Ivàn Karamazov in un'illustrazione di Il'ja Glazunov del 1982

Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso. Capitolo quinto – Ivàn, il nichilista estremo – I-IV

«Non è Dio che non accetto, capisci, ma il mondo da Lui creato, è il mondo di Dio che non accetto e per quanto mi sforzi non riesco ad accettare».

V.I. Gli esordi

Dostoevskij ha rivoluzionato la storia della letteratura e del pensiero occidentali (nel secondo caso si pensi, a mero titolo esemplificativo, all’influenza esercitata su un filosofo come Nietzsche, tardiva ma profonda), e tra tutti i suoi innumerevoli personaggi quello che più e meglio di ogni altro incarna e veicola questo rivolgimento è Ivàn Karamazov. Nichilista ultimo, e non solo a livello cronologico, definitivo, estremo; vertice massimo di quella linea dostoevskiana della negazione della fede ortodossa e dell’ideale cristiano che, partendo dall’uomo-topo protagonista delle Memorie dal sottosuolo [1], passa per il Raskòl’nikov pre-resurrezione [2], per Svidrigàjlov, Stavrògin, Kirìllov, Šigalëv [3], Kraft [4]; ideale rappresentazione artistica dell’Unico di Stirner [5], egli inaugura, insieme con l’io lirico dei Fiori del Male di Baudelaire, come dichiara giustamente Auerbach [6], quella crisi dell’individuo, dell’uomo cartesiano che si impone come uno dei temi principali della grande letteratura europea della prima metà del Novecento: Mattia Pascal, Zeno Cosini, Stephen Dedalus, Josef K., Ulrich, Hans Castorp, Bernardo Soares, Roquentin e Meursault sono tutti figli ideali di Ivàn Karamazov [7].

Figlio, come Alëša, della povera Sòf’ja Ivànovna, la klikuša, oltre che di Fëdor Pàvlovič [8], dopo la prematura morte della madre Ivàn è costretto a spostarsi da una famiglia all’altra. Fin dall’infanzia si dimostra cupo e introverso, e dotato di un’inconsueta e spiccata attitudine allo studio – insomma, la sua vocazione intellettuale si manifesta subito. A tredici anni inizia a frequentare un ginnasio di Mosca, al termine del quale si iscrive all’università. Ivàn studia e, contemporaneamente, significativa dimostrazione della sua forte, determinata, ambiziosa, orgogliosa personalità, si guadagna da vivere impartendo lezioni di venti copeche l’una e, soprattutto, fornendo ai giornali articoletti di dieci righe dedicati a fatti di cronaca e firmati “Il testimone oculare”.

«Dicono che questi articoletti fossero sempre scritti in modo così originale e piccante che presto diventarono di moda, e già solo con questo il giovane dimostrò tutta la sua superiorità pratica e intellettuale su quella folta schiera di studenti d’ambo i sessi, eternamente bisognosa e disgraziata, che nelle nostre città ha l’abitudine di assediare da mattina a sera le porte dei giornali e delle riviste, senza saper escogitare nulla di meglio che ripetere sempre la solita richiesta di traduzioni dal francese o lavori di copiatura» [9].

Dai gustosi articoletti di cronaca Ivàn passa alle recensioni e ciò gli permette di farsi conoscere nei circoli letterari. Terminati gli studi di storia universale, raggiunge una discreta fama con un articolo dedicato ai tribunali ecclesiastici e, più in generale, al rapporto tra Chiesa e Stato. È in questo momento che Ivàn fa ritorno nella casa paterna, nella paradossale veste di paciere tra Fëdor Pàvlovič e Mìtja [10]. Ha ormai ventiquattro anni.

V.II. Ivàn diviso. Dall’esaltazione della Chiesa alla distruzione dell’immortalità

Del contenuto dell’articolo di Ivàn dedicato ai tribunali ecclesiastici e al rapporto tra Chiesa e Stato, veniamo a conoscenza durante la memorabile riunione della famiglia Karamazov nella cella dello stàrec Zòsima, prima dell’arrivo di Mìtja. Questa la tesi sostenuta da Ivàn, in risposta al libro Fondamenti di giustizia ecclesiastica, scritto da un religioso:

«L’ecclesiastico cui ho risposto afferma che la Chiesa occupa nello Stato un posto preciso e ben definito. Ma io gli ho obiettato che la Chiesa deve invece includere in sé tutto lo Stato, e non limitarsi a occuparne solo un angolo; se per qualche ragione questo è oggi impossibile, tuttavia non c’è dubbio che, in sostanza, tale deve essere lo scopo diretto e fondamentale di tutto lo sviluppo a venire della società cristiana (78).

