Tolstoj nel 1902

«La sonata a Kreutzer»: Tolstoj contra il matrimonio

«Ma un matrimonio cristiano non può esserci e non c’è mai stato, come non c’è mai stato né può esserci un rito religioso cristiano (Matteo, VI, 5-12, Giovanni, IV, 21), né padri o maestri sulla terra (Matteo, XXIII, 8-10), né proprietà privata cristiana, né eserciti, tribunali o stati cristiani. E ciò è sempre stato evidente agli autentici cristiani dei primi e degli ultimi secoli».

Lev Tolstoj

L’attività letteraria di Tolstoj si divide in due fasi: una prima fase precedente e una seconda fase successiva alla conversione del 1881, l’anno – casualmente? – della morte di Dostoevskij, di cui Tolstoj eredita il ruolo di guida letteraria, ovvero morale e spirituale, della Russia. Alla prima fase corrispondono opere celeberrime come Guerra e pace e Anna Karenina, alla seconda opere come La morte di Ivan Il’ič, Guerra e rivoluzione [1], Resurrezione [2], Padre Sergij [3] e La sonata a Kreutzer. Personalmente, è questo secondo Tolstoj che apprezzo di più, come ho già scritto altrove, ben più grande del primo, secondo il mio modestissimo, anzi, insignificante parere, perché moralmente e filosoficamente più profondo e tagliente, artisticamente sempre efficace, come già in Guerra e pace e Anna Karenina, romanzi tuttavia inquinati alla fonte da una certa aristocratica superficialità, da una certa aristocratica frivolezza, desuete già all’epoca, come rilevato da Dostoevskij, che, pur apprezzando Tolstoj, lo considerava rappresentante di una letteratura vecchia, oramai superata.

Delle opere del secondo Tolstoj sopracitate, La sonata a Kreutzer, pubblicata nel 1890, si impone come l’esito più radicale del pensiero cristiano, il cosiddetto tolstoismo, in sostanza, dello scrittore russo, in quanto sistematica, spietata e implacabile demolizione del matrimonio, e, più in generale, di ogni presunto rapporto amoroso tra uomo e donna, peccaminoso e colpevole sempre, senza nessuna eccezione. Tolstoj, come puntualizza egli stesso, condivide tutte le radicali ed estreme tesi sostenute dal protagonista del racconto; tesi così radicali ed estreme da risultare spesso persino inquietanti, ma frutto di un’aspirazione verso un ideale superiore, il supremo ideale di Cristo.

La sonata a Kreutzer, come La morte di Ivan Il’ič e Padre Sergij (per quanto riguarda Resurrezione, esso si impone come il più grande romanzo di Tolstoj, dunque come uno dei romanzi più grandi dell’intera storia della letteratura, d’ogni tempo e luogo, mentre nel saggio Guerra e rivoluzione lo scrittore russo espone il suo anarchico pensiero politico), è un libro breve e denso, da leggere tutto d’un fiato, e rischioso, per noi tutti, perché, giuste o sbagliate che siano le idee in esso contenute (non è affatto questo che importa e non può importare), rivela con crudeltà e spietatezza quell’ipocrisia che, fondamentalmente, si cela dietro ogni rapporto coniugale. Ma addentriamoci nel racconto, ri-leggendone i – molti – passi fondamentali.

In un treno sferragliante per chissà quale angolo dell’immensa, sterminata Russia, alcuni passeggeri, più o meno occasionali compagni di viaggio, discutono dell’amore e del matrimonio. Prende la parola un signore canuto, precocemente canuto, fino a quel momento taciturno e schivo, e le sue frasi sono da subito ciniche e caustiche. Egli entra lancia in resta nel discorso e, ponendo al centro della questione l’amore carnale, rivela di non credere nel fantomatico amore eterno, ideale, e tantomeno nel suo sacramento, il matrimonio: «[…] qui poi non si tratta soltanto di calcolo delle probabilità, è una questione, probabilmente, di saturazione. Amare un uomo o una donna per tutta la vita è proprio come dire che una stessa candela arderà per tutta la vita»; «Esistono [i matrimoni]. Sì, ma perché esistono? Sono esistiti ed esistono per persone che nel matrimonio vedono qualcosa di arcano, un sacramento che vincola davanti a Dio. Per quelle persone esistono, ma non per noi. Qui la gente si sposa, senza vedere nel matrimonio altro al di là dell’accoppiamento, e il risultato è sempre inganno, o violenza. Se è un imbroglio, è più facile da sopportare. Il marito e la moglie non fanno altro che imbrogliare la gente con la loro parvenza di monogamia, e vivono in un regime di poligamia e poliandria. È meschino, ma ancora accettabile. Ma quando, come spesso accade, la moglie e il marito si sono assunti l’impegno formale di vivere insieme per tutta la vita, e già dal secondo mese si odiano reciprocamente, vorrebbero separarsi eppure continuano a convivere, quello che scaturisce allora è un inferno orripilante, per via del quale si finisce alcolizzati, ci si spara o si ammazza e si avvelena se stessi oppure l’altro» [4]. Ed è quanto è avvenuto a questo signore canuto, che inizia a raccontare la propria drammatica storia all’occasionale compagno di viaggio che gli è toccato in sorte, dopo che gli altri passeggeri hanno lasciato la carrozza. Egli è Pozdnyšev, l’assassino di sua moglie.

