Renzo e Lucia lasciano il paese natale e non si tratta di un semplice addio, di fatto definitivo, ai cari luoghi dell’infanzia e della giovinezza, ma della conclusione di una fase delle loro vite, e insieme, della conclusione della prima delle tre parti in cui, idealmente, si divide il romanzo. Costretti a separarsi, per il capriccio di un prepotente qualunque, i due giovani protagonisti prendono strade diverse, che conducono in diverse direzioni; nelle loro esistenze si verifica uno strappo e inizia quella lunga, faticosa e dolorosa «prova» di cui parla fra Cristoforo [1], organizzatore della precipitosa fuga di Renzo e di Lucia.
Renzo raggiunge la tumultuosa Milano, dove inizia il suo tortuoso e metamorfico processo di formazione, mentre Lucia, perfettamente compiuta, definitiva fin dall’inizio dell’opera, trova rifugio nel convento di Monza, dominato dalla sinistra, inquietante figura di Gertrude, che Manzoni preleva dalla Storia, operando però su di essa un’operazione di profondo e sopraffino scavo psicologico. Già dal ritratto della «signora», caratterizzato emblematicamente, dal punto di vista linguistico, dall’avversativa, emerge tutta l’ambiguità, tutta la contraddittorietà del personaggio, uno dei più complessi e problematici dei Promessi sposi.
«Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione doloroso; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura scolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento» [2].

Gertrude si distingue per una certa bellezza, ma una bellezza turbata, contaminata dall’immoralità (emblematica la ciocchettina che esce dalla benda), la malattia mortale di cui è vittima, conseguenza estrema delle pressioni coercitive esercitate dal padre su di lei sin dalla prima infanzia. Debole e contraddittoria, Gertrude si lascia travolgere dall’altrui volontà (ma non è certo questa la sua colpa, quello della monacazione forzata era un problema sociale tristemente diffuso all’epoca) e, soprattutto, dagli istinti, i più bassi, repressi con la forza, fino a sfociare nel delitto. Lacerata dai rimpianti per ciò che poteva essere e non è stato, rosa nel profondo dall’invidia, Gertrude precipita nella malvagità, in una sorta di impulso autodistruttivo surrogato del suicidio. Incapace di volere, la donna subisce passivamente la volontà altrui, rendendosi complice di quel male sempre pronto ad approfittare dell’umana debolezza.
Lucia finisce così tra le grinfie di Gertrude, mentre Renzo, a Milano, partecipa al tumulto di san Martino e vive quel sogno anarchico che cova nel profondo di ogni uomo, soprattutto se oppresso, come emerge dal succinto resoconto realizzato dall’artigiano al termine della sua prima, rocambolesca e memorabile giornata milanese, dove il latino e la scrittura si impongono come simboli e strumenti – armi – del potere: «Oggi, a buon conto, s’è fatto tutto in volgare, e senza carta, penna e calamaio; e domani, se la gente saprà regolarsi, se ne farà anche delle meglio: senza torcere un capello a nessuno, però; tutto per via di giustizia» (218). L’entusiasmo di Renzo, giovane montanaro catapultato da un giorno all’altro in una città in rivolta, è comprensibile, del tutto naturale, ma, in fin dei conti, a cosa ha portato la mobilitazione di massa, a cosa ha portato il tumulto? Alla distruzione di un forno, dei mezzi e degli strumenti per fare il pane e alla comica farsa di Ferrer, nient’altro. Ed è qui che si insinua il giudizio manzoniano, nei deleteri e ridicoli effetti della rivolta: prima della massa viene sempre l’individuo, sempre, che deve accogliere il messaggio cristiano fondandovi la propria coscienza. Solamente dopo innumerevoli rivolgimenti individuali si può giungere ad un rivolgimento collettivo; le manifestazioni di una moltitudine ineducata ai principi evangelici non portano a niente di buono, non producono nessun effetto davvero positivo. Manzoni esorta il lettore a guardare innanzitutto, prima di ogni altra cosa se stesso, ad agire innanzitutto su se stesso. Se ogni individuo facesse questo, se ogni individuo accogliesse Cristo dentro di sé allora il mondo cambierebbe di colpo, e senza violente, sanguinose rivolte esteriori, ma solo attraverso pacifiche, silenziose rivolte interiori. Il caso dell’innominato, in questo senso, costituisce un exemplum clamoroso.
