Christian Rohlfs, Il prigioniero, 1918.

L’impegno antiecclesiastico di Pietro Giannone

«…lo disse Cristo, e ci fabbricarono su la Chiesa…»

Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica

L’impegno antiecclesiastico caratterizza l’intera attività storico-filosofico-letteraria di Pietro Giannone (1676-1748), a partire dalla sua prima opera, la Storia civile del Regno di Napoli (1721-1723) – concepita con lo scopo di verificare l’attendibilità delle fonti storiche del diritto ecclesiastico, per chiarirne definitivamente giurisdizione e limiti, dove lo studioso, documenti alla mano, mostra l’infondatezza della presunta superiorità ostentata da secoli dalla Chiesa -, fino ad arrivare al Triregno. In questo testo Giannone suddivide la storia del genere umano in tre momenti: il «regno terreno», stato primitivo in cui è esclusa ogni dimensione trascendentale e domina una visione materiale, terrena appunto; il «regno celeste», inaugurato dalla venuta di Cristo e caratterizzato da una forte spiritualità; infine il «regno papale», dominato dall’autorità ecclesiastica.

Convinto dell’esigenza assoluta di un rinnovamento dell’uomo e dunque del mondo, Giannone individua nel messaggio evangelico, dotato di una forza eversiva straordinaria, senza eguali, quel fattore in grado di far scaturire il necessario cambiamento. Un messaggio semplicissimo, alla portata di tutti, come lo studioso si sforza di sottolineare, ma che la Chiesa ha sistematicamente manipolato, strumentalizzato, ammantandolo di riti e pratiche esteriori, per conquistare e consolidare il proprio potere temporale. La Chiesa si è dunque resa protagonista di un vero e proprio delitto, e la sua è una colpa imperdonabile, perché traviando gli elementari insegnamenti di Cristo ha fatto sprofondare l’uomo in quella barbarie dalla quale Giannone intende liberarla. Ovviamente l’autorità ecclesiastica non può lasciare che una simile voce si diffonda e, come suo costume, reagisce con violenza: il Triregno di fatto scompare – la prima edizione dell’opera vedrà la luce solo nel 1895 -, e il suo autore viene arrestato, con la complicità di Carlo Emanuele III di Savoia, passando in carcere gli ultimi dodici anni della sua vita, dal 1736 al 1748. Anche Giannone è vittima della scure clericale, come già Bruno [1] e Galilei [2], tanto per citare i casi più celebri.

Ivan Kramskoj, Cristo nel deserto, 1872.

Tornando al Triregno, Giannone fonda il proprio lavoro su una minuziosa interpretazione delle fonti, in questo caso le Scritture e, soprattutto, i Vangeli e le Lettere di san Paolo, con lo scopo di mostrarne il messaggio originario in tutta la sua purezza, in tutta la sua autenticità immediata, liberandolo dalla criminale mediazione della Chiesa. Un messaggio rivoluzionario e semplicissimo, che solo basterebbe a dare il via a quel rinnovamento dell’uomo e del mondo che Giannone ritiene assolutamente necessario.

«Posto questo nuovo regno per ispirituale e celeste, certamente che i mezzi per conseguirlo dovranno essere tutti differenti da quelli che sono propri per la conquista di un regno temporale e sensibile. Il regno promesso ad Abramo “et semini eius” [3] essendo terreno, i mezzi, come si è veduto nel precedente libro, furono tutti terreni. Ma questo regno celeste è promesso a tutte le nazioni, non solo all’ebrea: da tutti potea conquistarsi; e poiché il fine di ambedue era diverso, diversi per conseguenza dovean essere i mezzi. Il primo regno non prometteva altro che mondane felicità, premii e castighi temporali, benedizioni e maledizioni che non oltrepassano i beni ed i mali di questa mortal vita. I mezzi per conseguirlo furon perciò eserciti armati, sconfitte, sangue, uccisioni e debellar nemici. Erano carnali circoncisioni, sacrifici ed olocausti cruenti, riti esterni e cerimonie: cose tutte materiali e sensibili. L’osservanza de’ precetti e de’ giudizi era ricercata non perché, adempiendosi la legge, acquistassero i giusti vita eterna e celeste, ovvero, trasgredendola, i rei fossero puniti di pena infernale con fuoco inestinguibile ed eterno, ma per i primi erano promesse felicità mondane, e per i secondi minacciati castighi anche mondani: morti, desolazioni di famiglie, peste, guerra, fame, infermità, sterilità di campi, infecondità di animali.