Il racconto di Pozdnyšev inizia proprio dal suo rapporto con le donne, quand’era ancora un giovane scapolo e non cercava legami, ma solo brevi soddisfazioni carnali, individuando la depravazione, la vera depravazione non nell’aspetto meramente fisico, sessuale, ma nell’aspetto morale: «La depravazione non sta in qualcosa di fisico, perché infatti nessuna turpitudine fisica è depravazione; la vera depravazione è proprio volersi liberare dei legami morali con la donna con cui si ha un rapporto fisico». Ovvero: soffocare, eliminare la componente specificamente umana lasciando spazio solo ed esclusivamente a quella bestiale, uno dei temi principali del racconto di Tolstoj.

Pozdnyšev confessa – La sonata a Kreutzer è, di fatto, una lunga confessione, influenzata evidentemente dall’illustre modello dostoevskiano (perché, come scrive Bazzarelli, «tutti i romanzi di Dostoevskij non sono altro che geniali “assemblaggi” di “confessioni”, contengono confessioni, contengono dialoghi che sono confessioni» [5]) – allo sconosciuto interlocutore di aver avuto il primo rapporto sessuale, ancora adolescente, con una prostituta. Ecco una delle chiavi della sua severità morale, come sa perfettamente ogni uomo coscienziosamente evoluto che abbia perduto la verginità ricorrendo al denaro. Dopo quell’esperienza, che peserà per sempre sul capo del malcapitato come una spada di Damocle, il sesso si fa colpa e violenza, e l’amore è distrutto per sempre. È, in sostanza, quanto accade anche ad Adrian Leverkühn, l’indimenticabile compositore – visto l’ambito musicale – protagonista del Doctor Faustus di Thomas Mann, dopo l’iniziatica avventura con la sua Esmeralda, da cui scaturisce il diabolico divieto di amare e la malattia, simbolicamente morale oltreché fisica, che lo mette in contatto con le forze del male [6].

«Tutto è cominciato quando non avevo ancora compiuto i sedici anni. È successo quando ero ancora al liceo, e mio fratello maggiore frequentava il primo anno di università. Non avevo ancora conosciuto una donna, ma come tutti gli infelici ragazzini della nostra cerchia, già non ero più innocente: già da più di un anno i miei coetanei mi avevano avviato alla depravazione; ero già tormentato non da una donna in particolare, ma dalla donna come oggetto di lussuria, tormentato da ogni donna, dalla nudità della donna. Commettevo in solitudine atti impuri. Mi tormentavo, come si tormenta il 99% dei nostri ragazzi. C’erano il tormento, la sofferenza, le preghiere, e poi cadevo. Ero già corrotto nell’immaginazione e nella sostanza, ma non avevo ancora compiuto l’ultimo passo. Mi perdevo, ma io solo, non avevo ancora messo le mani addosso a un altro essere umano. Quand’ecco che un compagno d’università di mio fratello, un allegrone, di quelli che chiamano bravi ragazzi, e sono invece i più grandi farabutti, lo stesso che già ci aveva insegnato a bere e a giocare a carte, una volta, dopo diverse bottiglie, ci convinse ad andare in uno di quei posti. E noi ci andammo. Anche mio fratello era innocente, e cadde quella stessa notte. E io, un ragazzino di quindici anni, profanai me stesso e contribuii a profanare una donna, senza capire minimamente quello che facessi. Nessuno degli adulti mi aveva mai detto che quel che facevo era male. E pure adesso, a chi lo direbbero? Certo, c’è nei comandamenti, ma i comandamenti servono soltanto per rispondere all’esame di religione, e anche lì fino a un certo punto, non sono certo importanti come i comandamenti per usare ut nelle comparazioni ipotetiche».

