristo, ma nel diavolo:

«Abbiamo corretto la Tua opera e vi abbiamo posto a fondamento il miracolo, il mistero e l’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere nuovamente condotti come un gregge e di vedere il proprio cuore finalmente liberato da un dono tanto terribile che aveva arrecato loro tali tormenti. Non avevamo forse ragione ad insegnare e ad agire così? Rispondi! Forse che non amavamo l’umanità, riconoscendone tanto umilmente la debolezza, alleviando con amore il suo fardello e concedendo alla sua debole natura magari anche di peccare, ma con il nostro consenso? Perché continui a fissarmi in silenzio con i Tuoi miti occhi penetranti? Va’ pure in collera, io non voglio il Tuo amore, perché io stesso non Ti amo. E che cosa potrei mai nasconderti? Ignoro forse con chi sto parlando? Tutto ciò che ho da dirti, Ti è già noto, lo leggo nei Tuoi occhi. Dovrei nasconderti il nostro segreto? Forse Tu vuoi proprio sentirlo dalle mie labbra, ascolta dunque: noi non siamo con Te, ma con lui, ecco il nostro segreto! Da tempo ormai non siamo più con Te, ma con lui, già da otto secoli. Sono precisamente otto secoli che abbiamo accettato da lui ciò che Tu respingesti con sdegno, quell’ultimo dono che egli Ti offriva, mostrandoti tutti i regni della terra: noi accettammo da lui Roma e la spada di Cesare e ci proclamammo re della terra, gli unici re, anche se non abbiamo ancora avuto il tempo di portare a compimento la nostra opera. Ma di chi è la colpa? Oh, quest’opera per il momento è solo agli inizi, ma è cominciata! Se ne dovrà attendere ancora a lungo la realizzazione e la terra soffrirà ancora molto, ma noi raggiungeremo la meta, saremo Cesari, e allora provvederemo all’universale felicità degli uomini. Eppure Tu già allora avresti potuto accettare la spada di Cesare. Perché rifiutasti quest’ultimo dono? Accogliendo questo terzo consiglio dello spirito possente, Tu avresti compiuto tutto ciò che l’uomo cerca sulla terra: a chi inchinarsi, a chi affidare la propria coscienza e infine in che modo riunirsi tutti in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde, poiché il bisogno di unione universale è il terzo e l’ultimo tormento degli uomini. Da sempre l’umanità, nel suo insieme, ha mirato a organizzarsi in modo universale. Sono stati molti i grandi popoli che hanno avuto una grande storia, ma quanto più nobili erano questi popoli, tanto più erano infelici, perché più fortemente degli altri avvertivano il bisogno dell’unione universale degli uomini. I grandi conquistatori, come Timur e Gengis Khan ad esempio, passarono sulla terra come un turbine, nell’intento di conquistare l’universo, ma anche loro, per quanto inconsapevolmente, esprimevano quello stesso potente bisogno umano di unione mondiale e universale. Accettando il mondo e la porpora di Cesare, Tu avresti fondato il regno universale e garantito la pace universale. E infatti chi mai dovrebbe dominare gli uomini, se non coloro che dominano le loro coscienze e nelle cui mani è il loro pane? Quindi prendemmo la spada di Cesare, ma naturalmente, prendendola, ripudiammo Te e andammo dietro a lui» (268-269).

L’ultimo atto della feroce critica di Dostoevskij alla Chiesa di Roma, che del sistematico tradimento e traviamento della figura e degli insegnamenti di Cristo ha fatto la sua forza e la sua arma, l’ultimo e insieme più intenso ed efficace, perché veicolato attraverso le parole di un illustre membro, un cardinale e per di più Grande Inquisitore, del cattolicesimo romano [16]. Un tema, quello del tradimento di Cristo da parte della Chiesa di Roma, che avrà grande fortuna, e non solo in scrittori e pensatori cristiani, come Tolstoj, ma anche atei, come Nietzsche e Michelstaedter. Per quanto riguarda il filosofo tedesco si pensi all’Anticristo, dove scrive che «la Chiesa è stata edificata sulla negazione del Vangelo» e che «in realtà è esistito un solo cristiano, e quello è morto sulla croce» [17], mentre per il filosofo goriziano naturalmente alla sua tesi di laurea La persuasione la rettorica, e già a partire dalla Prefazione: «lo disse Cristo, e ci fabbricarono su la Chiesa» [18]. A proposito di ateismo, è ateo e socialista che finisce per dichiararsi apertamente il Grande Inquisitore al cospetto di Cristo, al termine del suo monologo:

«Tu sei fiero dei Tuoi eletti, ma Tu non hai che eletti, mentre noi daremo la pace a tutti. […] Con noi […] tutti saranno felici e non si ribelleranno più, né si stermineranno tra loro, come facevano dappertutto nella Tua libertà. Oh, noi li persuaderemo che solo allora saranno davvero liberi, quando rinunceranno alla loro libertà in nostro favore e si sottometteranno a noi. Ebbene, avremo ragione o mentiremo? Essi stessi si convinceranno che abbiamo ragione, perché ricorderanno a quali orrori di schiavitù e di violenza li avesse condotti la Tua libertà. La libertà, il libero pensiero e la scienza condurranno gli uomini in tali labirinti e li porranno davanti a tali prodigi e indecifrabili misteri, che alcuni di essi, ribelli e furiosi, si distruggeranno da sé, altri, ribelli ma deboli, si distruggeranno tra loro, e i rimanenti, deboli e infelici, strisceranno ai nostri piedi e ci grideranno: “Sì, voi avevate ragione, voi soli possedevate il Suo segreto ed è a voi che torniamo, salvateci da noi stessi”. Ricevendo da noi il pane, certo vedranno chiaramente che noi prendiamo il loro stesso pane – il frutto del loro stesso lavoro – per distribuirlo proprio a loro, senz’alcun miracolo; vedranno che noi non abbiamo mutato in pane le pietre, ma in realtà, più che del pane stesso, saranno felici di riceverlo dalle nostre mani! Perché ricorderanno fin troppo bene che prima, senza di noi, il pane da loro prodotto si tramutava in pietre nelle loro mani, mentre, una volta tornati da noi, quelle stesse pietre si tramuteranno in pane. Troppo bene, troppo bene sapranno apprezzare cosa significa sottomettersi una volta per tutte! E finché gli uomini non capiranno questo, saranno infelici. Ma chi più di tutti ha favorito questa incomprensione, dimmi? Chi ha diviso il gregge e l’ha disperso per vie sconosciute? Ma il gregge tornerà a raccogliersi, tornerà a sottomettersi, e questa volta per sempre. Allora noi daremo loro la tranquilla, umile felicità degli esseri deboli quali essi sono fin dalla nascita. Oh, noi li persuaderemo infine a non essere superbi, dal momento che Tu, invece, li hai elevati e così hai insegnato loro la superbia: proveremo loro che sono deboli, che sono solo dei poveri bambini, ma che la felicità infantile è la più dolce di tutte. Essi diverranno mansueti, guarderanno a noi e si stringeranno a noi nella paura, come i pulcini alla chioccia. Ci ammireranno e avranno paura di noi, e andranno fieri di noi, di una potenza e un’intelligenza tale da riuscire a domare un gregge così indocile e sterminato. Temeranno la nostra collera, i loro animi si faranno timidi, i loro occhi inclini al pianto, come quelli dei bambini e delle donne, ma con la medesima facilità passeranno – a un nostro cenno – all’allegria e al riso, alla gioia luminosa ed alle gioiose canzoni infantili. Certo li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro organizzeremo la loro vita come un gioco infantile, con canti e cori e danze innocenti. Oh, noi consentiremo loro anche il peccato, certo, perché sono deboli e inetti, ed essi ci ameranno come bambini, perché permetteremo loro di peccare [19]. Diremo che ogni peccato, se commesso con il nostro consenso, sarà riscattato, che permettiamo loro di peccare perché li amiamo, e che, quanto al castigo per tali peccati, lo assumeremo noi sulle nostre spalle. Così faremo ed essi ci adoreranno come benefattori che si sono fatti carico dei loro peccati dinanzi a Dio. E per noi non avranno segreti. Permetteremo o vieteremo loro di vivere con le proprie mogli e amanti, di avere o non avere figli – sempre giudicando in base alla loro ubbidienza – ed essi si prostreranno ai nostri piedi con letizia e gioia. Tutti, tutti i più tormentosi segreti della loro coscienza, li porteranno a noi, e noi risolveremo ogni caso, ed essi guarderanno alla nostra decisione con una fede gioiosa, perché li libererà dal grave fastidio e dal terribile tormento odierno di dover decidere liberamente e in prima persona. E tutti gli uomini saranno felici, milioni di esseri, tranne quel centinaio di migliaia che saranno alla loro guida. Perché solo noi, depositari del segreto, solo noi saremo infelici. Ci saranno miliardi di pargoli felici e centomila martiri che avranno assunto sulle proprie spalle la maledizione della conoscenza del bene e del male. Essi moriranno in pace, in pace si spegneranno nel Tuo nome e oltre la tomba non troveranno che la morte. Ma noi manterremo il segreto e per la loro stessa felicità li culleremo nell’illusione di una ricompensa celeste ed eterna. Del resto, anche qualora esistesse qualcosa nell’altro mondo, non sarebbe certo per simili creature. Si dice e si profetizza che Tu verrai e vincerai di nuovo, che verrai con i Tuoi eletti, superbi e possenti, ma noi diremo che essi hanno salvato solamente se stessi, mentre noi abbiamo salvato tutti. Si dice che la meretrice seduta sulla bestia, con il calice del mistero tra le mani, verrà disonorata, che i deboli torneranno a ribellarsi, strapperanno la sua porpora e denuderanno il suo “sordido” corpo. Ma io allora mi alzerò e Ti additerò i miliardi di bimbi felici che non conobbero il peccato. E noi che ci siamo fatti carico dei loro peccati per la loro felicità, noi ci ergeremo di fronte a Te e diremo: “Giudicaci, se puoi e se osi”. Sappi che io non Ti temo. Sappi che anch’io sono stato nel deserto, che anch’io mi sono nutrito di cavallette e di radici, anch’io benedicevo la libertà con cui Tu hai benedetto gli uomini, e anch’io mi preparavo ad entrare nel numero dei Tuoi eletti, nel numero dei potenti e dei forti, nell’ardente desiderio di “completare il numero”. Ma tornai in me e non volli servire la causa della follia. Tornai sui miei passi e mi unii alla schiera di coloro che hanno corretto la Tua opera. Lasciai gli orgogliosi e tornai dagli uomini per la loro felicità. Ciò che Ti dico si compirà e sorgerà il nostro regno. Ti ripeto che domani stesso Tu vedrai questo docile gregge che al mio primo cenno si precipiterà ad attizzare i carboni ardenti del rogo su cui Ti farò bruciare perché sei venuto a disturbarci. Giacché se vi è qualcuno che più di tutti abbia meritato il nostro rogo, quello sei Tu. Domani ti farò bruciare. Dixi» (169-271).