Una tesi – sorprendentemente – solovëviana che entusiasma i religiosi, persino il colto e austero padre Pàisij. Ivàn sostiene che non deve essere la Chiesa a convertirsi in Stato, come ha fatto la Chiesa di Roma, tradendo e traviando imperdonabilmente Cristo e cedendo così alla terza tentazione del diavolo, ma lo Stato in Chiesa, o meglio, ricorrendo alle parole di padre Pàisij, «è lo Stato che deve infine riuscire a mostrarsi degno di diventare Chiesa» (80). Da ciò, continua Ivàn, deriverebbe una giustizia meno barbara, violenta rispetto a quella presente, inutile e anzi nociva, come ha avuto modo di verificare Dostoevskij in prima persona durante i quattro anni di katorga rievocati artisticamente nelle Memorie di una casa morta [11], e più umana, giusta, efficace, cristiana in una sola parola, secondo una totale riconsiderazione del concetto di pena, non più inteso nel senso di esclusione, di emarginazione, di «meccanica recisione del membro infetto», ma di «redenzione», «resurrezione», «salvezza». A Ivàn, incredibile ma vero, fa eco lo stàrec Zòsima:

«Tutte queste condanne ai lavori forzati, precedute da percosse, non correggono nessuno, ma soprattutto non spaventano quasi nessun delinquente, e il numero dei crimini non solo non diminuisce, ma più il tempo passa, più aumenta. […] Ne consegue che in questo modo la società non è affatto tutelata, perché anche se l’individuo pericoloso è meccanicamente reciso e allontanato da ogni sguardo, subito compare al suo posto un altro delinquente, e forse anche due. Se c’è qualcosa che preserva la società anche ai nostri giorni e corregge il delinquente stesso, facendone un altro uomo, è ancora sempre e solo la legge di Cristo, che si fa sentire nel riconoscimento della propria coscienza» (81).

È Cristo, sempre e comunque Cristo la risposta, la soluzione, l’alternativa all’oscuro stato presente delle cose, nella fattispecie in relazione al problema della giustizia, della necessaria e urgente riforma della giustizia, che si impone come uno dei temi principali e più delicati dei Fratelli Karamazov, come ho già tentato di evidenziare in conclusione del primo capitolo di questo contributo. Cristo, supremo «Credo» – come lo definisce Dostoevskij nella celebre lettera alla Fonvìzina del 1854, scritta proprio in occasione della liberazione dalla fortezza di Omsk, dopo i quattro anni di katorga [12] – e ideale umano opposto al sottosuolo – i due poli, positivo e negativo, del pensiero dostoevskiano [13] -, di cui Ivàn è l’ultimo, estremo, definitivo rappresentante, anche se l’articolo sin qui discusso farebbe pensare il contrario. Ma il lato oscuro di Ivàn non tarda a emergere, e subito dopo dilagare nel romanzo, portato alla luce dal suo rivale intellettuale, Miùsov, che, così facendo, si vendica del successo ottenuto dal giovane Karamazov:

«Non più di cinque giorni fa […] eglì dichiarò solennemente nel corso di una discussione che non c’è assolutamente nulla a questo mondo che obblighi gli uomini ad amare i propri simili, che una legge di natura per cui l’uomo debba amare l’umanità non esiste affatto, e che se finora sulla terra c’è e c’è stato l’amore, non è per una legge naturale, ma unicamente perché gli uomini hanno creduto alla propria immortalità. Ivàn Fëdorovič aggiunse tra parentesi che ogni legge di natura si fonda proprio su questo: se distruggete nel genere umano la fede nella propria immortalità, senz’altro si prosciugherà in lui non soltanto l’amore, ma ogni energia vitale capace di perpetuare la vita nel mondo. Non basta: a quel punto non ci sarebbe più nulla di immorale, tutto sarebbe lecito, anche l’antropofagia. Ma non basta ancora: egli concluse affermando che per ogni singolo individuo […] che non creda né in Dio, né nella propria immortalità, la legge naturale deve immediatamente convertirsi in qualcosa di completamente opposto all’antica legge religiosa, e che l’egoismo spinto fino al delitto non solo deve essere permesso all’uomo, ma persino riconosciuto come la soluzione necessaria, la più ragionevole, e quasi la più nobile, nelle sue condizioni» (86).