Per l’acquisto adunque di questo nuovo regno niente dovea curarsi di cose mondane e terrene, poiché tutto il premio era riserbato in cielo in un’altra vita. Non si richiedevano tanti riti, sacrifizi ed olocausti, non tante cerimonie esterne e precetti, non circoncisione di carne, ma di spirito, non riti e cerimonie esterne, non sacrifici cruenti di sangue, né olocausti di vittime; ma adorazioni interne all’unico e vero Iddio e dilezione e carità al prossimo. Niun altro vizio si pose Gesù Nazareno con maggior impeto e fervore a biasimare quanto l’ipocrisia de’ scribi e farisei, i quali, niente badando all’opere buone, tutti erano volti a’ sacrifici, a far delle lunghe orazioni e tutti intesi a simili apparenze, non curando di essere ma solo di apparire buoni. […] Quando gli si accostò un giurisperito per tentarlo dicendogli: “Magister, quid faciendo vitam aeternam possidebo?”; non altro gli rispose: “Diliges dominum Deum tuum ex toto corde tuo, ex tota anima tua, omnibus viribus tuis et omni mente tua, et proximum tuum sicut te ipsum” [4]. […]

Chi volea dunque assicurare la sua entrata in questo regno, bisognava menare una vita tutta distaccata da’ beni ed affetti mondani, tutta illibata e non contaminata da colpa veruna. Non dovea sgomentarsi per tanto rigore, poiché appresso Iddio, il quale gli avrebbe somministrati aiuti sufficienti, non sarebbe stato tutto ciò impossibile. Gli apostoli e tutti gli altri che, abbandonando ogni cosa, lo seguirono, erano contenti di farlo e volentieri si spogliavano di tutto, poiché credevano che questo regno fra breve dovesse arrivare; onde si vide in progresso di tempo non pure abbandonavano parenti, beni e tutto, poiché credevano che questo regno fra breve dovesse arrivare, ma vennero a disprezzare sino i più duri tormenti e la morte istessa.

Aspirandosi adunque a questo nuovo regno celeste, era mestieri praticare tutto l’opposto di ciò che si faceva nell’antica legge, quando nel primo regno le ricchezze e la dovizia era riputata per una delle benedizioni di Dio; ora riescono di ostacolo e d’impedimento all’acquisto di questo secondo. Non si dovea affatto curare di onori e di beni terreni, anzi disprezzargli ed impoverirsi e tesaurizzare non in terra, ma in cielo. A’ suoi discepoli perciò non inculcava altro il lor Maestro che di vivere in povertà ed in mendicità. […]

Né tampoco dover essere molto solleciti per alimentarsi o vestirsi, ma abbandonarsi unicamente alla divina provvidenza, la quale, siccome nudre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo, così non si dimenticherà di loro. Cercassero principalmente il regno di Dio e la sua giustizia, perché tutte quest’altre cose gli si aggiungeranno. […]

Molto meno dovessero attaccar brighe e litigi per cagion di cosa temporale e mondana. Se uno ti vuol torre la tunica, e tu dagli la cappa ancora. Quindi ne’ primi tempi della Chiesa erano riputati mali cristiani coloro che per beni temporali si vedevano frequentare i magistrati e litigar per essi nel foro contenzioso. E quando nell’antica legge la povertà era riputata una maledizione di Dio, in questa nuova promissione del regno celeste era al contrario tanto lodata e commendata; anzi il regno de’ cieli era riputato come proprio patrimonio de’ poveri […]. E delle ricchezze facendosene dio Belzebù, chi le possedea o desiderava si dicea che serviva a costui e non al Dio d’Israele, poiché nell’istesso tempo non si potea servire a due padroni, cioè a dio ed al demonio.

La signoria, la maggioranza, il fasto, le grandezze e gli onori erano detestati, essendo noi peregrini in questo mondo. […] L’umiltà, la mitezza, l’ubbidienza, la soffezione, il disprezzo di se medesimo erano all’incontro sempre commendate ed inculcate; la carità verso il prossimo era la base di questa nuova religione: che ciascuno dovesse amar l’altro, si dovesse sovvenire e vicendevolmente l’un soccorrere ed aiutare l’altro senza far differenza da servo a padrone, da ebreo a gentile, da giudeo a sammaritano, da giusto a pubblicano o peccatore. Non riputar quei che non erano ebrei stranieri o inimici, come già, ma tutti da fratelli, e scambievolmente amarsi e sovvenirsi. Quindi l’usure erano vietate non meno fra gli ebrei che con gli stranieri; anzi s’imputava a maggior perfezione e di più facile adito per entrare in questo regno, se si rimetteva al debitore anche la sorte. […]

Quindi tutto ciò che era stato omesso nell’antica legge si comandava nella nuova, cioè che non solo non si doveano odiare gli nemici, che anzi amare, favorire e beneficare non meno che gli amici [5].