Come Šigalëv, uno dei più inquietanti demòni e, in generale, negatori creati da Dostoevskij, anche il Grande Inquisitore, e con lui l’intera Chiesa di Roma, partendo dal principio della «libertà illimitata», sostenuto ed esaltato da Cristo, approda infine al «dispotismo illimitato» [20]. Ma il vecchio cardinale, in conclusione del poema, rinuncia al proposito di bruciare Cristo, proposito con il quale ha aperto e chiuso il suo monologo, il suo j’accuse da teologo marxista, e che avrebbe rappresentato il trionfo estremo del suo pensiero e dell’intero cattolicesimo romano, l’estrema e indiscutibile dimostrazione della sua fede nel diavolo:

«[…] l’inquisitore, dopo aver taciuto, aspetta per qualche tempo che il suo Prigioniero risponda. Il Suo silenzio gli pesa. Ha notato che il Prigioniero gli ha sempre prestato ascolto, fissandolo negli occhi con il suo sguardo calmo e penetrante, lontano da ogni desiderio di obiezione. Il vecchio vorrebbe che rispondesse in una qualche forma, sia pure amara, terribile. Ma Egli tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia dolcemente sulle sue vecchie labbra esangui. Ecco tutta la Sua risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli delle labbra si contraggono in un fremito; va verso la porta, la spalanca e Gli dice: “Vattene e non tornare più… non tornare mai più… mai più!”. E lo lascia andare per “le oscure vie della città”. Il Prigioniero si allontana» (273).