L’innominato è protagonista di un rivolgimento interiore improvviso, mentre Renzo è impegnato in un processo coscienzioso graduale, in un percorso di formazione che rappresenta una sorta di romanzo nel romanzo, di cui la prima tappa milanese costituisce uno snodo fondamentale, decisivo. Nel giro di poche ore, Renzo passa attraverso numerose metamorfosi: la folla ammassata sotto l’abitazione del vicario, di cui brama barbaramente la testa, lo crede una spia; il birro travestito da spadaio un «reo buon uomo»; il notaio criminale che lo preleva all’osteria dopo la colossale sbronza della sera precedente un fessacchiotto pronto a «cantare»; infine, dopo l’intervento della massa che lo libera dalla stretta delle guardie e gli permette di fuggire, Lorenzo Tramaglino, detto Renzo, l’«artigianello sconosciuto», si impone all’attenzione dell’autorità e della sua presunta giustizia come «uno de’ capi» della rivolta, temibilissimo criminale al servizio del cardinale Richelieu che vorrebbe morti tutti i signori. Inesperto e sprovveduto, davvero ingenuo, Renzo rischia moltissimo, senza rendersi davvero conto della gravità della situazione, ma riesce a mettersi in salvo, fuggendo nel bergamasco, territorio veneziano, dal cugino Bortolo, dove gli emigranti provenienti dallo stato di Milano vengono altezzosamente ribattezzati «baggiani», ovvero sciocchi, come in Furore di Steinbeck i contadini emigranti del centro-sud verranno ribattezzati in California, e non solo con altezzosità ma con odio, «Okie» [3].
Di quella rivoluzione morale e spirituale individuale auspicata da Manzoni il caso dell’innominato rappresenta, come ho scritto sopra, un exemplum clamoroso. Perché l’innominato s’impone come l’incarnazione del male, a cui si rivolge don Rodrigo per fare finalmente sua Lucia. L’innominato è inserito in un contesto ambientale che riflette perfettamente la sua personalità e la sua storia, tutto «schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fessi e sui ciglioni». Egli vi si erge con tenebrosa imponenza: «Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di spora di sé, né più in alto» (291). Immerso in un’invincibile e disumana solitudine, l’innominato non riconosce nessuna autorità all’infuori e al di sopra di se stesso, lui solo dispone del destino, della vita e della morte, degli uomini che hanno a che fare con lui. Nessuna autorità, neppure quella divina. Di un mondo sprofondato nel baratro dell’anarchia, estrema conseguenza dell’incolmabile vuoto morale e istituzionale, l’innominato rappresenta l’esito ultimo, quello più radicale dunque più violento, sanguinoso, malvagio. Al suo cospetto anche don Rodrigo rimpicciolisce, fino a raggiungere le infime proporzioni di un signorotto gaudente e capriccioso, nulla più.

L’innominato concede il suo aiuto a don Rodrigo senza esitazioni, ma nel suo animo sente affiorare da subito un certo fastidio per questa ennesima, malvagia impresa. Perché il «selvaggio signore», giunto ormai ai sessant’anni, si trova in una fase delicatissima della sua vita. La vecchiaia incombe e si trascina dietro tutte le innumerevoli violenze perpetrate fino a quel momento, violenze che pesano su una coscienza che inizia finalmente a dare segni di vita. L’invincibile e disumana solitudine nella quale si è trincerato inizia a turbare l’innominato, come anche il pensiero della morte, ogni giorno inesorabilmente più vicina, e il sospetto spaventoso dell’esistenza di un’autorità e di una giustizia a lui infinitamente superiori, con cui tra non molto potrebbe essere costretto a fare i conti.
«Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch’erano ammontate, se non sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all’animo brutte e troppe: era come il crescere e crescere d’un peso già incomodo. Una certa ripugnanza provata ne’ primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto, tornava ora a farsi sentire. Ma in que’ primi tempi, l’immagine d’un avvenire lungo, indeterminato, il sentimento d’una vitalità vigorosa, riempivano l’animo d’una fiducia spensierata: ora all’opposto, i pensieri dell’avvenire eran quelli che rendevano più noioso il passato. – Invecchiare! morire! e poi? – E, cosa notabile! l’immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d’un nemico, soleva raddoppiar gli spiriti di quell’uomo, e infondergli un’ira piena di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione repentina. Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non si poteva respingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni momento; e, intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il pensiero, quella s’avvicinava. Ne’ primi tempi, gli esempi così frequenti, lo spettacolo, per dir così, continuo della violenza, della vendetta, dell’omicidio, ispirandogli un’emulazione feroce, gli avevano anche servito come d’una specie d’autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva ogni tanto nell’animo l’idea confusa, ma terribile, d’un giudizio individuale, d’una ragione indipendente dall’esempio; ora, l’essere uscito dalla turba volgare de’ malvagi, l’essere innanzi a tutti, gli dava talvolta il sentimento d’una solitudine tremenda. Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti d’abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però. Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro, sentita annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa: ora, quando gli tornava d’improvviso alla mente, la mente, suo malgrado, la concepiva come una cosa che ha il suo adempimento. Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la mascherava con l’apparenze d’una più cupa ferocia; e con questo mezzo, cercava anche di nasconderla a sé stesso, o di soffogarla. Invidiando (giacché non poteva annientarli né dimenticarli) que’ tempi in cui era solito commettere l’iniquità senza rimorso, senz’altro pensiero che della riuscita, faceva ogni sforzo per farli tornare, per ritenere o per riafferrare quell’antica volontà, pronta, superba, imperturbata, per convincer sé stesso ch’era ancor quello» (293-294).
L’innominato riesce laddove don Rodrigo aveva fallito: grazie alla complicità di Gertrude, incapace di ribellarsi «interamente» al delitto, come il delitto, «padrone rigido e inflessibile», richiede, Lucia viene rapita e condotta al «castellaccio». L’innominato attende l’esito della spedizione con una tensione inedita, febbrile: «Cosa strana! quell’uomo, che aveva disposto a sangue freddo di tante vite, che in tanti suoi fatti non aveva contato per nulla i dolori da lui cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di vendetta, ora, nel metter le mani addosso a questa sconosciuta, a questa povera contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore» (298). Sorpreso, infastidito, tormentato da simili sensazioni, del tutto nuove e immotivate, l’innominato pensa di far condurre subito Lucia da don Rodrigo, ma la sua coscienza, per la prima volta, si ribella: «un no imperioso che risonò nella sua mente, fece svanire quel disegno» (298). La coscienza dell’innominato, sopita per sessant’anni, sessant’anni di soprusi, di violenze, di morti, finalmente si desta e la prima parola che pronuncia è un imperioso NO. Si arresta così, d’improvviso e senza interventi dall’esterno, in un dramma tutto individuale e in modo spontaneo, una lunghissima catena di delitti: lo sfogo utopico di Manzoni, la sua fiducia nella possibilità di un radicale cambiamento morale e spirituale dell’uomo, che sgorghi libero e puro come l’acqua da una fonte.
Lucia è fonte di splendore, uno splendore che investe chiunque vi capiti davanti – salvo rarissime eccezioni -, persino il Nibbio, «uno de’ più destri e arditi ministri» delle «enormità» dell’innominato, la cui coscienza pronuncia a stretto giro un altro e ancor più imperioso NO. Lucia non viene consegnata a don Rodrigo, ma resta nel castello, e mentre lei è tormentata, torturata dalla paura e pronuncia, al culmine della disperazione, ma senza mai perdere la fede, il suo voto alla Vergine, in un’altra stanza del sinistro edificio la crisi psicologica, morale e spirituale dell’innominato si acuisce fino a raggiungere il massimo momento di tensione. L’io dell’innominato si spacca, egli pensa inevitabilmente al suicidio, ma il terrore della morte lo irretisce e sprofonda nello sconforto, fino a quando lo soccorre una nuova, «lontana speranza», e infine il suono delle campane e la vista della folla in festa che sfila ai piedi del castello. Nella sua dostoevskiana notte l’innominato passa da un estremo all’altro, dalla suprema esaltazione di se stesso quale unica autorità, al supremo svilimento, rappresentato dalla possibilità del suicidio, dell’autodistruzione, attestandosi infine in uno stato intermedio e completamente nuovo, che vuol dire resurrezione. Le pagine dei Promessi sposi dedicate alla tormentosa notte dell’innominato sono tra le più intense, vibranti del romanzo, rappresentando il momento culminante di quel dramma psicologico che si configura come un clamoroso e spettacolare trionfo del bene sul male, perché del male è vinta, abbattuta l’umana incarnazione.
«Ma c’era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l’ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell’immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all’orecchio, il signore s’era andato a cacciare in camera, s’era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quell’immagine, più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. — Che sciocca curiosità da donnicciola, — pensava, — m’è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!… Io?… io non son più uomo, io? Cos’è stato? che diavolo m’è venuto addosso? che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?
E qui, senza che s’affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé gli rappresentò più d’un caso in cui né preghi né lamenti non l’avevano punto smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nell’animo quella molesta pietà; vi destava invece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. — È viva costei, — pensava, — è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi…. Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io…! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d’addosso un po’ di questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!… Via! — disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: — via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa. —
E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt’a un tratto restìo per un’ombra, non voleva più andare avanti. Pensando all’imprese avviate e non finite, in vece d’animarsi al compimento, in vece d’irritarsi degli ostacoli (ché l’ira in quel momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de’ passi già fatti. Il tempo gli s’affacciò davanti voto d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l’ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che gl’importasse; anzi l’idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un’idea di schifo e d’impiccio. E se volle trovare un’occupazione per l’indomani, un’opera fattibile, dovette pensare che all’indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.
— La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare… E la promessa? e l’impegno? e don Rodrigo?… Chi è don Rodrigo? —
A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d’un superiore, l’innominato pensò subito a rispondere a questa che s’era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l’antico. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d’esser pregato, s’era potuto risolvere a prender l’impegno di far tanto patire, senz’odio, senza timore, un’infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a sè stesso come ci si fosse indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell’animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di sé stesso, per rendersi ragione d’un sol fatto, si trovò ingolfato nell’esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d’anno in anno, d’impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all’animo consapevole e nuovo, separata da’ sentimenti che l’avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que’ sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell’immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. S’alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e… al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un’inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. S’immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d’intorno, lontano; la gioia de’ suoi nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all’aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero. — Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c’è; se è un’invenzione de’ preti; che fo io? perché morire? cos’importa quello che ho fatto? cos’importa? è una pazzia la mia… E se c’è quest’altra vita…! —
A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader l’arme, e stava con le mani ne’ capelli, battendo i denti, tremando. Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: — Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! — E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d’autorità, e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un’attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s’immaginava di condurla lui stesso alla madre. — E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l’altro? che farò dopo doman l’altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte! — E ricaduto nel vòto penoso dell’avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva d’abbandonare il castello, e d’andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l’animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a’ suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne’ suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull’albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s’era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d’allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l’eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro. — Che allegria c’è? cos’hanno di bello tutti costoro? — Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s’avviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un’alacrità straordinaria.
— Che diavolo hanno costoro? che c’è d’allegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia? — E data una voce a un bravo fidato che dormiva in una stanza accanto, gli domandò qual fosse la cagione di quel movimento. Quello, che ne sapeva quanto lui, rispose che anderebbe subito a informarsene. Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile spettacolo. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, s’accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s’univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que’ gesti, e il supplimento delle parole che non potevano arrivar lassù. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa» (310-313).
La conversione dell’innominato è una questione personale, frutto di un lungo, elaborato, tortuoso, doloroso travaglio interiore, ma non è da sottovalutare il ruolo di Lucia, veicolo di luce e di Grazia, che investe anche il «selvaggio signore», fornendo la spinta decisiva e, forse, accelerando il processo. Processo di conversione che giunge alla definitiva conclusione con l’intervento di Federico Borromeo, tra le cui braccia si getta il nuovo innominato, dopo essersi mescolato a quella folla festosa che gli appare al termine della terribile notte ed è presagio di un nuovo e luminoso inizio, all’insegna della parola di Cristo.
Nella ricostruzione storica di Manzoni il XVII si configura come un secolo terribile, nero, sprofondato nelle tenebre, e sotto ogni punto di vista – morale, spirituale, istituzionale. Ma anche nel Seicento-Medioevo risplende una luce, tanto più valorosa e importante perché storica: il cardinale illuminato Federico Borromeo, esempio di pulizia ed essenzialità in un’epoca «sudicia e sfarzosa»; di conoscenza, in un’epoca dominata dall’«ignorantaggine» e dall’«antipatia generale per ogni applicazione studiosa», come dimostra la fondazione della pubblica Biblioteca Ambrosiana, che mette a disposizione della collettività migliaia di volumi; di bontà, di generosità, di giustizia in un’epoca dominata dalla malvagità, dall’egoismo, dall’iniquità. Ma ogni uomo, volente o nolente, è figlio del proprio tempo, e così anche sulla luminosissima figura dell’arcivescovo si allungano ombre inquietanti, macchie indelebili sulla sua candida reputazione di religioso integerrimo, generoso, disinteressato. Mi riferisco alla credenza di Borromeo nelle streghe e negli untori, che egli stesso contribuisce in prima persona a far condannare a morte. Manzoni lo scusa, e non potrebbe essere altrimenti, ponendo la questione della limitata responsabilità individuale all’interno del determinato contesto storico in cui agisce, un contesto, quello secentesco, falcidiato dalle superstizioni e dagli errori, eppure le colpe del cardinale restano evidenti e inconfutabili, tanto da impedirgli di eguagliare, in Grazie e santità, un semplice frate come Cristoforo, o addirittura una semplice contadina come Lucia. In ogni caso l’innominato, dopo la tormentata notte che lo ha portato a un passo, un solo passo dal suicidio, si getta tra le braccia di Borromeo, scoppia a piangere e questo abbraccio e questo pianto con e al cospetto dell’autorità ecclesiastica sanciscono la conclusione, tutta istituzionale, del clamoroso processo di conversione del «selvaggio signore». Per l’innominato inizia ora una nuova vita, libera dalla violenza, dall’ingiustizia, dall’egoismo e fondata su quel Dio che rivendicava con forza la propria esistenza all’interno del suo io lacerato, tormentato. L’innominato è ora un uomo nuovo, finalmente un uomo, e la prima, positiva manifestazione di questa sua radicale metamorfosi è il ritrovamento del sonno, perduto in quella critica, fatale, memorabile, dostoevskiana notte: «Affari intralciati e insieme urgenti, per quanto ne fosse sempre andato in cerca, non se n’era mai trovati addosso tanti, in nessuna congiuntura, come allora; eppure aveva sonno. I rimorsi che gliel avevan levato la notte avanti, non che essere acquietati, mandavano anzi grida più alte, più severe, più assolute; eppure aveva sonno. L’ordine, la specie di governo stabilito là dentro da lui in tant’anni, con tante cure, con un tanto singolare accoppiamento d’audacia e di perseveranza, ora l’aveva lui medesimo messo in forse, con poche parole; la dipendenza illimitata di que’ suoi, quel loro esser disposti a tutto, quella fedeltà da masnadieri, sulla quale era avvezzo da tanto tempo a riposare, l’aveva ora smossa lui medesimo; i suoi mezzi, gli aveva fatti diventare un monte d’imbrogli, s’era messa la confusione e l’incertezza in casa; eppure aveva sonno» (357).
Più volte nel corso dei Promessi sposi viene spontaneo domandarsi perché don Rodrigo si accanisca in questo modo su Lucia. Nell’ipotizzare una risposta è necessario tenere conto delle implicazioni caratteriali, psicologiche – l’orgoglio del capriccioso signorotto su tutte -, ma senza doversi spingere troppo a fondo, perché Manzoni stesso fornisce la spiegazione dell’accanimento di don Rodrigo, e per bocca, sorprendentemente, del grossolano don Abbondio: «coloro che hanno quel gusto di fare il male, ci mettono più diligenza, ci stanno dietro fino alla fine, non prendon mai requie, perché hanno quel canchero che li rode» (346). Il male è un cancro, una malattia mortale, da cui si può guarire solamente in rarissimi casi, come quello dell’innominato, casi che hanno del miracoloso. Nonostante la sorprendente dimostrazione di sensibilità psicologica, al povero curato Manzoni riserva una lavata di capo indimenticabile. Borromeo gli rinfaccia la sua condotta, vile e volta a favorire il prepotente, esaltando il coraggio del martire, che è l’amore e rendere intrepido. Don Abbondio, tramortito, si difende, o quantomeno prova a difendersi, avanzando le ragioni dell’egoista e del vigliacco, ma il cardinale lo incalza e lo travolge, inesorabilmente: «Avete ubbidito all’iniquità, non curando ciò che il dovere vi prescriveva» (375), «Vedete a che v’ha condotto […] quella premura per la vita che deve finire. V’ha condotto […] a ingannare i deboli, a mentire ai vostri figliuoli» (375), «Non sapevate che l’iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui?» (376). Le enfatiche e, diciamolo pure, di tanto in tanto rettoriche parole di Borromeo possono solleticare la coscienza di don Abbondio, ma non persuaderla, non rivoluzionarla (come invece fra Cristoforo persuaderà Renzo alla fine del romanzo, indirizzandolo definitivamente sulla strada del perdono dell’amore), egli resta e resterà fino alla fine il curato per convenienza pavido ed egoista che conosciamo all’inizio, e proprio in questo risiede la sua grandezza.

Con l’apparizione sulla scena del cardinale Borromeo si conclude l’ideale seconda parte dei Promessi sposi. La terza si caratterizzerà per le tre grandi piaghe bibliche della carestia, della guerra e infine della peste, con il turbinio della Storia che travolgerà tutti i personaggi, come preannunciato nella conclusione del XXVII capitolo: «come un turbine vasto, incalzante, vagabondo, scoscendendo e sbarbando alberi, arruffando tetti, scoprendo campanili, abbattendo muraglie, e sbattendone qua e là i rottami, solleva anche i fuscelli nascosti tra l’erba, va a cercare negli angoli le foglie passe e leggieri, che un minor vento vi aveva confinate, e le porta in giro involte nella sua rapina» (397). Ecco cos’è la Storia, un’immane catastrofe, che travolge e distrugge chiunque, senza distinzioni: i cosiddetti grandi, che ne sono i responsabili e i colpevoli, e i piccoli, le vittime designate, a cui Manzoni, con la scrittura dei Promessi sposi, concede almeno una ribalta e una rivincita. Una rivincita semplicemente letteraria, d’accordo, ma eterna.
NOTE
[1] Si veda la prima parte del presente contributo.
[2] Alessandro Manzoni, I promessi sposi, Casa Editrice Principato, Milano 1997, pp. 141-142. L’edizione di riferimento è naturalmente la cosiddetta Quarantana. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[3] Per un approfondimento sul capolavoro dello scrittore statunitense rimando all’articolo «Furore» di John Steinbeck, il poema degli Stati Uniti e delle loro terre.