In apertura della terza e ultima parte dei Promessi sposi [1], quella in cui la tragedia della Storia raggiunge il culmine attraverso le tre piaghe bibliche della carestia, della guerra e della peste, con il romanzo che, di conseguenza, raggiunge le sue massime vette drammatiche, Manzoni torna sugli effetti della rivolta milanese di san Martino, effetti deleteri che mostrano evidentemente come la mobilitazione e l’azione di una massa incosciente, ineducata ai principi evangelici, non possa produrre niente di buono: «due erano stati, alla fin de’ conti, i frutti principali della sommossa: guasto e perdita effettiva di viveri, nella sommossa medesima; consumo, fin che durò la tariffa, largo, spensierato, senza misura, a spese di quel poco grano che pur doveva bastare fino alla nuova raccolta. A questi effetti generali s’aggiunga quattro disgraziati, impiccati come capi del tumulto: due davanti al forno delle grucce, due in cima della strada dov’era la casa del vicario di provvisione» [2]. Insomma, la carestia che flagella il milanese affonda le radici anche nella scellerata giornata di san Martino, ed è terribile il quadro della città affamata, le strade ingombre di accattoni, di garzoni, operai, maestri, servitori, persino bravi senza lavoro, con i loro bambini, le loro donne, i loro vecchi, una «deplorabile turba» rimpolpata dai contadini stremati, cacciati e derubati dai soldati, trasferitisi in città in cerca di fortuna, e dove trovano invece solamente altra miseria.
«A ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di patimenti. Gli accattoni di mestiere, diventati ora il minor numero, confusi e perduti in una nuova moltitudine, ridotti a litigar l’elemosina con quelli talvolta da cui in altri giorni l’avevan ricevuta. Garzoni e giovani licenziati da padroni di bottega, che, scemato o mancato affatto il guadagno giornaliero, vivevano stentatamente degli avanzi e del capitale; de’ padroni stessi, per cui il cessar delle faccende era stato fallimento e rovina; operai, e anche maestri d’ogni manifattura e d’ogn’arte, delle più comuni come delle più raffinate, delle più necessarie come di quelle di lusso, vaganti di porta in porta, di strada in istrada, appoggiati alle cantonate, accovacciati sulle lastre, lungo le case e le chiese, chiedendo pietosamente l’elemosina, o esitanti tra il bisogno e una vergogna non ancor domata, smunti, spossati, rabbrividiti dal freddo e dalla fame ne’ panni logori e scarsi, ma che in molti serbavano ancora i segni d’un’antica agiatezza; come nell’inerzia e nell’avvilimento, compariva non so quale indizio d’abitudini operose e franche. Mescolati tra la deplorabile turba, e non piccola parte di essa, servitori licenziati da padroni caduti allora dalla mediocrità nella strettezza, o che quantunque facoltosissimi si trovavano inabili, in una tale annata, a mantenere quella solita pompa di seguito. E a tutti questi diversi indigenti s’aggiunga un numero d’altri, avvezzi in parte a vivere del guadagno di essi: bambini, donne, vecchi, aggruppati co’ loro antichi sostenitori, o dispersi in altre parti all’accatto.
C’eran pure, e si distinguevano ai ciuffi arruffati, ai cenci sfarzosi, o anche a un certo non so che nel portamento e nel gesto, a quel marchio che le consuetudini stampano su’ visi, tanto più rilevato e chiaro, quanto più sono strane, molti di quella genìa de’ bravi che, perduto, per la condizion comune, quel loro pane scellerato, ne andavan chiedendo per carità. Domati dalla fame, non gareggiando con gli altri che di preghiere, spauriti, incantati, si strascicavan per le strade che avevano per tanto tempo passeggiate a testa alta, con isguardo sospettoso e feroce, vestiti di livree ricche e bizzarre, con gran penne, guarniti di ricche armi, attillati, profumati; e paravano umilmente la mano, che tante volte avevano alzata insolente a minacciare, o traditrice a ferire.