Un bacio, un dolce bacio sulle vecchie labbra esangui del suo accusatore e negatore. È tutta qui la – silenziosa – risposta di Cristo, in questo gesto semplicissimo e infantile, se vogliamo, e che pure si impone come la più forte, implacabile, luminosa confutazione del pensiero del Grande Inquisitore. Concependo un simile epilogo, diametralmente opposto alle convinzioni espresse con ardore dal vecchio cardinale nel suo serrato j’accuse, Ivàn dimostra di aver compreso alla perfezione il messaggio cristiano e di custodirlo dentro di sé, proprio accanto all’estremo rifiuto. Dentro di lui affermazione e negazione convivono e si fronteggiano in uno straziante e sanguinoso conflitto che non si concluderà mai, come previsto dallo stàrec Zòsima, e che lo condurrà infine alla follia. E quel bacio, quell’ineffabile gesto posto a conclusione della massima, suprema espressione della negazione da parte delle «labbra superbe e blasfeme», mostra l’esattezza delle parole di Tichon quando, nel censurato e fondamentale colloquio con Stavrògin, nei Demòni naturalmente, sostiene che l’«ateo assoluto […] è pur sempre sul penultimo scalino in alto prima della perfettissima fede» [21].

NOTE

[1] Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso. Capitolo quinto – Ivàn, il nichilista estremo – I-IV.

[2] Citato in Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 45.

[3] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 154-155.

[4] Ivi, pp. 156-157.

[5] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, pp. 246-247. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[6] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, cit., p. 155.

[7] Ivi, p. 156.

[8] Ivi, p. 51.

[9] Johann Wolfgang Goethe, Faust, traduzione e note di Guido Manacorda, RCS, Milano 2005, p. 99. Per un approfondimento sull’opera rimando all’articolo Alcune superflue considerazioni sul monumentale Faust di Goethe.

[10] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, cit., pp. 158-159.

[11] Per la lettura integrale del poema rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, Il Grande Inquisitore.

[12] Per un approfondimento sul pensatore, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

[13] Su questa interpretazione ho fondato l’operetta tumorale Passione.

[14] «Egli non era un rivoluzionario, come per esempio Cesare, bensì un ribelle, non uno che rovescia gli Stati, ma uno che si sollevava. Per questo il suo principio era solo: “Siate astuti come serpenti”, che esprime la stessa cosa dell’altro principio, più specifico: “Date a Cesare ciò che è di Cesare”; egli non conduceva alcuna battaglia liberale o politica contro l’autorità costituita, ma voleva, incurante di quell’autorità e da essa indisturbato, percorrere la propria strada» (Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, traduzione di Leonardo Amoroso, Adelphi, Milano 2009, p. 332). Per un approfondimento sull’opera e il pensiero del filosofo tedesco rimando all’articolo Max Stirner, L’unico e la sua proprietà.

[15] Per un approfondimento rimando all’articolo Guerra e rivoluzione: l’anarchico Tolstoj contro la superstizione statalista.