Ecco, è in questo preciso istante, in questa precisa pagina dei Fratelli Karamazov che il pensiero negativo, ateo, anarchico, distruttivo, egoistico, nichilistico – stirneriano, in una sola parola – di Ivàn, culminante e sintetizzabile nella lapidaria formula tutto è permesso, irrompe prepotente nell’opera, in tutto il suo radicalismo, segnandola indelebilmente, listandola a lutto. Smascherato dall’invidioso rivale, Ivàn non si scompone, anzi, conferma e sottoscrive quanto detto da Miùsov: «Sì, ho affermato questo. Non c’è virtù, se non c’è immortalità» (87). Ivàn giustifica così, restando nell’ambito dell’umanità di Dostoevskij, Raskòl’nikov, Svidrigàjlov, Rogožin, Stavrògin e tutti gli altri demòni. Inaudito. Ma l’esaltazione della Chiesa? Uno scherzo intellettuale di cattivo gusto e niente di più? Non proprio, perché come confessa allo stàrec Zòsima, Ivàn non ha scherzato del tutto. L’uomo diviso, dunque, ancora una volta, e nella sua forma più complessa e sanguinosa tra tutti i personaggi dei Fratelli Karamazov. Del violento conflitto interiore tra Cristo, «che si fa sentire nel riconoscimento della propria coscienza», e il nulla, ovvero il sottosuolo, che strazia Ivàn, già in questo passo del romanzo viene dichiarata l’irrisolvibilità: «Se non può risolversi in senso affermativo, non si risolverà mai neanche in senso negativo, voi stesso conoscete questa caratteristica del vostro cuore; e sta in ciò il suo strazio» (87), parola dello stàrec Zòsima. E proprio nell’irrisolvibilità del conflitto risiede probabilmente la ragione del differente epilogo esistenziale di Ivàn rispetto agli altri nichilisti di Dostoevskij: non il suicidio, come Svidrigàjlov, Stavrògin, Kirìllov, Kraft, ma la follia.

V.III. Ribelle, non rivoluzionario

Il conflitto che dilania Ivàn non si risolverà mai né in senso positivo né in senso negativo, fino a condurlo allo sdoppiamento e alla follia, ma il giovane intellettuale è incline decisamente al secondo esito e nella sua forma più estrema. Per Ivàn l’inesistenza di Dio e dell’immortalità è una verità acquisita, da cui consegue l’idea distruttiva e sommamente immorale, al di là del bene e del male, del tutto è permesso. A questa visione nichilistica si contrappone la visione cristiana, che nel romanzo ha nello stàrec Zòsima il suo massimo interprete e rappresentante, e di cui Alëša è il discepolo prediletto. I due fratelli si trovano dunque agli antipodi, l’uno, il maggiore, estremo sostenitore della negazione, l’altro, il minore, dell’affermazione, sebbene in una posizione meno salda – inevitabilmente, data la condizione in fieri, in divenire della sua giovane coscienza – rispetto al maestro Zòsima. Due posizioni diametralmente opposte, che si confrontano e si scontrano più volte nel corso del romanzo, come nel caso di questo rapido e serrato botta e risposta alimentato dal padre:

«Ora dimmi, però: Dio c’è o non c’è? Ma sul serio! Adesso ho bisogno di parlare sul serio».
«No, Dio non c’è».
«Piccolo Alëša, Dio c’è?»
«Dio c’è».
«Ivàn, e l’immortalità esiste? Un’immortalità qualunque, anche piccola, minuscola?»
«No, neanche l’immortalità».
«Di nessun genere?»
«Di nessun genere».
«Cioè zero assoluto, nulla di nulla. Ma almeno qualcosina ci sarà? Sarebbe sempre meglio del nulla!».
«Zero assoluto».
«Alëša, esiste l’immortalità?»
«Esiste».
«Dio e l’immortalità?»
«Sia Dio che l’immortalità. È in Dio che risiede l’immortalità».
«Sarà… È più probabile che abbia ragione Ivàn. Oh Signore, e pensare quanta fede, quante energie di ogni genere ha speso inutilmente l’uomo per questo miraggio, e da quante migliaia di anni! Allora chi si prende gioco dell’uomo? Ivàn, per l’ultima volta e senza mezzi termini: Dio c’è o non c’è? Per l’ultima volta!».
«Per l’ultima volta, no!».
«Allora chi si prende gioco degli uomini, Ivàn?»
«Deve essere il diavolo» […].
«Ma il diavolo esiste?»
«No, neanche il diavolo».
«Peccato. Al diavolo, cosa non farei al primo che ha inventato Dio! Anche impiccarlo a un pioppo sarebbe poco!».
«Non ci sarebbe stata civiltà se non avessero inventato Dio».
«Non ci sarebbe stata? Come, senza Dio?».
«Già […]» (150).

In questo breve, ma serrato e significativo dialogo, emerge un ulteriore aspetto del negativo e radicale pensiero di Ivàn: se la civiltà è direttamente collegata all’invenzione di Dio, a tal punto che senza la seconda non ci sarebbe stata la prima, negare Dio equivale a negare l’intera civiltà, e si ricordino ancora una volta le parole di Miùsov riportate nel paragrafo precedente: «se distruggete nel genere umano la fede nella propria immortalità, senz’altro si prosciugherà in lui non soltanto l’amore, ma ogni energia vitale capace di perpetuare la vita nel mondo», «l’egoismo spinto fino al delitto non solo deve essere permesso all’uomo, ma persino riconosciuto come la soluzione necessaria, la più ragionevole, e quasi la più nobile». Più che socialista – nei Fratelli Karamazov il vero socialista è Rakìtin, il parassita arrivista – Ivàn è un anarchico, alla maniera di Stirner, e servendoci proprio della distinzione operata dal pensatore tedesco, il vero distruttore dell’intera storia della filosofia, più di Nietzsche, incapace di eguagliarlo, possiamo dire che egli non è un rivoluzionario, come lo sono i demòni, ma un ribelle:

«Rivoluzione e ribellione non devono essere considerati sinonimi. La prima consiste in un rovesciamento della condizione sussistente o status, dello Stato o della società, ed è perciò un’azione politica o sociale; la seconda porta certo, come conseguenza inevitabile, al rovesciamento delle condizioni date, ma non parte di qui, bensì dall’insoddisfazione degli uomini verso se stessi, non è una levata di scudi, ma un sollevamento dei singoli, cioè un emergere ribellandosi, senza preoccuparsi delle istituzioni che ne dovrebbero conseguire. La rivoluzione mirava a creare nuove istituzioni, la ribellione ci porta a non farci più governare da istituzioni, ma a governarci noi stessi, e perciò non ripone alcuna radiosa speranza nelle “istituzioni”. Essa non è una lotta contro il sussistente, poiché, se essa appena cresce, il sussistente crolla da sé, essa è solo un processo con cui mi sottraggo al sussistente. E se abbandono il sussistente, ecco che muore e si decompone. Ma siccome il mio scopo non è il rovesciamento di un certo sussistente, bensì il mio sollevarmi al di sopra di esso, la mia intenzione e la mia azione non hanno carattere politico e sociale, ma invece egoistico, giacché sono indirizzate solo a me stesso e alla mia propria individualità» [14].

Ivàn non è un socialista, così come si spinge al di là del bene e del male si spinge al di là del socialismo, incarnandone l’esito estremo, per come lo intende Dostoevskij stesso: «Tutto il socialismo è derivato e ha preso le mosse dalla negazione del senso della realtà storica per concludere con il programma della distruzione e dell’anarchia», scrive lo scrittore russo in una lettera a Ljubimov del 10 maggio 1879 [15], proprio in riferimento alla figura e al pensiero di Ivàn. Una ulteriore prova del carattere negativamente definitivo, estremo di questo personaggio fondamentale nella storia della letteratura e del pensiero occidentali ad esso successive.