Ma forse il più brutto e insieme il più compassionevole spettacolo erano i contadini, scompagnati, a coppie, a famiglie intere; mariti, mogli, con bambini in collo, o attaccati dietro le spalle, con ragazzi per la mano, con vecchi dietro. Alcuni che, invase e spogliate le loro case dalla soldatesca, alloggiata lì o di passaggio, n’eran fuggiti disperatamente; e tra questi ce n’era di quelli che, per far più compassione, e come per distinzione di miseria, facevan vedere i lividi e le margini de’ colpi ricevuti nel difendere quelle loro poche ultime provvisioni, o scappando da una sfrenatezza cieca e brutale. Altri, andati esenti da quel flagello particolare, ma spinti da que’ due da cui nessun angolo era stato immune, la sterilità e le gravezze, più esorbitanti che mai per soddisfare a ciò che si chiamava i bisogni della guerra, eran venuti, venivano alla città, come a sede antica e ad ultimo asilo di ricchezza e di pia munificenza. Si potevan distinguere gli arrivati di fresco, più ancora che all’andare incerto e all’aria nuova, a un fare maravigliato e indispettito di trovare una tal piena, una tale rivalità di miseria, al termine dove avevan creduto di comparire oggetti singolari di compassione, e d’attirare a sé gli sguardi e i soccorsi. Gli altri che da più o men tempo giravano e abitavano le strade della città, tenendosi ritti co’ sussidi ottenuti o toccati come in sorte, in una tanta sproporzione tra i mezzi e il bisogno, avevan dipinta ne’ volti e negli atti una più cupa e stanca costernazione. Vestiti diversamente, quelli che ancora si potevano dir vestiti; e diversi anche nell’aspetto: facce dilavate del basso paese, abbronzate del pian di mezzo e delle colline, sanguigne di montanari; ma tutte affilate e stravolte, tutte con occhi incavati, con isguardi fissi, tra il torvo e l’insensato; arruffati i capelli, lunghe e irsute le barbe: corpi cresciuti e indurati alla fatica, esausti ora dal disagio; raggrinzata la pelle sulle braccia aduste e sugli stinchi e sui petti scarniti, che si vedevan di mezzo ai cenci scomposti. E diversamente, ma non meno doloroso di questo aspetto di vigore abbattuto, l’aspetto d’una natura più presto vinta, d’un languore e d’uno sfinimento più abbandonato, nel sesso e nell’età più deboli.
Qua e là per le strade, rasente ai muri delle case, qualche po’ di paglia pesta, trita e mista d’immondo ciarpume. E una tal porcheria era però un dono e uno studio della carità; eran covili apprestati a qualcheduno di que’ meschini, per posarci il capo la notte. Ogni tanto, ci si vedeva, anche di giorno, giacere o sdraiarsi taluno a cui la stanchezza o il digiuno aveva levate le forze e tronche le gambe: qualche volta quel tristo letto portava un cadavere: qualche volta si vedeva uno cader come un cencio all’improvviso, e rimaner cadavere sul selciato» (403-405).
Colpisce il ritratto degli affamati: la miseria prosciuga l’individuo. Ed è terribile la colonna sonora della città afflitta dalla piaga della carestia: «Tutto il giorno, si sentiva per le strade un ronzìo confuso di voci supplichevoli; la notte, un sussurro di gemiti, rotto di quando in quando da alti lamenti scoppiati all’improvviso, da urli, da accenti profondi d’invocazione, che terminavano in istrida acute» (406). Eppure, in questo stato di estrema miseria, nessuno si ribella: «noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi; sopportiamo, non rassegnati ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile» (406-407).
Alla piaga della carestia si aggiunge quella dei Lanzichenecchi, «demòni» che spargono violenza e distruzione, rubano, stuprano, bruciano. Non solo, le «bande alemanne» diffondono la peste. La prima vittima del morbo è la ragione, ed è proprio su questo colpevole e assurdo annebbiamento degli umani intelletti che Manzoni, indossati in tutto e per tutto gli abiti dello storico, si sforza di evidenziare e dunque stigmatizzare. La peste diffonde un «celebre delirio», di cui l’elemento linguistico è una significativa, emblematica dimostrazione: «In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro» (451). È fatale il tempo impiegato per accettare la realtà dei fatti, che viene immediatamente alterata dalla superstiziosa credenza degli untori, e in un simile contesto, dominato dall’irrazionalità e dalla follia, il morbo ha gioco facile, diffondendosi a macchia d’olio e facendo strage. Della crisi della ragione un vivido esempio è rappresentato dal caso del protofisico Lodovico Settala, condannato dal popolo perché sostenitore dell’esistenza dell’epidemia, quando da questo stesso popolo era stato esaltato per il suo impegno contro una presunta strega, Caterina Medici, ritenuta colpevole anche dall’illuminato cardinale Borromeo, torturata e condannata a morte: «Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d’amici, che per sorte era vicina. Questo gli toccò per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone: quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei, allora ne avrà avuta presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di benemerito» (445-446). Durante l’epidemia il Seicento-Medioevo tira fuori il peggio di sé, con il trionfo di pregiudizi funesti a cui nessuno, come la peste, è immune, neppure Borromeo, che autorizza la processione delle reliquie di san Carlo. La processione si rivela una mera, ridicola manifestazione superstiziosa, che non fa altro che favorire il contagio, furioso, con le morti che si moltiplicano già il giorno seguente. Naturalmente la causa viene individuata ancora nelle unzioni e nei malefici: la ragione è abolita.
«Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d’un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, né appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all’occhio così attento, e pur così travedente, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su’ muri, né altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell’altro ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d’Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de’ vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi. “Vide pertanto,” dice uno scrittore contemporaneo, “l’istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l’empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l’acquisto.” Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co’ fantasmi creati da sé» (460).
Le perversità, dei monatti soprattutto, si diffondono, si moltiplicano; dilaga la follia, che distrugge i più elementari rapporti umani. Insomma, la società va in frantumi. Persino l’intelletto dei dotti è annebbiato, con il ricorso all’astrologia e alla magia che diviene pratica diffusa, comune. Il volgo e la comunità scientifica, medici inclusi, formano così una sola «massa enorme e confusa di pubblica follia». Il buon senso resiste, ma se ne sta nascosto, per paura del senso comune, pronto a scagliarvisi contro. Le istituzioni, la cui presenza nel XVII secolo è labile di per sé, scompaiono del tutto, e il mondo è in balia del caos, dell’immoralità, della pazzia. Manzoni realizza un quadro davvero terribile, completamente nero, della non-società devastata dalla peste, in cui emerge tutta l’assurdità dell’essere umano, che, invece di tentare di opporsi allo sfacelo, vi precipita, dimentico di ogni possibile alternativa. Il morbo, di nuovo, attacca innanzitutto la ragione degli uomini, la distrugge e nessuno può dirsi al riparo da questa piaga, l’ultima e spaventosa dei Promessi sposi. La civiltà, risultato di un processo storico, conoscitivo e al tempo stesso spirituale, lungo secoli, si sgretola e l’uomo regredisce ad uno stato primitivo in cui tutto è permesso. Ma un tale delirio non fa che dimostrare la fragilità della società nel quale attecchisce e prolifica, la società secentesca, e allora… allora, forse, accogliendo provocatoriamente una battuta di don Abbondio su cui torneremo più avanti, era necessario proprio un simile, clamoroso, devastante rivolgimento per ricostruire e fondare una civiltà nuova, e infatti, simbolicamente, al Seicento-Medioevo, di cui la parentesi dell’epidemia pestilenziale rappresenta il momento più basso e oscuro, seguirà il secolo dei lumi, nel quale la coscienza intellettuale di Manzoni affonda in profondità le radici.
Tra le vittime della peste vi è anche il malvagio don Rodrigo, che, dopo una serata di sfrenata gozzoviglia, sogna fra Cristoforo e al mattino scopre, tra il cuore e l’ascella, «un sozzo bubbone d’un livido paonazzo»:
«Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s’addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo. E d’uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, ché non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e n’era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da’ rotti si vedevano macchie e bubboni. “Largo canaglia!” gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch’era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que’ sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl’insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d’avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l’ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta più forte. Strepitava, era tutt’affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que’ visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell’attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand’urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo» (472).
Si tratta di una pagina davvero straordinaria, in cui si coglie tutto il terrore dell’uomo perduto, terrore ancor più penetrante perché inconscio, in uno spettacolare incontro tra il rimosso, di cui fra Cristoforo è l’emblema, e il male reale, il cui dolore acuto penetra nella dimensione onirica condizionandola. Disperato, don Rodrigo ordina al Griso, che ha già capito tutto e con largo anticipo, dalla sera precedente, di chiamare il medico, ma il bravo lo tradisce, conducendo in casa del signore i diabolici monatti: «Tutt’a un tratto, sente uno squillo lontano, ma che gli par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente più forte, più ripetuto, e insieme uno stropiccìo di piedi: un orrendo sospetto gli passa per la mente. Si rizza a sedere, e si mette ancor più attento; sente un rumor cupo nella stanza vicina, come d’un peso che venga messo giù con riguardo; butta le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guarda all’uscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare» (474). Una scena dall’intensità cinematografica, con il sapiente passaggio dal passato remoto al presente che accresce la tensione. Il Griso ha tradito don Rodrigo per mettere le mani sulle sue ricchezze, che però non riesce a godersi per molto tempo, vittima anch’egli della peste, e già il giorno successivo, spirando in un carro trainato da quegli stessi monatti che aveva introdotto in casa del padrone e con i quali si era spartito il ricco bottino (attento a non sfiorare don Rodrigo, il Griso ne aveva ispezionato gli abiti, questo il suo fatale errore).