[16] Un’altra espressione particolarmente violenta della critica di Dostoevskij alla Chiesa di Roma si trova nell’Idiota, nelle seguenti parole del principe Myškin: «Il Cattolicesimo romano è peggiore dell’ateismo: questa è la mia opinione… Sì, la mia opinione è proprio questa! Perché l’ateismo si limita a predicare il nulla; il Cattolicesimo va oltre, e predica un Cristo travisato, un Cristo calunniato e oltraggiato, un Cristo che è l’antitesi del Figlio di Dio. Il Cattolicesimo predica l’Anticristo, ve lo assicuro, ve lo giuro! Questa è la mia opinione personale e io so quanto ho sofferto nel rendermene conto! Il Cattolicesimo romano crede e proclama che, senza un potere temporale capace di abbracciare tutta la terra, la Chiesa non possa sussistere… Non possumus! No, il Cattolicesimo romano non è una religione, è la continuazione dell’Impero Romano d’Occidente. Nel Cattolicesimo, infatti, tutto è subordinato a questa idea. Il Papa si è impadronito della terra, ha occupato un trono terrestre, ha impugnato la spada e si è circondato di un seguito composto da menzogne, intrighi, imposture, fanatismi, superstizioni e scelleratezze. Nelle mani della Chiesa di Roma, i più sacri, i più ingenui e i più giusti sentimenti popolari sono diventati delle armi. Roma ha fatto tutto questo per denaro, con il solo scopo di consolidare il suo dominio terreno. E che cos’è questa se non la dottrina dell’Anticristo? Era fatale che lo stesso ateismo dovesse essere partorito da una simile creatura. Perché lo ripeto: la Roma papale è la prima fonte dell’ateismo. L’ateismo, infatti, è nato insieme ai primi pontefici romani: come avrebbero potuto questi pontefici credere a loro stessi? Poi fu il disgusto che questi pontefici riuscirono a ispirare che fortificò le idee degli atei: questa eresia fu il prodotto delle loro menzogne e della loro povertà spirituale. L’ateismo! Da noi, solo alcuni tra quelli che appartengono alle classi privilegiate non credono, perché […] si tratta di gente che ha reciso le proprie radici; ma laggiù, in Europa, enormi masse popolari non hanno più fede: un tempo succedeva per ignoranza, ora accade per l’odio ispirato dalla Chiesa e dal Cristianesimo!» (Fëdor Dostoevskij, L’idiota, traduzione di Federigo Verdinois, in Id., Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 930). E ancora: «Anche il socialismo è figlio del Cattolicesimo. Il socialismo e l’ateismo, che gli è fratello, sono frutti della disperazione e si oppongono moralmente al Cattolicesimo per imporre loro stessi nel ruolo che una volta era della religione ma che la religione ha perduto. Ateismo e socialismo vogliono spegnere la sete spirituale del genere umano e salvarlo non più con Cristo, ma con la violenza. È data con la forza, l’unione realizzata con il ferro e con il fuoco! […] Gli atei e i socialisti potete riconoscerli dalle azioni che compiono… e non crediate che il pericolo che questi rappresentano non riguardi anche noi. Per resistere all’Occidente, dobbiamo opporre ai valori occidentali una cosa che l’Occidente non ha mai conosciuto: la purezza del nostro Cristo. Dobbiamo opporci all’influenza dei gesuiti, evitando di cadere nelle loro trappole e cercando di portare da loro quella che è la civiltà russa» (Ivi, p. 931). Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo L’idiota, il fallimento della bellezza.

[17] Friedrich Nietzsche, L’Anticristo, traduzione di Paolo Santoro, in Id., Opere 1882/1895, Newton Compton editori, Roma 2008, p. 793 e p. 795.

[18] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 35.

[19] Come l’amore carnale legittimato attraverso l’istituzione del matrimonio, secondo la radicale concezione tolstoiana: «Ma un matrimonio cristiano non può esserci e non c’è mai stato, come non c’è mai stato né può esserci un rito religioso cristiano (Matteo, VI, 5-12, Giovanni, IV, 21), né padri o maestri sulla terra (Matteo, XXIII, 8-10), né proprietà privata cristiana, né eserciti, tribunali o stati cristiani. E ciò è sempre stato evidente agli autentici cristiani dei primi e degli ultimi secoli» (Lev Tolstoj, La sonata a Kreutzer, traduzione di Mario Caramitti, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2011). Per un approfondimento sull’opera rimando all’articolo «La sonata a Kreutzer»: Tolstoj contra il matrimonio.

[20] Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Giovanni Buttafava, BUR, Milano 2006, p. 452. Per un approfondimento sul pensiero di Šigalëv rimando all’articolo Scigaliovismo.

[21] Ivi, p. 746.

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