V.IV. Il diritto di desiderare

A interrompere il colloquio tra Fëdor Pàvlovič e i due figli, di cui sopra ho riportato un passo, interviene Mìtja, che si avventa sul padre e lo colpisce fino a farlo sanguinare. Successivamente Ivàn e Alëša si trovano a commentare l’accaduto (dopo la funesta profezia del primo: «Un rettile divorerà l’altro, è la loro sorte comune»):

«Fratello, lascia che ti faccia un’ultima domanda: possibile che ogni uomo abbia il diritto di guardare i suoi simili e decidere chi di essi meriti di vivere e chi no?»
«Perché farne una questione di meriti? Il più delle volte il cuore umano non risolve questo problema considerando i meriti, ma sulla base di altri motivi, ben più naturali. Quanto al diritto, poi, chi non ha il diritto di desiderare?»
«Non la morte di un altro, però!».
«E se fosse anche la morte? A che scopo mentire a se stesso, quando tutti gli uomini vivono così, e forse non possono vivere altrimenti?» (158).

Vengono in mente le parole di Cioran, quando, in Sommario di decomposizione – tema, tra l’altro, centrale nei Fratelli Karamazov, con l’opposto destino dei cadaveri dello stàrec Zòsima e del piccolo Il’juša, scandalosamente aggredito dalla decomposizione il primo, miracolosamente preservato il secondo -, scrive che se «tutti coloro che abbiamo ucciso col pensiero scomparissero davvero, la terra non avrebbe più abitanti» [16]. Ivàn rivendica con forza il diritto di desiderare, anche la morte di un altro uomo, anche la morte del proprio padre, strettamente legato all’idea distruttiva e anarchica del tutto è permesso, ed è proprio da questo desiderio che scaturisce il drammatico precipitare degli eventi. Ivàn, spinto dal desiderio di uccidere il padre per ricevere la cospicua eredità, sbarazzarsi di Mìtja e legarsi a Kàtja [17], di cui è follemente innamorato, lasciando Skotoprigònevsk autorizza Smerdjàkov a mettere in pratica il suo diabolico piano. Inoltre, è qui che Dostoevskij compare nel suo ultimo romanzo non solo come autore – naturalmente – e padre – attraverso le considerazioni sulla paternità ispirate dalla disgustosa condotta di Fëdor Pàvlovič -, ma anche come figlio. Mi riferisco al celebre saggio di Freud Dostoevskij e il parricidio, del 1927, in cui il filosofo e psicanalista sostiene che in seguito all’assassinio del padre, avvenuto nel 1839 e per mano dei suoi stessi contadini – dato che rivela lo spessore brutale dell’uomo -, lo scrittore russo sia stato vittima di un gravissimo complesso di colpa per aver desiderato la morte del genitore. In questo modo l’ultima opera di Dostoevskij si arricchisce di ulteriori, profondi, oscuri, inquietanti significati, a tal punto che per il rapporto tra lo scrittore russo e i suoi Fratelli Karamazov si potrebbe dire ciò che Kleist dice di se stesso e della sua Pentesilea [18]: «c’è dentro la mia più intima natura […]: tutta la sozzura e a un tempo lo splendore dell’anima mia» [19]. Lo splendore ovvero lo stàrec Zòsima, la sozzura ovvero Ivàn, e non solo in relazione all’interpretazione freudiana, ma anche all’esperienza della negazione e del dubbio, familiarissima a Dostoevskij, e si pensi a ciò che scrive nella già citata lettera alla Fonvìzina, qualche riga prima dell’esposizione del suo «Credo», dove si definisce «figlio della miscredenza e del dubbio», dichiarando peraltro che tale resterà «fino alla tomba» [20], oppure in uno degli ultimi appunti della sua vita, e proprio relativamente alla figura e al pensiero di Ivàn: «Neppure in Europa vi sono state, né vi sono, delle affermazioni ateistiche di tale forza. Dunque io non credo in Cristo e non professo la sua fede come un bambino, ma il mio osanna è passato attraverso il grande crogiolo dei dubbi» [21].

NOTE

[1] Per un approfondimento sull’opera rimando agli articoli Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parte, Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Seconda parte.