In questa fase finale dei Promessi sposi si verifica un’impennata drammatica, sapientemente introdotta dai capitoli storici dedicati alla peste, come dimostrano già le pagine riservate alla triste sorte di don Rodrigo, che raggiunge il picco massimo quando l’obiettivo torna finalmente a posarsi su Renzo, per non abbandonarlo più. Anche Renzo è stato contagiato dal male, ma, grazie alla sua costituzione, robusta e resistente, è riuscito a guarire, e questo gli permette, nel suo viaggio infernale alla ricerca di Lucia, di muoversi liberamente, senza dover temere nulla. Insomma, la guarigione agisce come una sorta di salvacondotto e permette al lettore, attraverso il protagonista, di esplorare da vicino, dettagliatamente il mondo sconvolto dalla peste, in un’esperienza immersiva. Renzo lascia il bergamasco e, per prima cosa, si reca nel suo paese natale, dove regna un inquietante e surreale silenzio mortuario. Qui incontra Tonio, reso irriconoscibile dalla follia («A chi la tocca, la tocca», ripete in continuazione l’uomo impazzito, in una specie di sinistro ritornello che compendia il senso tragico della catastrofe, in cui il destino umano si riduce a un mero colpo di fortuna), e don Abbondio, che recita il lungo elenco delle vittime mietute dal morbo, con un distacco raggelante, ma che evidenzia benissimo come ormai l’orrore sia diventato normalità, quasi formalità. Ma il momento più significativo del ritorno di Renzo nel paese natale, è rappresentato dalla visita alla sua vigna, che versa in uno stato di totale abbandono.
«E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda d’albero di quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. S’affacciò all’apertura (del cancello non c’eran più neppure i gangheri); diede un’occhiata in giro: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna “nel luogo di quel poverino,” come dicevano. Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l’aiuto della man dell’uomo. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’ rami, nelle foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avviticchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone» (480-481).
Il disfacimento del mondo, sprofondato nel caos, si riflette nel disfacimento della vigna di Renzo, depredata dai compaesani e abbandonata a se stessa, in un groviglio selvaggio che impressiona l’uomo che un tempo aveva dedicato ad essa attenzione e cure. Ma quel tempo ha lasciato spazio al disordine, alla barbarie e l’abbandono della terra ne è una dimostrazione inequivocabile. La vegetazione, libera dal controllo umano, torna a impossessarsi del lembo di terra reso desolato dallo sfacelo sociale in atto, «figura» del dominio degli istinti più brutali in un mondo privo della guida della ragione. Dopo aver indugiato qualche secondo sull’emblematico e simbolico spettacolo selvaggio offerto da quella che un tempo era la sua vigna, Renzo getta un’occhiata alla casa, violata, stuprata dai Lanzichenecchi, ma un’occhiata rapida, andandosene via subito, con le mani nei capelli. Troppo forte è il dolore, insostenibile.
Renzo corre a Milano, dove spera di ritrovare Lucia, di ritrovarla viva, e le pagine dedicate al suo secondo viaggio milanese sono davvero indimenticabili. Milano non è più una città, ma un inferno. Rispetto alla scellerata giornata di san Martino, Renzo ha subito la possibilità di rendersi davvero utile, donando il suo pane a una madre dimenticata. Rinchiusa in casa, nessuno si cura di lei e dei suoi figli. In ogni piazza e in ogni strada piuttosto spaziosa è collocata una macchina della tortura, mentre nelle strade deserte sfilano i carri dei morti: «Eran que’ cadaveri, la più parte ignudi, alcuni mal involtati in qualche cencio, ammonticchiati, intrecciati insieme, come un gruppo di serpi che lentamente si svolgano al tepore della primavera; ché, a ogni intoppo, a ogni scossa, si vedevan que’ mucchi funesti tremolare e scompaginarsi bruttamente, e ciondolar teste, e chiome verginali arrovesciarsi, e braccia svincolarsi, e batter sulle rote, mostrando all’occhio già inorridito come un tale spettacolo poteva divenire più doloroso e più sconcio» (491). Milano è un gigantesco trionfo della morte di medievale memoria, in cui Renzo si inoltra fino in fondo, e noi con lui, fin nel cuore, dove domina una surreale, disumana desolazione.