Il ricorso alla prostituzione rovina per sempre, irreversibilmente, il rapporto dell’uomo con la donna, facendone un debosciato e marchiandolo a vita come Caino (Pozdnyšev nelle seguenti righe conferma quanto ho scritto sopra):

«Ma nonostante tutto in quella prima caduta c’è stato qualcosa di particolare e di commovente. Mi ricordo come subito, prima ancora che uscissi dalla camera, era diventato triste, così triste che avevo voglia di piangere, piangere per la perdita della mia innocenza, per il rapporto con le donne rovinato per sempre. Sì, il rapporto semplice, naturale con le donne era rovinato per sempre. Da quel momento non ho mai avuto, né avrei potuto avere, un rapporto puro con le donne. Sono divenuto quel che si dice un debosciato. È una condizione fisica, simile a quella dei morfinomani, degli alcolisti, dei fumatori. Come un morfinomane, un alcolista o un fumatore, così anche chi ha conosciuto diverse donne per il proprio piacere non è più una persona normale, è rovinato, prigioniero per sempre del vizio. Proprio come un alcolista o un morfinomane, anche un debosciato lo si riconosce subito, dall’aspetto e dal modo di fare. Un debosciato può trattenersi, lottare; ma un semplice, trasparente e puro rapporto con una donna, un rapporto fraterno, non potrà mai averlo. Dal modo in cui sogguarda, accarezza con gli occhi una giovane donna non ci vuole nulla a riconoscere un debosciato. Io lo sono divenuto, e tale sono rimasto, e questa è stata la mia rovina».

Pozdnyšev racconta di essere vissuto, fino ai trent’anni, in quella che definisce, senza mezzi termini (egli si esprime sempre senza mezzi termini, per lui tutto è bianco o nero, caldo o freddo; l’atteggiamento tipico del radicale insomma, proprio di un Kirillov [7] o di un Ivan Karamazov [8]), la «più putrida depravazione». Poi incontra lei, e comprende che è proprio lei la prescelta, la donna giusta da sposare. A questo punto del racconto Pozdnyšev distrugge tutte le illusioni costruite attorno al mito dell’amore, sottolineando, per l’ennesima volta, come agli uomini, tutti corrotti, interessi solo ed esclusivamente la soddisfazione carnale, e come le donne siano perfettamente consapevoli di ciò, riducendo l’intera alta società ad una sterminata casa di tolleranza. Tra una signorina nobile e una prostituta non c’è alcuna differenza.

«Le donne, soprattutto quelle che hanno avuto in sorte di imparare dagli uomini, sanno molto bene che tutti i discorsi elevati non sono che parole, e che agli uomini non interessa nient’altro che il corpo, e tutto quello che lo esponga nella luce più accattivante; e fanno esattamente questo. Se ci liberassimo per un attimo della percezione consuetudinaria di tutta questa ignominia, che è diventata per noi una seconda natura, e considerassimo la vita dell’alta società per quello che realmente è, in tutta la sua impudenza, ci troveremmo di fronte un’unica, sconfinata casa di tolleranza. Non è d’accordo? Permettetemi di dimostrarvelo […]. Voi ritenete che le donne nella nostra società nutrano interessi diversi rispetto alle donne delle case di tolleranza, e io vi dimostrerò che è falso. Se le finalità, il contenuto interiore dell’esistenza sono differenti, tale differenza si rifletterà inevitabilmente anche sull’aspetto esteriore, e tale aspetto sarà differente. Ma osservate quelle derelitte e infelici, e poi le dame della più alta società: agghindate, vestite allo stesso modo, gli stessi profumi, le stesse braccia, spalle e seni denudati e il sedere in bella mostra sotto gli abiti attillati, la stessa passione per le pietruzze e gli altri gingilli costosi e luccicanti, gli stessi divertimenti, balli, musica e canti. Sia quelle che queste usano ogni mezzo per sedurre. Non c’è alcuna differenza. A un esame oggettivo si può solo dire che quelle che si prostituiscono per brevi periodi sono di solito disprezzate, e quelle che si prostituiscono più a lungo sono invece riverite».

L’alta società è, di fatto, un mercato, le ragazze stanno in esposizione e gli uomini scelgono: «L’unica novità è che le ragazze stanno in esposizione, e gli uomini come al mercato vanno su e giù per scegliersele. Le ragazze aspettano e pensano, anche se non osano dirlo: “Signore, scelga me! No, me! No, non lei, io, ci sono io, guardi che spalle e il resto”. E noi uomini facciamo il nostro giro, esaminiamo, tutti contenti. “Tanto mica ci casco, io”. Fanno il loro giro, osservano, contenti che sia tutto quanto organizzato per loro. Ma appena uno si distrae, zac, e finisce al laccio!». La donna è così ridotta ad «una schiava al bazar, o un’esca per la trappola». Si realizza così una sorta di «compravendita»: «Vendono a un depravato una ragazza innocente e ammantano la transazione di una serie di formalità».

Pozdnyšev sostiene l’innaturalezza dell’atto sessuale, perché se si mangia con gioia, nel rapporto carnale, al contrario, tutto è «squallore», «dolore» e «vergogna» (ma non si dimentichi mai l’influsso negativo dell’esperienza sessuale mercantile sul protagonista). Naturalmente, l’interlocutore sottolinea come questo severo approccio conduca di fatto all’estinzione del genere umano. Questa la replica filosofico-cristiana di Pozdnyšev:

«E perché vivere? Se non c’è alcun fine, se l’unica finalità della vita è la vita stessa, allora non ha senso vivere. In quest’ottica hanno ben ragione i vari Schopenhauer e Hartmann e tutti i buddisti. Se invece c’è un fine nella vita, allora è naturale che la vita debba estinguersi, una volta raggiunto tale fine. È la naturale conseguenza […]. Tenete presente questo: se il fine dell’umanità è il bene, l’amore, se preferite; se il fine dell’umanità è quello che è stato annunciato dai profeti, e cioè che tutti gli uomini siano congiunti dall’amore, che le lance siano trasformate in falci, eccetera, qual è l’ostacolo? L’ostacolo sono le passioni. E tra le passioni, la più forte e brutta e ostinata è quella sessuale, l’amore carnale; perciò se si elimineranno le passioni, compreso quindi l’amore carnale, la profezia si avvererà, gli uomini si congiungeranno e l’umanità che avrà raggiunto il suo fine non avrà motivo di vivere. Ma finché l’umanità vive, si pone un ideale e, s’intende, non l’ideale dei conigli e dei porci, che aspirano a riprodursi quanto più possibile, e neppure quello delle scimmie e dei parigini, di usufruire nella maniera più raffinata possibile della passione sessuale, ma l’ideale del bene, che si raggiunge con l’astinenza e la castità. Un ideale a cui gli uomini hanno sempre aspirato e aspirano. E guardate cosa ne consegue.
Ne consegue che l’amore carnale è una valvola di sicurezza. L’attuale generazione non ha raggiunto il suo fine, e non l’ha raggiunto solo per via delle passioni, in particolare la più forte, quella sessuale. Ma essendoci la passione sessuale c’è una nuova generazione, quindi c’è la possibilità di raggiungere il fine nella successiva generazione. Se neppure quella lo raggiunge, ce ne sarà un’altra, e così via, finché il fine sarà raggiunto, la profezia si avvererà, gli uomini si congiungeranno. Altrimenti che succederebbe? Ammettiamo che Dio abbia creato gli uomini per il raggiungimento di un determinato fine, creandoli però o mortali, senza passione sessuale, o immortali. Se fossero mortali, ma senza passione sessuale, cosa succederebbe? Avrebbero vissuto, senza conseguire il fine, e sarebbero morti, e perché si raggiunga il fine, Dio avrebbe creato nuovi uomini. Se invece fossero mortali e, ammettiamo (sebbene sia più difficile per le stesse persone che per nuove generazioni correggere gli errori e avvicinarsi alla perfezione) che dopo molte migliaia di anni raggiungessero il fine, che senso avrebbero? Dove li andremmo a mettere? Proprio quella presente è la situazione migliore… ma forse non vi piacciono queste modalità di ragionamento, forse siete un evoluzionista? Anche in quel caso il punto è sempre lo stesso. Tra gli animali la razza superiore, che è quella umana, impegnata nella lotta per la sua conservazione con gli altri animali, deve compattarsi, come uno sciame d’api, e non riprodursi all’infinito. Deve cioè, come le api, educare eredi senza sesso, deve quindi comunque tendere all’astinenza, e non certo a sobillare la lussuria, come fa l’intero ordinamento della nostra vita […]. Il genere umano si estinguerà? È forse possibile che qualcuno ne dubiti, quali che siano i suoi sguardi sul mondo? Non ce ne può essere dubbio, come della morte. Tutte le dottrine religiose preannunciano la fine del mondo e tutte le dottrine scientifiche la ritengono inevitabile. Cosa c’è dunque di strano se la dottrina morale prevede la stessa cosa?».

Questa pagina rappresenta probabilmente l’esito estremo del pensiero tolstoiano, che, nell’esaltazione dell’astinenza e della castità, arriva a proclamare l’estinzione del genere umano, la fine del mondo. Tutto in nome dell’ideale, quel supremo ideale che qui non viene nominato, ma che Tolstoj nominerà nella sua spiegazione e, in un certo senso, giustificazione della Sonata a Kreutzer, una sorta di appendice critica: Cristo, posto, come già aveva fatto Dostoevskij [9], al centro del suo impegno letterario, filosofico e politico dopo la conversione del 1881. Inoltre, anche in questo fondamentale passo riecheggia prepotente uno dei temi e dei messaggi principali del racconto: noi non siamo bestie, non siamo conigli, maiali, scimmie. E in quanto tali possiamo, anzi, dobbiamo, porre l’estinzione della specie, la fine del mondo quale massimo obiettivo morale, come fatto dalle religioni e certificato dalla scienza. Perpetuarsi solamente per saziare i nostri desideri carnali non ha senso, è indice di bassezza morale, di depravazione, ed è facile immaginare lo sdegno di Tolstoj se venisse a conoscenza dell’opportunità di cui disponiamo noi uomini del XXI secolo: estinguerci senza per questo dover rinunciare ai piaceri sessuali… una manifestazione di sopraffino nichilismo. Ma come ogni esito filosofico estremo, anche quello di Tolstoj finisce per sfociare nell’utopia. È inevitabile. L’uomo si estinguerà, certo, il mondo finirà, certo, ma mai per un impeto morale di tali proporzioni.

Pozdnyšev e signora già pochi giorni dopo il loro matrimonio, precisamente durante la luna di miele, si ritrovano a fare i conti con l’insoddisfazione della vita coniugale. È infatti in questa situazione convenzionalmente idillica che litigano per la prima volta: «L’ho chiamata lite, ma non si trattava di una lite, era semplicemente il riconoscimento dell’abisso che in realtà ci divideva. L’innamoramento si era esaurito con la soddisfazione dei sensi, e ci ritrovavamo l’uno di fronte all’altra nell’effettiva natura dei nostri rapporti, che erano quelli di due egoisti, assolutamente estranei l’uno all’altra, che non desideravano nulla più che trarre dall’altro quanto più piacere possibile». L’uomo, per quanto possa illudersi del contrario, circondandosi di affetti e legandosi sentimentalmente per tutta la vita ad un suo simile, resta sempre solo, non c’è che il sesso e infatti, secondo l’esperienza di Pozdnyšev e il pensiero di Tolstoj, il matrimonio non è altro che un’alternanza di liti e di temporanee soddisfazioni sessuali, che placano, ma solo per breve tempo, gli inguaribili malumori. Il sesso non è che un palliativo, il contrasto marito-moglie resta, pronto ad esplodere da un momento all’altro e per una semplice sciocchezza. Il sesso, o meglio, il cosiddetto amore, che, al contrario di come viene rappresentato idealmente e poeticamente, è bestiale e criminale:

«La cosa più sordida […] è che in teoria l’amore è considerato qualcosa di ideale, elevato, e invece all’atto pratico è una cosa meschina, bestiale, che provoca vergogna e disgusto se se ne parla o ci si pensa. E non sarà un caso se la natura ha voluto che suscitasse vergogna e disgusto. E la vergogna e il disgusto devono essere intesi per quel che sono. La gente invece, al contrario, dà a vedere che quel che è vergognoso e disgustoso sia sublime ed elevato. Quali sono stati i primi segni del mio amore? Che mi sono abbandonato a eccessi animaleschi, non solo senza vergognarmene, ma andando fiero, per qualche motivo, della possibilità di questi eccessi fisici, dimenticandomi completamente non solo degli aspetti spirituali della vita di mia moglie, ma persino di quelli fisici. Non riuscivo a spiegarmi da dove provenisse il nostro reciproco malanimo, mentre la soluzione era chiarissima: quell’inasprimento non era altro che una protesta della natura umana contro l’animale che la stava schiacciando.
Mi stupivo del nostro odio reciproco. Ma non avrebbe potuto essere altrimenti. Quell’odio non era altro che l’odio che nutrono l’uno per l’altro i complici di un crimine: per la partecipazione e l’istigazione a quel crimine. E cos’altro era, se non un crimine, quando quella poverina era rimasta incinta sin dal primo mese, e i nostri porci rapporti proseguivano? Pensate che stia deviando dall’oggetto del mio racconto? Neanche un po’. Continuo a raccontarle come ho ucciso mia moglie. Che sciocchi! Pensano che l’abbia uccisa col coltello, quel giorno, il 5 ottobre. Invece no, è molto prima che l’ho uccisa. Allo stesso modo in cui in questo momento sono tutti, tutti quanti intenti a uccidere…».

L’uomo non è una bestia, eppure si comporta decisamente peggio di una bestia. Mentre infatti la bestia si accoppia solo ed esclusivamente per procreare, l’uomo si accoppia per piacere, e, come se non bastasse, «innalza questa occupazione scimmiesca al livello della gemma della creazione, l’amore». La donna è ridotta a mero strumento di piacere, schiava umiliata e depravata, l’uomo a depravato schiavista. La consorte dona a Pozdnyšev cinque figli in otto anni, ma neppure queste povere creature – le vere vittime, sempre, degli esiti disastrosi e drammatici del rapporto tra i loro genitori -, venute al mondo contro la loro volontà, portano serenità nel matrimonio, anzi, lo esasperano ancor di più, se possibile, in «una continua lotta contro pericoli reali e immaginari». Perché le famiglie abbienti, sovracivilizzate, rispetto agli animali, che non si tormentano, e agli uomini davvero tali, che si affidano a Dio, tremano ad ogni innocuo colpo di tosse dei loro deboli rampolli, affidandosi a quei medici nei confronti dei quali il protagonista, e il suo creatore con lui, nutre un odio profondo, irriducibile. Inoltre i bambini vengono ridotti a meri strumenti della quotidiana lotta tra marito e moglie.

Naturale conseguenza del modo immorale di vivere il rapporto coniugale proprio di Pozdnyšev e consorte, e di ogni altra coppia, è la gelosia. Gelosia che nel protagonista esplode a causa dell’avvenente violinista Truchačevskij, presunto amante della moglie, pianista dilettante, insieme alla quale esegue l’immensa composizione di Beethoven che dà il titolo all’opera. Il demone della gelosia agita Pozdnyšev, lo tormenta, lo tiranneggia, gli avvelena l’esistenza («Per fargli passare la voglia delle donne, invece che in un ospedale per sifilitici i giovani avrebbero dovuto portarli in giro per i meandri della mia anima, a vedere i diavoli che la dilaniavano»), completando la sua metamorfosi in bestia. Animato da una furia cieca, il protagonista, senza avere prove certe dell’effettivo tradimento della moglie, finisce per assassinarla, con una pugnalata al costato, ed è proprio dopo averla ridotta in fin di vita, quando la donna è ormai in punto di morte, che lui vede in lei, per la prima volta, un essere umano e non un animale, chiedendole persino perdono. Perdono è la parola che suggella La sonata a Kreutzer, e che Pozdnyšev ripete per ben due volte all’occasionale compagno di viaggio al quale ha narrato la sua drammatica storia.

Nella già citata spiegazione-giustificazione del racconto, pubblicato grazie all’intervento in prima persona dello zar Alessandro III, sollecitato da Sof’ja Tolstaja, moglie dello scrittore, Tolstoj ribadisce la propria ferrea convinzione nelle severissime e radicali tesi esposte nella Sonata a Kreutzer, sottolineando inoltre, e sono questi i due dati più importanti, la sua fedeltà all’ideale di Cristo e l’infondatezza cristiana del sacramento matrimoniale, sorta di concessione propagandistica all’umana debolezza e all’umana depravazione, attraverso la regolamentazione dell’amore carnale.

«Cristo non ha dato nessuna norma su come vivere, non ha mai creato istituti, non ha mai istituito neppure il matrimonio. Ma gli uomini, non capendo la specificità della dottrina di Cristo, abituati a dottrine esteriori e desiderando sentirsi dei giusti, come si sentono giusti i farisei, in piena contraddizione con l’insegnamento di Cristo, hanno creato, interpretandolo letteralmente, un’intera dottrina esteriore di regole, cioè la dottrina cristiana della chiesa, sostituendola all’autentica dottrina di Cristo, quella dell’ideale» [10].

Tolstoj non riconosce nessuna chiesa, nessuno stato, nessuna autorità. Egli riconosce solo Cristo e il suo ideale, che prevede, tra le altre cose, una castità assoluta, totale. Ed è su questo punto fondamentale del suo pensiero che fonda le opere successive alla conversione del 1881, animate tutte da un’eccezionale potenza sovversiva, che nella Sonata a Kreutzer porta alla demolizione del matrimonio, un «inferno» istituito solo ed esclusivamente per legittimare il depravato amore carnale.

«Ma un matrimonio cristiano non può esserci e non c’è mai stato, come non c’è mai stato né può esserci un rito religioso cristiano (Matteo, VI, 5-12, Giovanni, IV, 21), né padri o maestri sulla terra (Matteo, XXIII, 8-10), né proprietà privata cristiana, né eserciti, tribunali o stati cristiani. E ciò è sempre stato evidente agli autentici cristiani dei primi e degli ultimi secoli.
L’ideale del cristiano è l’amore per Dio e per il prossimo, rinneghiamo noi stessi per servire Dio e il prossimo; con l’amore carnale e il matrimonio si serve se stessi, e ciò è in ogni caso un ostacolo al servizio di Dio e degli uomini e quindi, dal punto di vista cristiano, una caduta, un peccato.
Contrarre un matrimonio non può favorire il servizio di Dio e degli uomini anche se quelli che lo contraggono avessero il fine della perpetuazione del genere umano. In questo caso potrebbero molto più semplicemente sostenere e salvare quei milioni di bambini che muoiono intorno a noi per la carenza di cibo, non solo spirituale, ma anche materiale.
Un cristiano sarebbe consapevole di non commettere peccato e di non cadere, sposandosi, solo nel caso che il necessario per l’esistenza di tutti i bambini del mondo fosse garantito.
Si può non accogliere l’insegnamento di Cristo, del quale è compenetrata tutta quanta la nostra vita e sul quale si fonda la nostra moralità, ma se lo si accetta, non si può negare che includa l’ideale della completa castità».

Tolstoj fa tabula rasa di tutte le sovrastrutture ideologiche e istituzionali elaborate e fondate dall’uomo nel corso della sua storia. Per lui resta solo Cristo, supremo ideale da perseguire sino in fondo, anche se ciò significasse giungere all’estinzione del genere umano. Perché tanto, continuare a vivere traviando sistematicamente gli insegnamenti evangelici non ha alcun senso, e porterà comunque alla fine del mondo, ma una fine brutale.

NOTE

[1] Per un approfondimento sul saggio rimando all’articolo Guerra e rivoluzione: l’anarchico Tolstoj contro la superstizione statalista.

[2] Per un approfondimento sull’ultimo romanzo di Tolstoj rimando all’articolo Resurrezione, il più grande romanzo di Tolstoj.

[3] Per un approfondimento sul racconto rimando all’articolo Padre Sergij, oltre se stessi.

[4] Le citazioni sono tratte da Lev Tolstoj, La sonata a Kreutzer, traduzione di Mario Caramitti, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2011.

[5] Eridano Bazzarelli, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, L’adolescente, Rizzoli, Milano 2011, p. 9.

[6] Per un approfondimento sul romanzo di Mann rimando all’articolo L’«arco vertiginoso» di Adrian Leverkühn nel Doctor Faustus di Thomas Mann.

[7] Per un approfondimento sul personaggio dostoevskiano rimando all’articolo Aleksèj Niljč Kirillov, l’Uomo-Dio.

[8] Per un approfondimento sul personaggio dostoevskiano e sull’ultimo e più grande romanzo dello scrittore russo rimando agli articoli I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Prima parteI fratelli Karamazov, il «libro sacro». Seconda parteFëdor Dostoevskij, Il Grande Inquisitore.

[9] Per un approfondimento sul pensiero dello scrittore russo rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.

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