[2] Per un approfondimento su Raskòl’nikov e il romanzo di cui è protagonista rimando all’articolo Delitto e castigo, dalla dialettica alla vita.

[3] Per un approfondimento sul protagonista e gli altri due personaggi dei Demòni rimando agli articoli Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parte, Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Seconda parte, Aleksèj Niljč Kirillov, l’Uomo-Dio, Scigaliovismo.

[4] Per un approfondimento sul personaggio rimando all’articolo Personaggi e temi dell’«Adolescente» di Dostoevskij. Capitolo quinto – Kraft e Olja ovvero l’epidemia dei suicidi.

[5] Per un approfondimento sul pensatore tedesco e la sua filosofia anarchico-egoistica rimando all’articolo Max Stirner, L’unico e la sua proprietà.

[6] «[…] il significato storico dei Fleurs du Mal è ormai incontestabile. La figura umana che in essi viene alla luce non è meno indicativa sia del disgregarsi, sia, se vogliamo, del trasformarsi della tradizione europea di quanto non sia Ivàn Karamazov» (Erich Auerbach, Da Montaigne a Proust. Ricerche sulla storia della cultura francese, traduzione di Giorgio Alberti, Anna Maria Carpi, Vittoria Ruberl, Garzanti, Milano 1973). Per un approfondimento sul rapporto tra lo scrittore russo e il poeta francese rimando all’articolo Dostoevskij e Baudelaire, vaporizzazione e centralizzazione dell’io.

[7] Per un approfondimento sulle opere di cui questi personaggi sono protagonisti rimando agli articoli Vivo morto, morto vivo… insomma, Mattia Pascal, La coscienza di Zeno: originalità e malattia della vita, Lo sviluppo artistico-intellettuale di Stephen Dedalus nel Ritratto dell’artista da giovane, L’Ulisse di Joyce: amor matris, Franz Kafka, Il processo: colpevole senza colpa e per legge di natura, Ulrich, l’uomo senza qualità. Prima parte, Ulrich, l’uomo senza qualità. Seconda parte, L’evoluzione di Hans Castorp ne La montagna incantata di Thomas Mann, Dal non-Libro dell’inquietudine: una conversazione, Soares-Pessoa, fenomenologia del tedio, Jean-Paul Sartre, La nausea: l’Assurdità chiave dell’Esistenza, Albert Camus, Lo straniero: dall’insensibilità alla vita.

[8] Per un approfondimento sul vecchio Karamazov rimando al capitolo primo del presente contributo: Fëdor Pàvlovič, un padre del nostro tempo.

[9] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 34. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[10] Per un approfondimento sul maggiore dei fratelli Karamazov rimando al capitolo secondo del presente contributo: Mìtja, una candela che brucia da entrambi i lati.

[11] Per un approfondimento sul romanzo rimando agli articoli Dostoevskij e l’esperienza di vita della katorga: lettura delle «Memorie di una casa morta». IntroduzioneDostoevskij e l’esperienza di vita della katorga: lettura delle «Memorie di una casa morta». Prima parteDostoevskij e l’esperienza di vita della katorga: lettura delle «Memorie di una casa morta». Seconda parte.

[12] «Questo Credo è molto semplice, e suona così: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c’è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità» (Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 51).

[13] Per un approfondimento sul pensiero dello scrittore russo rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.

[14] Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, traduzione di Leonardo Amoroso, Adelphi, Milano 2009, pp. 330-331.

[15] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, cit., p. 155.

[16] Emil Cioran, Sommario di decomposizione, traduzione di Mario Andrea Rigoni e Tea Turolla, Adelphi, Milano 1996.

[17] Per un approfondimento sulla fidanzata di Mìtja rimando al capitolo terzo del presente contributo: L’orgogliosa Kàtja.

[18] Per un approfondimento sulla tragedia rimando all’articolo La bestiale Pentesilea di Heinrich von Kleist.

[19] Kleist alla cugina Marie in una lettera del 1807. Citato in Anna Chiarloni, Nota introduttiva a Heinrich von Kleist, Pentesilea, Einaudi, Torino 1989.

[20] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, cit., p. 51.

[21] Citato in Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 45.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: