La poesia di Tommaso Campanella rappresenta un’esperienza assolutamente inedita e originale all’interno del panorama letterario italiano del XVII secolo. L’utilizzo copioso della metafora lo avvicinano certo ai cosiddetti “marinisti”, da cui però si distingue nettamente per la profondità filosofica, dunque religiosa, dei suoi versi, che, insieme ai canonici trattati – e ricordo il celebre dialogo La città del Sole [1] -, si fanno portavoce del suo scomodo pensiero.
Le atroci sofferenze patite in prima persona – arrestato e processato più volte nel corso della sua vita, Campanella trascorse ininterrottamente ben ventisette anni in carcere, dal 1599 al 1627, per aver preso parte ad una congiura contro il dominio spagnolo nel suo paese natale, Stilo – non impediscono al frate – ribelle – e pensatore calabrese di collocare la fiducia nel genere umano tra i fondamenti della sua visione del mondo e della vita. Il male e il dolore rappresentano di fatto per Campanella un incentivo; neanche durante la durissima esperienza del carcere si abbatte, ma produce senza sosta: tra le altre opere, il già citato dialogo La città del Sole e la Scelta d’alcune poesie filosofiche di Settimontano Squilla (Squilla è metonimia di Campanella), pubblicata in Germania nel 1622 dall’amico Tobia Adami, raccolta di versi risalenti al primo decennio di detenzione.
La poesia è per Campanella uno strumento formidabile, che permette di accelerare quel processo di evoluzione umana verso il bene nel quale egli crede ciecamente, irriducibilmente. Dal punto di vista linguistico, il pensatore calabrese, consapevole dei limiti della lingua della tradizione lirica italiana, sperimenta un linguaggio nuovo, ben più ardente e incalzante, ardito e martellante, che recupera, come vedremo, alcuni degli esiti più originali e forti della scrittura dantesca [2], tanto bistrattata dalle autorità letterarie – Bembo su tutte – del secolo precedente, e a cui si rifanno solo alcuni autori isolati e non istituzionali come, ad esempio, Michelangelo [3].
Le poesie di Campanella, e non potrebbe essere altrimenti, si caratterizzano per una fortissima tensione morale, una tensione febbrile, vibrante, capace di catturare anche il lettore che non crede – non può credere – negli esiti teologico-filosofici cui giunge. Leggiamone una di queste poesie, il sonetto Anima immortale.
Di cervel dentro un pugno io sto, e divoro
tanto, che quanti libri tiene il mondo
non saziar l’appetito mio profondo:
quanto ho mangiato! e del digiun pur moro.D’un gran mondo Aristarco, e Metrodoro
di più cibommi, e più di fame abbondo;
disiando e sentendo, giro in tondo;
e quanto intendo più, tanto più ignoro.Dunque immagin sono io del Padre immenso,
che gli enti, come il mar li pesci, cinge,
e sol è oggetto dell’amante senso;cui il sillogismo è stral, che al segno attinge;
l’autorità è man d’altri; donde penso
sol certo e lieto chi s’illuia e incinge [4].
Le prime due quartine del sonetto, quartine faustiane, pongono al centro il problema della conoscenza, o meglio, della brama di conoscenza, irraggiungibile nella sua sterminata totalità. Dominano le coppie antitetiche: «Quanto ho mangiato! e del digiun pur moro» (v. 4), «di più cibommi, e più di fame abbondo» (v. 6), «e quanto intendo più, tanto più ignoro» (v. 8). Una situazione fallimentare – straordinariamente simile a quella in cui Goethe ci presenta Faust, al culmine della disperazione, all’inizio del dramma [5] -, che sembra destinata ad avere il sopravvento, e che invece viene superata dal riconoscersi «immagin» di Dio, che «cinge» – racchiude in sé – gli esseri come il mare i pesci. Superamento della crisi che culmina nel verso conclusivo del sonetto: solo chi in Dio sprofonda («s’illuia», neologismo dantesco utilizzato in Paradiso, IX, v. 73) e in lui si impregna («incinge», altra citazione dalla Commedia, Inferno, VIII, v. 45) raggiunge la verità e la felicità.
Campanella dunque «s’illuia e incinge» in Dio, approdando così, nella sua prospettiva teologico-filosofica, a quel mistero della vita e della fede, imperscrutabile ai più, che lo rende perfettamente sazio, appagato, «certo e lieto», anche in una umidissima fossa sotterranea del castello di Sant’Elmo.
NOTE
[1] Per un approfondimento sul capolavoro del filosofo calabrese rimando all’articolo Tommaso Campanella – La città del Sole.
[2] Per un approfondimento sul plurilinguismo dantesco rimando all’articolo Pape Satàn, pape Satàn aleppe!
[3] Per un approfondimento sul Michelangelo poeta rimando all’articolo Il genio lirico di Michelangelo.
[4] Tommaso Campanella, Le poesie, a cura di Francesco Giancotti, Einaudi, Torino 1998.
[5] Per un approfondimento sull’opus magnum del poeta e scrittore tedesco rimando all’articolo Alcune superflue considerazioni sul monumentale Faust di Goethe.