«Renzo s’abbatteva appunto a passare per una delle parti più squallide e più desolate: quella crociata di strade che si chiamava il carrobio di porta Nuova. (C’era allora una croce nel mezzo, e, dirimpetto ad essa, accanto a dove ora è san Francesco di Paola, una vecchia chiesa col titolo di sant’Anastasia). Tanta era stata in quel vicinato la furia del contagio, e il fetor de’ cadaveri lasciati lì che i pochi rimasti vivi erano stati costretti a sgomberare: sicché, alla mestizia che dava al passeggiero quell’aspetto di solitudine e d’abbandono, s’aggiungeva l’orrore e lo schifo delle tracce e degli avanzi della recente abitazione. Renzo affrettò il passo, facendosi coraggio col pensare che la meta non doveva essere così vicina, e sperando che, prima d’arrivarci, troverebbe mutata, almeno in parte, la scena; e infatti, di lì a non molto, riuscì in un luogo che poteva pur dirsi città di viventi; ma quale città ancora, e quali viventi! Serrati, per sospetto e per terrore, tutti gli usci di strada, salvo quelli che fossero spalancati per esser le case disabitate, o invase; altri inchiodati e sigillati, per esser nelle case morta o ammalata gente di peste; altri segnati d’una croce fatta col carbone, per indizio ai monatti, che c’eran de’ morti da portar via: il tutto più alla ventura che altro, secondo che si fosse trovato piuttosto qua che là un qualche commissario della Sanità o altro impiegato, che avesse voluto eseguir gli ordini, o fare un’angheria. Per tutto cenci e, più ributtanti de’ cenci, fasce marciose, strame ammorbato, o lenzoli buttati dalle finestre; talvolta corpi, o di persone morte all’improvviso, nella strada, e lasciati lì fin che passasse un carro da portarli via, o cascati da’ carri medesimi, o buttati anch’essi dalle finestre: tanto l’insistere e l’imperversar del disastro aveva insalvatichiti gli animi, e fatto dimenticare ogni cura di pietà, ogni, riguardo sociale! Cessato per tutto ogni rumor di botteghe, ogni strepito di carrozze, ogni grido di venditori, ogni chiacchierìo di passeggieri, era ben raro che quel silenzio di morte fosse rotto da altro che da rumor di carri funebri, da lamenti di poveri, da rammarichìo d’infermi, da urli di frenetici, da grida di monatti. All’alba, a mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci assegnate dall’arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane dell’altre chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a pregare in comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto» (492-493).
E arriviamo alle pagine in assoluto più drammatiche dei Promessi sposi, quelle dedicate alla tragica storia di Cecilia e di sua madre, supremo esempio di dignità, anche nel dolore più grande.
«Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl’ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s’incontrò in un oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.
Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, “no!” disse: “non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete.” Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: “promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.”
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: “addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri.” Poi voltatasi di nuovo al monatto, “voi,” disse, “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.”
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato» (494-495).
Una scena memorabile, di una tensione drammatica difficilmente eguagliabile. Il contegno dignitosissimo di questa mater dolorosa, il cui breve ma efficace ritratto è l’antitesi del ritratto di Gertrude, colpisce persino il diabolico monatto, fa breccia nel suo cuore inaridito, muovendolo a compassione, come già aveva fatto Lucia con il diabolico Nibbio. La madre di Cecilia accetta il proprio tragico destino con una compostezza straordinaria, e questo quadro di morte, ma anche, al tempo stesso, di umanità e di infinita pietà, si impone come uno dei più grandiosi dei Promessi sposi e quindi dell’intera storia della letteratura italiana. Manzoni eccede talvolta in sentimentalismo, è inevitabile, sono lo stesso genere e la stessa materia narrativa a richiederlo, ma non qui, non in questo passo, che si impone come uno dei maggiori monumenti letterari elevati all’umana dignità.
Nel desolato e infernale dedalo cittadino Renzo, come già nella scellerata giornata di san Martino, è vittima del fraintendimento, componente indissolubilmente legata al suo personaggio in fieri. Questa volta viene scambiato per un untore e rincorso dalla folla inferocita, riuscendo a salvarsi solamente grazie ai diabolici monatti. Preso posto sul macabro carro ingombro di morti, Renzo agguanta la salvezza, in un paradosso che sottolinea con eccezionale efficacia il disumano stato di disordine in cui è precipitato il mondo. «Va, va, povero untorello, […] non sarai tu quello che spianti Milano» (500), lo saluta un monatto. Renzo s’inoltra nel lazzeretto e qui è testimone oculare di uno spettacolo drammatico tanto quanto quello offerto dalla città desolata.
Nei Promessi sposi il lazzeretto si impone come il luogo per eccellenza del dolore e della disperazione, come confermano le parole di fra Cristoforo: «Cercala lì, cercala con fiducia e… con rassegnazione. Perché, ricordati che non è poco ciò che tu sei venuto a cercar qui: tu chiedi una persona viva al lazzeretto!» (510). Ma il lazzeretto, in cui, tra l’altro, il caos del mondo si manifesta nel modo più commovente e tenero, attraverso lo «spedale d’innocenti», dove le capre allattano i bambini, è anche luogo di speranza e di rinascita. Perché qui Renzo ritrova fra Cristoforo, la sua guida spirituale, e Lucia, in un andamento perfettamente ciclico. Ma prima di riabbracciare finalmente la donna amata, Renzo deve completare la sua formazione (in questo senso, egli è il vero protagonista del romanzo, che si configura come il tipico Bildungsroman), eliminando dal suo cuore ogni sentimento negativo, d’odio e di vendetta, e accogliendo definitivamente in sé il perdono. Ancora una volta è determinante l’intervento di fra Cristoforo, che redarguisce Renzo con enfasi, quella stessa enfasi con cui, all’inizio del romanzo, si scaglia verbalmente contro don Rodrigo.
«“Sciagurato!” gridò il padre Cristoforo, con una voce che aveva ripresa tutta l’antica pienezza e sonorità: “sciagurato!” e la sua testa cadente sul petto s’era sollevata; le gote si colorivano dell’antica vita; e il fuoco degli occhi aveva un non so che di terribile. “Guarda, sciagurato!” E mentre con una mano stringeva e scoteva forte il braccio di Renzo, girava l’altra davanti a sé, accennando quanto più poteva della dolorosa scena all’intorno. “Guarda chi è Colui che gastiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia! Va, sciagurato, vattene! Io, speravo… sì, ho sperato che, prima della mia morte, Dio m’avrebbe data questa consolazione di sentir che la mia povera Lucia fosse viva; forse di vederla, e di sentirmi prometter da lei che rivolgerebbe una preghiera là verso quella fossa dov’io sarò. Va, tu m’hai levata la mia speranza. Dio non l’ha lasciata in terra per te; e tu, certo, non hai l’ardire di crederti degno che Dio pensi a consolarti. Avrà pensato a lei, perché lei è una di quell’anime a cui son riservate le consolazioni eterne. Va! non ho più tempo di darti retta.”
[…] “Come!” riprese, con voce non meno severa, il cappuccino. “Ardiresti tu di pretendere ch’io rubassi il tempo a questi afflitti, i quali aspettano ch’io parli loro del perdono di Dio, per ascoltar le tue voci di rabbia, i tuoi proponimenti di vendetta? T’ho ascoltato quando chiedevi consolazione e aiuto; ho lasciata la carità per la carità; ma ora tu hai la tua vendetta in cuore: che vuoi da me? vattene. Ne ho visti morire qui degli offesi che perdonavano; degli offensori che gemevano di non potersi umiliare davanti all’offeso: ho pianto con gli uni e con gli altri; ma con te che ho da fare?”
[…] “Ho odiato anch’io: io, che t’ho ripreso per un pensiero, per una parola, l’uomo ch’io odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l’ho ucciso.”
[…] “Zitto!” interruppe il frate: “credi tu che, se ci fosse una buona ragione, io non l’avrei trovata in trent’anni? Ah! s’io potessi ora metterti in cuore il sentimento che dopo ho avuto sempre, e che ho ancora, per l’uomo ch’io odiavo! S’io potessi! io? ma Dio lo può: Egli lo faccia!… Senti, Renzo: Egli ti vuol più bene di quel che te ne vuoi tu: tu hai potuto macchinar la vendetta; ma Egli ha abbastanza forza e abbastanza misericordia per impedirtela; ti fa una grazia di cui qualchedun altro era troppo indegno. Tu sai, tu l’hai detto tante volte, ch’Egli può fermar la mano d’un prepotente; ma sappi che può anche fermar quella d’un vendicativo. E perché sei povero, perché sei offeso, credi tu ch’Egli non possa difendere contro di te un uomo che ha creato a sua immagine? Credi tu ch’Egli ti lascerebbe fare tutto quello che vuoi? No! ma sai tu cosa puoi fare? Puoi odiare, e perderti; puoi, con un tuo sentimento, allontanar da te ogni benedizione. Perché, in qualunque maniera t’andassero le cose, qualunque fortuna tu avessi, tien per certo che tutto sarà gastigo, finché tu non abbia perdonato in maniera da non poter mai più dire: io gli perdono”» (510-512).
Nell’enfatico e veemente discorso di fra Cristoforo riecheggia prepotente quel credo evangelico che rappresenta il fondamento morale e filosofico dei Promessi sposi, il loro principale sostegno. Renzo lo accoglie, lo assorbe dentro di sé e finalmente perdona. Il cappuccino lo conduce al cospetto di don Rodrigo, agonizzante in una capanna, e i due, l’impetuoso artigiano e la sua guida spirituale, pregano insieme per il prepotente, davanti a lui, distrutto dalla peste. Il processo di formazione di Renzo è ora definitivamente compiuto ed egli può riabbracciare Lucia. Ora il giovane artigiano incline al furore, alla vendetta e all’odio, sconfitti questi sentimenti negativi e anticristiani, compenetrato dal perdono e dall’amore, è davvero all’altezza, morale e spirituale, della sua promessa sposa, Lucia, perfetta sin dall’inizio del romanzo, compiuta, definitiva, sfiorata dalla santità.
«Si china per levarsi il campanello, e stando così col capo appoggiato alla parete di paglia d’una delle capanne, gli vien da quella all’orecchio una voce… Oh cielo! è possibile? Tutta la sua anima è in quell’orecchio: la respirazione è sospesa… Sì! sì! è quella voce!… “Paura di che?” diceva quella voce soave: “abbiam passato ben altro che un temporale. Chi ci ha custodite finora, ci custodirà anche adesso.”
Se Renzo non cacciò un urlo, non fu per timore di farsi scorgere, fu perché non n’ebbe il fiato. Gli mancaron le ginocchia, gli s’appannò la vista; ma fu un primo momento; al secondo, era ritto, più desto, più vigoroso di prima; in tre salti girò la capanna, fu sull’uscio, vide colei che aveva parlato, la vide levata, chinata sopra un lettuccio. Si volta essa al rumore; guarda, crede di travedere, di sognare; guarda più attenta, e grida: “oh Signor benedetto!”
“Lucia! v’ho trovata! vi trovo! siete proprio voi! siete viva!” esclamò Renzo, avanzandosi, tutto tremante» (520).
Fra Cristoforo scioglie il voto di Lucia, pronunciato nel momento di massima disperazione della sua vicenda esistenziale, dopo il rapimento e durante la terribile notte di reclusione nel castello dell’innominato, e benedice i due giovani con queste splendide parole: «Amatevi come compagni di viaggio, con questo pensiero d’avere a lasciarvi, e con la speranza di ritrovarvi per sempre. Ringraziate il cielo che v’ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggiere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi a una allegrezza raccolta e tranquilla» (527). Fra Cristoforo dona ai due giovani il pane del perdono ricevuto dal fratello dell’uomo da lui assassinato, e il suo ultimo pensiero va ai futuri figli di Renzo e Lucia: «Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’ superbi e a’ provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto!» (527). Attraverso le parole del cappuccino Manzoni esprime, ancora una volta, come già fatto nell’Adelchi, soprattutto tramite il monologo dell’omonimo eroe già rievocato nella prima parte di questo modesto contributo, la sua visione irriducibilmente pessimistica della Storia, dominata dal male e dalla violenza. Cambiare le cose non appare possibile e allora, al cristiano illuminato dal messaggio evangelico, non resta altro da fare che abbracciare la legge del perdono. I figli, e qui l’orizzonte dei Promessi sposi si spalanca fino ad avvolgere l’avvenire, ma un avvenire cosmico, che raggiunge anche noi e ci supera, verranno alla luce in un mondo e in un tempo governati dalla malvagità, perché l’uomo è incapace di imparare dai propri errori e orrori, e solo nel perdono troveranno la salvezza. È ora questa la missione di Renzo e di Lucia: conservare la specie ed educarla alla suprema legge del perdono, la sola cosa che resta nella tragedia della Storia.
Tutto è compiuto e anche la terza e ultima piaga biblica che flagella il romanzo, la peste, può finalmente dileguarsi, scomparire. All’afa opprimente, che schiaccia a terra e intrappola il sole opaco, malato, dal quale piove «un calore morto e pesante», subentra la pioggia, una pioggia risanatrice, purificatrice, che ricorda quella moralmente feroce di Clemente Rebora [3] e spazza via il morbo. Renzo vi sguazza, tornando a respirare a pieni polmoni, dopo aver ritrovato Lucia ed essersi finalmente liberato dell’odio verso don Rodrigo, che in tutto questo tempo lo ha roso nel profondo come un tarlo, rischiando più di una volta di farlo scivolare dalla parte del torto: «E quell’odio contro don Rodrigo, quel rodìo continuo che esacerbava tutti i guai, e avvelenava tutte le consolazioni, scomparso anche quello» (534).
Tutto si conclude per il meglio, in un finale persino fastidiosamente lieto, ma che rappresenta la definitiva rivincita degli inosservati, e in cui risplende la cinica e umana schiettezza dell’incorreggibile don Abbondio, nella berniana esaltazione della peste [4]: «Ah! […] se la peste facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio peccato il dirne male; quasi quasi ce ne vorrebbe una, ogni generazione; e si potrebbe stare a patti d’averla; ma guarire, ve’» (551).
Nelle righe conclusive del romanzo spiccano la sua morale definitiva e il celebre «sugo di tutta la storia». Questa la morale, fissata nell’ultimo intervento del fantomatico anonimo secentesco, e che recupera un’immagine, quella dell’infermo, dall’illustre tradizione nella letteratura italiana, utilizzata già da Dante, Ariosto, Leopardi: «l’uomo, fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone. Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è accomodato nel nuovo, comincia, pigiando, a sentire qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme: siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima. E per questo […] si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio» (554). Si tratta di un’esortazione all’evangelica attività, a quello che, ricorrendo a Dostoevskij, potremmo definire «amore attivo», di cui lo stàrec Zòsima, il mentore di Aleksej nell’ultimo e più grande capolavoro dello scrittore russo, I fratelli Karamazov, parla in questi termini: «Cercate di amare il vostro prossimo attivamente e incessantemente. Più progredirete nell’amore, più vi convincerete anche dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima vostra. E se poi arriverete al completo rinnegamento di voi stessi nell’amore per il prossimo, allora la vostra fede sarà incrollabile, nessun dubbio potrà più insinuarsi nella vostra anima. È cosa provata, inoppugnabile»; «l’amore attivo, rispetto a quello contemplativo, è una cosa crudele e spaventosa. L’amore contemplativo ha sete di azioni rapide e decise, e che attraggono gli sguardi di tutti. Si arriva così al punto di sacrificare persino la vita, purché le cose non vadano per le lunghe, ma si compiano in fretta, come a teatro, e che tutti vedano e applaudano. L’amore attivo è invece fatica e perseveranza, e per alcuni è addirittura una scienza vera e propria» [5]. Di questo amore attivo, definitivo messaggio dei Promessi sposi, l’emblema è fra Cristoforo, il personaggio moralmente e spiritualmente di maggior spessore, ancor più di Federico Borromeo, il cui ruolo istituzionale e storico finisce per limitarne e quasi imbrigliarne la personalità, eccessivamente plastica. Il cappuccino invece combatte in prima persona e in prima fila, affronta a brutto muso don Rodrigo, aiuta i malati nel lazzeretto, pagando a caro, carissimo prezzo, con la vita, questo suo impegno, conduce Renzo sulla via del perdono e dell’amore, permettendo infine, con lo scioglimento del voto e la benedizione dei due giovani, che dopo tanta distruzione e tanto dolore, la vita torni a risorgere e trionfare.
Questo invece il celebre «sugo di tutta la storia», cui giungono Renzo e Lucia dopo un «lungo dibattere e cercare insieme», nella redazione del bilancio delle loro vicende esistenziali: «i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma […] la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e […] quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore» (555). Emerge tutta l’ineluttabilità del male e del dolore, da cui però bisogna saper trarre insegnamenti utili, senza perdere mai, in nessun caso, la fiducia in Dio. È questa l’ultima, elementare parola di Renzo e Lucia, sopravvissuti alle prepotenze di don Rodrigo e della Storia, uniti infine in una gioiosa celebrazione della vita, sulla quale tuttavia si staglia, ma all’orizzonte, l’ombra inquietante e sinistra della malvagità del mondo, che loro hanno conosciuto e vinto, e che anche i loro figli conosceranno, inevitabilmente, dovendo trovare nel perdono e nell’amore attivo la forza di resistere e andare avanti. Perché una volta tanto un semplice artigiano e una semplice contadina possono pure avere la meglio sul capriccio di un prepotente e sulle devastanti piaghe della Storia – la carestia, la guerra, la peste -, ma l’uomo, principale causa del male, sempre, e il suo mondo non cambieranno mai.
NOTE
[1] Delle prime due parti del romanzo mi sono occupato negli articoli Alessandro Manzoni, «I promessi sposi»: la ribalta degli inosservati. Prima parte, Alessandro Manzoni, «I promessi sposi»: la ribalta degli inosservati. Seconda parte.
[2] Alessandro Manzoni, I promessi sposi, Casa Editrice Principato, Milano 1997, p. 403. L’edizione di riferimento è naturalmente la cosiddetta Quarantana. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[3] Per la lettura del componimento e un approfondimento sul grande poeta milanese rimando all’articolo I «Frammenti lirici» di Clemente Rebora: versi nati in odio alla poesia.
[4] Mi riferisco al Capitolo primo della peste di Francesco Berni. Per un approfondimento sul poeta rimando all’articolo La letteratura italiana alternativa del Cinquecento. Francesco Berni.
[5] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 73 e 75. Per un approfondimento sull’ultimo e più grande romanzo dello scrittore russo rimando agli articoli I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Prima parte, I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Seconda parte.