La Chiesa ha tradito Cristo. Non solo, sul sistematico rovesciamento degli insegnamenti di colui nel nome del quale è nata, fonda la propria autorità. Ricordando Il Grande Inquisitore di Dostoevskij, laddove Cristo ha risposto no alle tentazioni diaboliche nel deserto, la Chiesa ha risposto [6]. E c’è davvero qualcosa di diabolico nel modo in cui il «regno papale», utilizzando la terminologia di Giannone, ha scientificamente traviato i principi scandalosamente semplici del «regno celeste». Principi che è necessario riportare alla loro purezza originaria per avviare quell’opera di cambiamento che dall’attuale stato di barbarie conduca alla concordia, alla pace e alla salvezza.

Il messaggio evangelico si fonda proprio sul rifiuto di quegli aspetti che hanno caratterizzato per secoli la Chiesa: la brama di potere e di ricchezza, il sistematico ricorso alla violenza, la sottomissione dell’individuo a consuetudini e convenzioni religiose collettive imposte autoritariamente. Esaltando il cristianesimo nella sua forma originaria e autentica, aderendo ad esso, Giannone rifiuta un passato e un presente caratterizzati dalla violenza e dall’inganno, violenza e inganno resi ancor più gravi perché perpetrati da chi dice formalmente di disprezzarli. Ed è proprio contro questa discrepanza tra essere e apparire che Cristo si scaglia con particolare veemenza e ardore: «Niun altro vizio si pose Gesù Nazareno con maggior impeto e fervore a biasimare quanto l’ipocrisia de’ scribi e farisei, i quali, niente badando all’opere buone, tutti erano volti a’ sacrifici, a far delle lunghe orazioni e tutti intesi a simili apparenze, non curando di essere ma solo di apparire buoni». È evidente in queste parole il riferimento polemico a Machiavelli [7], e riecheggia prepotente la volontà di rimettere al centro la dimensione interiore dell’individuo, schiacciata, annichilita da quella esteriore, fatta di riti del tutto inutili.

Il tema proposto da Giannone, il contrasto tra Cristo e la Chiesa, che ne ha tradito completamente il messaggio, avrà una fortuna enorme nella letteratura successiva, come del resto aveva avuto una grande fortuna già in quella passata: penso al già citato Dostoevskij [8], a Tolstoj [9], a Nietzsche e a Michelstaedter [10], che farà di Cristo, insieme con Socrate, il supremo esempio di «persuasione», opposto alla «rettorica» della Chiesa (i casi di Nietzsche e Michelstaedter dimostrano chiaramente come un ateo possa essere ben più cristiano di tanti che si professano tali, nelle parole e negli abiti).

NOTE

[1] Per un approfondimento sui processi al filosofo nolano rimando all’articolo Giordano Bruno – I viaggi, i processi, la morte.

[2] Per un approfondimento sull’affaire Galilei rimando all’articolo Galileo Galilei – L’ennesimo ed imperdonabile crimine contro l’umanità.

[3] “e al seme, alla discendenza di lui [Abramo]”.

[4] “Maestro, che cosa devo fare per possedere la vita eterna?”; “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. L’episodio è riportato in Matteo, 10, 25-26.

[5] Pietro Giannone, Triregno, libro II, capitolo III.

[6] Per la lettura e l’analisi dell’indimenticabile poema concepito da Ivan Karamazov rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, Il Grande Inquisitore.

[7] Per un approfondimento su Machiavelli rimando agli articoli Niccolò Machiavelli tra i «pidocchi», «Il principe»: l’antropopessimismo di Niccolò Machiavelli, «La mandragola»: il riso smorzato di Niccolò Machiavelli.

[8] Per un approfondimento sul pensiero dello scrittore russo rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.

[9] Soprattutto il secondo Tolstoj, successivo alla conversione del 1881 e autore di opere come Resurrezione, La sonata a Kreutzer, Padre Sergij, Guerra e rivoluzione.

[10] Per un approfondimento sul filosofo, poeta e scrittore goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

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