«siamo tutt’e due uomini viziosi, uomini del sottosuolo, sudici…»
Vel’čaninov a Trusozkij
«[…] era necessario rappresentare una figura modesta e maestosa, mentre in realtà la vita è piena di aspetti comici ed è maestosa soltanto nel suo senso interiore, cosicché, volente o nolente, per esigenze artistiche mi sono visto costretto a toccare anche gli aspetti più volgari del mio monaco per non nuocere al realismo artistico» [1], scrive Dostoevskij in una lettera del 1879, a proposito dello starec Zosima, il mentore di Alëša che, nei Fratelli Karamazov [2], con la sua storia e i suoi insegnamenti, rappresenta la risposta vivente al pensiero negativo – ateo, anarchico, nichilistico – di Ivan Karamazov espresso nel Grande Inquisitore [3].
Del passo epistolare sopracitato ciò che più mi interessa qui e ora, in relazione all’opera di Dostoevskij che analizzeremo nel presente contributo, è il riferimento al comico, che lo scrittore e pensatore russo reputa fondamentalmente immanente alla vita umana, ogni vita umana, anche la più celebre ed edificante. In quanto tale, il comico riveste un ruolo importante all’interno dell’attività letteraria di Dostoevskij, sempre, irriducibilmente fedele a quello che egli stesso definisce «realismo artistico», trovando spazio di fatto in tutti i suoi testi, in modo più o meno evidente, mai disgiunto tuttavia dall’elemento tragico. Perché Dostoevskij resta essenzialmente uno scrittore tragico. Sulla compresenza e commistione di commedia e tragedia nel grande scrittore russo, ha speso parole importanti e significative Nabokov, a proposito delle Memorie dal sottosuolo [4] e, nello specifico, del memorabile pranzo dell’uomo-topo con i suoi vecchi compagni di scuola:
«Dostoevskij aveva un talento meraviglioso per mescolare la commedia alla tragedia; lo si potrebbe definire uno straordinario umorista, di un umorismo sempre al limite dell’isteria, con personaggi che si feriscono a vicenda in un furioso scambio d’insulti» [5].
Tra i personaggi dostoevskiani che si feriscono con maggiore spietatezza, vi sono Vel’čaninov e Trusozkij, rispettivamente l’amante e il coniuge cornuto del romanzo breve, o racconto lungo, L’eterno marito, uno di quei testi di Dostoevskij, come per esempio Il villaggio di Stepančikovo e i suoi abitanti, in cui il comico si manifesta in modo evidentissimo, finendo quasi con il prevalere sul tragico, senza tuttavia staccarsene mai completamente (non sarebbe realistico; del resto ogni vita umana, sia essa trascorsa nello sfarzo, nel lusso o nella miseria più nera, è una tragedia, non foss’altro perché termina con la morte).
Immergiamoci subito nella vicenda. È estate e Pietroburgo si svuota, chi se lo può permettere va in villeggiatura in dača, come nelle Notti bianche [6], ma Vel’čaninov resta in città, impegnato in una causa sfinente, tormentato dall’ipocondria. Alla soglia dei quarant’anni, dopo aver vissuto molto ed essersela goduta, Vel’čaninov si sente spiritualmente vecchio. Questo il suo ritratto:
«Era un omone alto e tarchiato, biondo, con i capelli folti e senza un pelo bianco né in testa né nella barba, castana chiara e lunga fin quasi a mezzo il petto; a prima vista appariva un po’ goffo e trasandato, ma, guardandolo più attentamente, avreste subito ravvisato in lui un signore dal contegno molto corretto, che aveva ricevuto un’educazione molto fine. Anche adesso, nonostante il fare brontolone e sgarbato che aveva preso, i suoi modi erano fieri e perfino aggraziati. Era ancora pieno della più incrollabile e mondanamente sfacciata sicurezza, la cui solidità, forse, non sospettava neanche lui, pur essendo un uomo non solo intelligente ma a volte perfino acuto, quasi colto e di indubbie doti intellettuali. La carnagione del suo viso, bianca e rosa, era stata in passato d’una delicatezza femminea e aveva attirato su di lui gli occhi delle donne; e anche adesso più d’uno diceva guardandolo: “Che tipo robusto, sangue e latte!” Eppure questo “tipo robusto” era gravemente malato d’ipocondria. I suoi occhi, grandi e azzurri, dieci anni addietro avevano anch’essi qualcosa che avvinceva; erano occhi così chiari, così allegri e spensierati che attraevano spontaneamente chiunque soltanto l’avvicinasse. Adesso, verso i quarant’anni, la limpidezza e la bontà si erano quasi spente in quegli occhi, già circondati da lievi e piccole rughe; in essi appariva invece il cinismo dell’uomo non del tutto morale e ormai stanco, l’astuzia, e più spesso l’ironia e in più una sfumatura nuova, che prima non c’era: una sfumatura di tristezza e di sofferenza, una tristezza distratta, quasi senza ragione, ma profonda. Questa tristezza si manifestava soprattutto quando rimaneva solo. E, cosa strana, quell’uomo che soltanto due anni prima era chiassoso, allegro, spensierato, e raccontava così bene certe storielle buffe, adesso amava più d’ogni altra cosa rimanersene completamente solo. Aveva abbandonato di proposito moltissime conoscenze che avrebbe potuto anche non abbandonare, nonostante i dissesti finanziari, ormai irrimediabili. A dire il vero, causa di questo era anche la vanità; la sua diffidenza e la sua vanità non gli consentivano di sopportare le conoscenze di un tempo. Ma nella solitudine anche la sua vanità cominciò a poco a poco a mutare. Non che fosse diminuita, anzi; ma era degenerata in una vanità d’un tipo speciale, che prima non esisteva in lui: a volte cominciava a soffrire per motivi ben diversi da quelli un tempo consueti, per motivi inaspettati e del tutto impensati, per motivi “più alti” di quelli di prima, “se poi si può dire così, che davvero vi siano dei motivi più alti e dei motivi più bassi…” come lui stesso soggiungeva» [7].
Insomma, il gaudente Vel’čaninov vive un momento di passaggio, di transizione, di cambiamento, alla soglia dei quarant’anni scopre la tristezza, il piacere della solitudine e combatte con certi motivi «più alti» mai concepiti prima d’ora: «egli chiamava “più alti” tutti i “motivi” di cui (con sua gran meraviglia), non riusciva assolutamente a ridere dentro di sé – cosa mai accaduta prima d’allora -» (5). Come se non bastasse, Vel’čaninov inizia a soffrire d’insonnia, e alla sua memoria si riaffacciano ricordi funesti, tutti quei casi in cui ha sparso gratuitamente offese e sofferenze. E per un malinconico e insonne ipocondriaco quarantenne nel bel mezzo di una crisi esistenziale Pietroburgo, la Pietroburgo estiva, è la patria ideale (si noti la presenza claustrofobica e kafkiana – del resto Kafka è tra i maggiori, se non il maggiore in assoluto, discepoli di Dostoevskij del Novecento [8] – del tribunale):
«”E perché me ne dovrei andare? – continuava a filosofare amaramente. – Qui c’è tanta polvere, tanta afa, in questa casa tutto è così sudicio; in quei tribunali dove vado girando, fra tutti quegli uomini d’affari che corrono come topi, c’è un tale inutile tumulto; tutta questa gente rimasta in città, tutte queste facce che mi passano davanti da mattina a sera portano scritto così ingenuamente e così sinceramente tutto il loro egoismo, tutta la loro impudenza sempliciona, tutta la vigliaccheria delle loro animucce, tutta la meschinità dei loro piccoli cuori, che, scherzi a parte, questo è proprio il paradiso per un ipocondriaco! Viva la faccia della sincerità! Qui non c’è nessuno che si senta in dovere di fingere, come accade alle nostre signore quando vanno in villeggiatura o nelle stazioni termali all’estero; tutto, quindi, è ben più degno della più assoluta stima, non foss’altro per la schiettezza e la semplicità… Non andrò in nessun posto! Creperò qui, ma non andrò in nessun posto!”» (10-11).
Ad esacerbare lo stato già morboso di Vel’čaninov interviene la presenza di un uomo con il crespo sul cappello, ed è proprio questa presenza continua, inquietante per le strade impolverate di Pietroburgo la causa principale della sua inedita tristezza. La scena dell’Eterno marito in cui Vel’čaninov coglie il misterioso uomo con il crespo sul cappello, nella chiara notte-non-notte pietroburghese, nella strada deserta, intento a scrutare il suo appartamento, ha un’efficacia cinematografica, oserei dire quasi hitchcockiana:
«Non aveva ancora avuto il tempo di aprire la finestra, ma scivolò rapido dietro lo spigolo del vano e si nascose: sul deserto marciapiede dirimpetto aveva scorto, proprio davanti alla casa, il signore col crespo sul cappello. Se ne stava fermo sul marciapiede, col viso rivolto verso le sue finestre; ma evidentemente senza accorgersi di lui, e guardava la casa con curiosità, quasi meditasse qualche piano. Sembrava che rimuginasse qualcosa e che stesse prendendo una decisione: sollevò la mano e parve che si mettesse un dito alla fronte. Finalmente si risolse: si guardò attorno di sfuggita e in punta di piedi, furtivamente, cominciò ad attraversare in fretta la strada. Ci siamo: aveva passato il portone di casa, il cancelletto (che certe volte d’estate non veniva chiuso con la stanga prima delle tre). “Viene da me” guizzò in mente a Vel’čaninov e di colpo, a precipizio, e anche lui in punta di piedi corse in anticamera verso l’uscio e si fermò lì davanti, irrigidito nell’attesa, dopo aver appoggiato lievemente la destra sussultante sul saliscendi che aveva chiuso poco prima, spiando con tutte le forze lo scalpiccio dei passi attesi su per le scale» (22).
Vel’čaninov e l’uomo misterioso con il crespo sul cappello, che lo ha tormentato con la sua inquietante presenza nelle ultime settimane, angustiandolo, rattristandolo, si ritrovano faccia a faccia. Finalmente conosciamo l’identità dell’uomo in lutto: si tratta di Pavel Pavlovič Trusozkij, marito di Natalia Vasil’evna, morta di tisi quattro mesi prima. I due uomini, un tempo buoni conoscenti, non si vedevano da ben nove anni. Naturalmente Vel’čaninov è stato l’amante di Natalia; un amore particolare il suo per questa particolare donna, profondo e servile, come quello di Aleksej per Polina nel Giocatore [9]. Questo il ritratto di Natalia:
«[…] “non solo era tutt’altro che bella, ma forse era perfino brutta”. Quando Vel’čaninov la conobbe, ella aveva già ventotto anni. Il suo viso non proprio bello poteva talvolta animarsi gradevolmente, ma gli occhi non erano belli: c’era nel suo sguardo una certa eccessiva durezza. Era molto magra. La sua cultura intellettuale era scarsa, la sua intelligenza indiscutibile e acuta, ma quasi sempre unilaterale. I modi erano quelli della signora provinciale mondana, ma, a dire il vero, aveva molto tatto; un gusto finissimo, ma per lo più solo nel vestire. Aveva un carattere deciso e prepotente: riconciliazioni a metà non ce ne potevano essere con lei: “o tutto o niente”. Nelle cose difficili, dimostrava una tenacia e una saldezza ammirevoli. C’era in lei il dono della generosità, e quasi sempre, accanto a esso, una sconfinata ingiustizia. Discutere con quella signora era impossibile: per lei due più due non significava nulla. Mai e in nessun caso avrebbe ammesso d’essere ingiusta o di aver torto. Le continue e innumerevoli infedeltà coniugali non le pesavano affatto sulla coscienza. Secondo una similitudine dello stesso Vel’čaninov, essa era come la “madonna dei flagellanti” che crede lei stessa fermissimamente nel fatto d’essere davvero la madonna: anche Natalia Vasil’evna credeva fermissimamente in ognuna delle sue azioni. All’amante era fedele, però fino a quando non le veniva a noia. Le piaceva tormentare il suo amante, ma anche ricompensarlo. Era un tipo appassionato, crudele e sensuale. Odiava la depravazione, la condannava con incredibile accanimento – ed era lei stessa depravata. Non vi erano fatti che potessero mai portarla alla consapevolezza della propria depravazione. “Certo, lei non se ne rende conto”, pensava di lei Vel’čaninov quando era ancora a T. (e, sia detto di passata, quando partecipava lui stesso a questa sua depravazione). “È una di quelle donne – pensava – che sembrano nate per essere mogli infedeli. Le donne come lei non rimangono mai zitelle, la loro legge di natura è di aver sempre un marito. Il marito è il loro primo uomo, ma soltanto dopo le nozze. Nessuna si sposa più abilmente e più facilmente di loro. Del primo amante ha sempre colpa il marito. E tutto si svolge nella miglior buona fede; fino alla fine si sentono nel modo più assoluto dalla parte della ragione, e, certo, completamente innocenti”» (37-38).
Già da quanto emerge dalla conclusione di questo passo, Vel’čaninov si distingue per una grande capacità di indagine della natura umana, per una spiccata sensibilità psicologica, il cui risultato migliore è rappresentato dalla teorizzazione della categoria «eterno marito», che dà il titolo all’opera e nella quale rientra naturalmente il pluricornuto Trusozkij:
«Vel’čaninov era convinto dell’esistenza d’un simile tipo di donne; ma era altresì convinto che esistesse anche un tipo di marito corrispondente a queste donne, la cui unica missione consisteva soltanto nell’essere, diciamo così, “eterni mariti”, o, per meglio dire, nell’essere nella vita soltanto mariti e nient’altro. “Un individuo simile nasce e si sviluppa unicamente per ammogliarsi e, una volta ammogliato, per trasformarsi in un’appendice della moglie, anche quando egli abbia una personalità sua, ben determinata. La proprietà essenziale di un simile marito è quel certo ornamento. Egli non può non essere cornuto, così come il sole non può non risplendere, però non soltanto non ne sa mai nulla, ma non potrà mai saperlo per le leggi medesime della natura”. Vel’čaninov credeva fermamente che esistessero quei due tipi e che Pavel Pavlovič Trusozkij di T. fosse il perfetto esemplare d’uno di essi» (38-39).
Tra i due personaggi inizia un vero e proprio duello, tanto psicologicamente sottile quanto nervosamente spietato, fatto di gesti, di sguardi, di parole dette e, soprattutto, di parole non dette. Un duello che Moravia, il principale discepolo italiano di Dostoevskij, paragona a quello tra Raskol’nikov e Porfirij in Delitto e castigo [10]:
«[…] tra l’eterno marito e l’eterno amante […] c’è lo stesso rapporto, appunto come di gatto col topo, che, nel maggiore romanzo c’è tra Raskol’nikov e il giudice Porfirij: c’è stato un delitto cioè le corna, e l’eterno marito vuole portare l’eterno amante a confessarlo, a dichiararsi colpevole» [11].
È questo, esattamente questo lo scopo di Trusozkij, il motivo principale per cui, dalla provincia, si è trasferito nell’afosa e polverosa, perennemente chiara e insonne Pietroburgo. L’eterno marito, scoperti post mortem i tradimenti della moglie, sprofondato nell’alcol e nella dissolutezza, vuole vendicarsi, e in questo grottesco, per certi versi, grossolano e al tempo stesso sopraffino, sentimento di vendetta, egli rivela la sua appartenenza al sottosuolo. Quel sottosuolo che rappresenta il polo negativo del pensiero dostoevskiano [12], teorizzato dallo scrittore russo nelle omonime, straordinarie Memorie. Ora, Trusozkij è un parente diretto dell’uomo-topo protagonista delle Memorie dal sottosuolo, un uomo piccolo e meschino, autoreferenziale ed egocentrico, senza averne motivo, mentre Vel’čaninov, anch’egli abitante del sottosuolo – Dostoevskij, nel ritratto sopracitato, lo definisce «uomo non del tutto morale» -, è un tipo ben più raffinato, alla Stavrogin [13] o alla Svidrigajlov. Attenzione però, Vel’čaninov non è un radicale come questi due personaggi neri, più neri della notte, non stupra bambine e non si suicida, né lo farà mai, perché troppo gaudente e legato ai sani piaceri della vita. Pertanto non condivido l’interpretazione di Moravia, che opera una sovrapposizione perfetta, un’identificazione totale, tra Vel’čaninov e Svidrigajlov:
«Chi è Vel’čaninov? Egli non è altri che Svidrigajlov, il deuteragonista di Delitto e castigo. Già lo stato civile è analogo: cinquantenne, proprietario di terre, celibe. Inoltre ozioso, mondano e libertino. Ed ecco l’aspetto fisico identico a quello di Vel’čaninov: “… un uomo non più giovane, robusto, con una folta barba chiara, quasi bianca”. Ma più che la descrizione dell’aspetto fisico, è il tema che Svidrigajlov incarna, che lo rende simile a Vel’čaninov. Di quale tema si tratta? Per dirla con le stesse parole del personaggio (“sono un uomo depravato e ozioso”) si tratta della depravazione originata dalla sensualità combinata con l’ozio e col denaro, cioè della depravazione da rendita» [14].
Secondo il mio modesto parere, la «depravazione da rendita» non basta. Vel’čaninov rappresenta piuttosto una sorta di via di mezzo, di stato intermedio, tra l’uomo-topo e Trusozkij e tra Stavrogin e Svidrigajlov (in un altro contributo ho definito questi due personaggi nichilisti naturali, poi ci sono i nichilisti speculativi come Kirillov [15] e Ivan Karamazov; entrambe le tipologie rientrano comunque in quello che ho definito sottosuolo del sottosuolo, ambiente ultimo, negativamente definitivo, ben più grave del semplice sottosuolo abitato dall’uomo-topo, da Trusozkij e da Vel’čaninov).
Trusozkij rivela tutta la sua piccolezza e tutta la sua meschinità soprattutto nel modo in cui tratta la piccola Lisa, sua figlia legale, in realtà figlia naturale di Vel’čaninov. Sulla povera creatura l’eterno marito riversa tutte le sue autoreferenziali frustrazioni, tormentandola, maltrattandola (proprio come l’uomo-topo tormenta e maltratta la sua di Lisa, la prostituta pura che si getta tra le sue braccia):
«[…] Marja Sysoevna [la proprietaria della casa pietroburghese abitata da Trusozkij e sua figlia] si mise subito a raccontare di Pavel Pavlovič. Secondo le sue parole, non fosse stato per la bimbetta, da un pezzo l’avrebbe cacciato via. Anche dall’albergo l’avevano cacciato via perché aveva cominciato a farne di ogni colore. Non era una vergogna portarsi in casa di notte una ragazza [una prostituta, evidentemente], quando lì accanto c’era una bimbetta che capiva tante cose? E lui a gridare: “questa qui sarà tua madre, se così voglio io!”. E, lo credereste, perfino la ragazza, che era quel che era, gli sputò sul muso. E lui urlava: “Tu, diceva, non sei una figlia per me, ma una bastarda!”
– Che dite? – sbigottì Vel’čaninov.
– L’ho sentito io. Quando uno è ubriaco non sente niente, si sa, ma comunque non è bene che abbia un bambino accanto: anche piccolo, pure arriverà da solo a capire! Piangeva, la bimbetta, lo vedevo che era stremata. E poco tempo fa qui da noi accadde un fattaccio: un cassiere, così disse la gente, prese una camera in albergo, la sera, e al mattino s’impiccò. Dicono che avesse scialacquato tutti i suoi soldi. Accorse gente, Pavel Pavlovič non era in casa, non c’era chi badasse alla bambina, e a un tratto me la vedo nel corridoio, fra la gente, e sbircia da dietro gli altri, guarda stranamente l’impiccato. La condussi via al più presto. Figuratevi, sussultava tutta, s’era fatta livida, e appena la portai qui, stramazzò. Si contorceva, si contorceva, a fatica tornò in sé. Erano convulsioni, e da quel momento incominciò a star male. Lui lo venne a sapere, tornò a casa, le diede un sacco di pizzicotti, perché non è che la bastoni, più che altro la pizzica; poi si sbronzò, le venne davanti e la spaventò: “M’impiccherò anch’io, diceva, per causa tua m’impiccherò; a quel cordino là, alla tenda m’impiccherò”; e davanti a lei fa il nodo scorsoio. E la piccola era fuori di sé, gridava, lo teneva stretto con le manine: “Non lo farò più, gridava, non lo farò mai più”. Che pietà!
Benché Vel’čaninov si aspettasse qualcosa di molto strano, questi racconti lo colpirono a tal segno che non ci credette neppure. Marja Sysoevna gli raccontò molte altre cose: una volta, per esempio, se non fosse stato per lei Lisa, forse, si sarebbe gettata dalla finestra. Egli uscì dalla camera, come ubriaco: “L’ammazzerò a bastonate in testa, come un cane!” vaneggiava. E per un pezzo seguitò a dire così fra sé» (76-77).
Trusozkij è un uomo davvero spregevole, un vigliacco che sfoga tutte le sue frustrazioni su una piccola creatura indifesa e innocente; una colpa gravissima secondo la prospettiva dostoevskiana, in cui i bambini si impongono quale supremo emblema di purezza e speranza (si pensi ad esempio a Il’juša, l’ultimo e probabilmente più commovente bambino di Dostoevskij, nei Fratelli Karamazov). Vel’čaninov strappa Lisa dalle grinfie del rivale, e la bambina rappresenta per lui una luce improvvisa e abbacinante, il simbolo vivente, in carne e ossa, di una nuova vita, all’insegna della purezza e della morale:
«La cara immagine della povera bambina gli sorse malinconica dinanzi. Il cuore gli batté più forte all’idea che quel giorno, fra poco, fra due ore, avrebbe riveduto la sua Lisa. “Eh, c’è poco da dire! – decise con fervore, – in ciò sta ora tutta la mia vita, tutto il mio scopo! Che importano questi schiaffi e questi ricordi!… E per che cosa son vissuto finora? Disordine e malinconia… ma adesso tutto è diverso, tutto è cambiato!”» (75).
Ma dura poco, perché Lisa, nervosamente sfinita dalle bestialità di Trusozkij, e malata, muore appena due giorni dopo il primo incontro con il suo padre naturale, «in una bellissima sera d’estate, insieme col tramonto del sole» (91). Per Vel’čaninov è un colpo durissimo. Egli sprofonda in uno stato di depressione cupa ed è assediato da continui turbamenti, anche, e soprattutto, riguardo ciò che sarebbe potuto essere ma non è stato né sarà mai.
«Giunsero le giornate più calde di luglio, ma Vel’čaninov aveva dimenticato perfino il tempo. Il dolore gli spasimava nell’anima come un accesso maturo e gli si chiariva senza posa in un pensiero dolorosamente consapevole. La sua sofferenza maggiore consisteva nel fatto che Lisa non aveva fatto in tempo a conoscerlo ed era morta senza sapere come egli l’amasse tormentosamente! Tutto lo scopo della sua vita, che gli era sorto dinanzi in tanta luce gioiosa, a un tratto si era offuscato nella tenebra eterna. Lo scopo sarebbe stato esattamente questo, – vi ripensava adesso di continuo, – che ogni giorno, ogni ora e per tutta la vita ininterrottamente Lisa sentisse intorno a sé il suo amore.
“Non esiste uno scopo più alto per nessuno, né vi può essere! – rifletteva a volte con cupa esaltazione; – se anche vi sono altri scopi, nessuno può essere più santo di questo!” “Con l’affetto di Lisa – fantasticava – si sarebbe purificata e riscattata tutta la mia vita precedente, fetida e inutile; invece che pensare a me, scioperato, vizioso e finito, avrei circondato di cure un essere puro e bello, e per quell’essere tutto mi sarebbe stato perdonato, e tutto avrei perdonato a me stesso”.
Tutti questi pensieri coscienti gli si presentavano sempre inseparabili dal ricordo della bambina morta, un ricordo nitido, sempre vicino e che sempre colpiva la sua anima. Ricreava dinanzi a sé il visetto pallido, ne rievocava ogni espressione: la ricordava anche nella bara, tra i fiori, e, prima ancora, nel deliquio della febbre, con gli occhi aperti e immoti. Si rammentò a un tratto che quando era già stata composta sulla tavola, egli aveva notato un suo piccolo dito divenuto nero, Dio sa perché, durante la malattia; ciò l’aveva tanto colpito e aveva provato una così grande pietà per quel povero piccolo dito, che in quell’attimo gli era venuto in mente, per la prima volta, di ritrovare subito e di uccidere Pavel Pavlovič […] “Sapete voi che cosa fu per me Lisa?” si era ricordato all’improvviso dell’esclamazione di Trusozkij ubriaco, e sentì che quell’esclamazione non era già più una finta, ma la verità, e che l’amore c’era stato. “Come ha potuto essere così crudele quel mostro con una bambina che aveva tanto amato? È una cosa verosimile, questa?” Ma ogni volta scartava al più presto quella domanda e quasi se ne schermiva; c’era qualcosa di orribile in quella domanda, qualcosa d’insopportabile per lui, e di insoluto» (95-97).
La morte di Lisa spezza il racconto in due, lo spacca, ma il duello tra l’eterno marito e l’eterno amante non ha fine, anzi, raggiunge il suo momento culminante, il momento di massima tensione: Trusozkij, nella chiara, troppo chiara notte pietroburghese appena sferzata da un violento temporale estivo, tenta di scannare Vel’čaninov con un rasoio, ma la vittima si difende, mette a terra l’assassino e lo lega con il cordone della tenda, liberandolo poi il giorno successivo, lasciandolo andare. E non il terrore, non la rabbia, ma la gioia, finalmente una gioia sincera e spontanea invade Vel’čaninov:
«Un senso di straordinaria, immensa gioia s’impadronì di lui; qualcosa era finito, si era risolto; una angoscia terribile s’era allontanata da lui e si era del tutto dissolta. Così gli sembrava. Era durata cinque settimane. Egli sollevava il braccio, guardava l’asciugamano zuppo di sangue e mormorava tra sé: “No, ormai tutto è finito per davvero!” E in tutta la mattina, per la prima volta in quelle tre settimane, quasi non pensò a Lisa, come se il sangue delle sue dita ferite potesse pareggiare i conti anche con quel dolore» (156).
La tensione si allenta, fino a sciogliersi, a dissolversi del tutto. Felice e di nuovo sereno, Vel’čaninov può dedicarsi all’analisi lucida e distaccata degli eventi, e, pur definendo Trusozkij uno «Schiller in un corpo di Quasimodo» e un «mostro», lo assolve:
«Trovò una strana risposta al problema: “Pavel Pavlovič voleva ucciderlo, ma l’idea di uccidere non era mai venuta in mente al futuro assassino”. Più brevemente: Pavel Pavlovič voleva uccidere, ma non sapeva di voler uccidere» (158).
Insomma, se Vel’čaninov quella notte non avesse inavvertitamente lasciato in bella mostra il suo rasoio, probabilmente Trusozkij non avrebbe mai attentato alla sua vita.
Al termine del racconto ritroviamo Vel’čaninov due anni dopo i fatti narrati. Un Vel’čaninov completamente diverso rispetto a quei giorni d’ipocondria, tristezza e insonnia, sereno e gaio, grazie anche alla vittoria nella causa che lo portava a correre qua e là per la Pietroburgo estiva, svuotata, afosa e polverosa:
«A Vel’čaninov erano toccati in tutto sessantamila rubli, cosa da poco, senza dubbio, ma per lui molto importante; in primo luogo era tornato subito a sentirsi su un terreno solido, e quindi moralmente si era sentito placato; sapeva oramai con sicurezza che quest’ultimo suo denaro non l’avrebbe sperperato “come un imbecille”, come aveva sperperato i suoi due patrimoni precedenti, e gli sarebbe bastato per tutta la vita. “Per quanto il loro edificio scricchioli e per quanto vada strombazzando, – pensava a volte, guardando e ascoltando tutte le cose miracolose e incredibili che avvenivano intorno a lui e in tutta la Russia, – per quanto si trasformino uomini e idee, io avrò per sempre questo pranzo delicato e saporito che sto mangiando; quindi, sono preparato a tutto”. Questo pensiero soave fino alla voluttà, a poco a poco s’impadronì completamente di lui e generò in lui una trasformazione perfino fisica, senza parlare di quella morale; appariva adesso un altro uomo, in confronto alla “marmotta” di due anni prima, che noi abbiamo descritto, e a cui già cominciavano a capitare quelle storie indecorose; appariva allegro, sereno, contegnoso. Anche le piccole rughe maligne, che avevano preso a radunarsi intorno agli occhi e sulla fronte si erano quasi spianate; perfino il colorito del viso era mutato, s’era fatto più bianco e rosso» (167).
Insomma, la crisi di mezza età di due anni prima è definitivamente alle spalle; di nuovo sereno e gaudente, grazie all’eredità ricevuta, Vel’čaninov può tornare a godersi la vita in santa pace, arricchito di quella saggezza propria della maturità, che gli permette di gestire assennatamente e fino alla fine l’ultimo patrimonio, senza rischiare nulla. È questo il vero Vel’čaninov, a noi di fatto sconosciuto fino a questo momento, a causa della crisi che lo tormenta quando ce lo presenta Dostoevskij all’inizio del racconto, ma perfezionato, una volta superata quella delicata fase di transizione, di mutamento, anche se non avviene un effettivo mutamento nel protagonista, quanto piuttosto una maturazione. Un mutamento vero e proprio, totale, radicale, a parità di stato d’animo, diciamo così, avverrà nel principe Nechljudov protagonista del più grande romanzo di Tolstoj, Resurrezione, che con Vel’čaninov ha numerosi aspetti in comune [16].
La conclusione dell’Eterno marito è un capolavoro del comico dostoevskiano. In una stazione Vel’čaninov salva una signora dall’aggressione di un mercante; la donna riconoscente invita il suo «angelo custode» a passare un mese nella sua tenuta, per il terrore del marito, l’eterno marito Pavel Pavlovič Trusozkij! I due duellanti sottosuoliani si ritrovano così dopo due anni ed è davvero esilarante il terrore che afferra Trusozkij e lo agita dalla testa ai piedi a causa degli apprezzamenti della nuova consorte verso Vel’čaninov, che si scompiscia dalle risate e giura al rivale di non accettare l’invito della signora. Ma neanche in questa occasione il comico sgorga puro, incontaminato; interviene infatti il tragico a smorzarlo e infine cancellarlo, con il ricordo del tentato omicidio e, soprattutto, della povera Lisa.
«- Se io vi porgo questa mano, – e gli mostrò il palmo della sinistra, dove era rimasta visibile la cicatrice del taglio, – voi potreste anche prenderla! – bisbigliò con le labbra tremanti e impallidite. Pavel Pavlovič era impallidito anche lui, e anche a lui tremavano le labbra. A un tratto una specie di convulsione gli trascorse sul viso.
– E Lisa? – balbettò con un rapido sussurro, e improvvisamente le labbra, le guance e il mento gli sussultarono e le lacrime gli sgorgarono dagli occhi. Vel’čaninov stava davanti a lui come di sasso» (174).
È l’ultimo atto del duello tra l’eterno marito e l’eterno amante. Chi ha vinto? Nessuno. Chi ha perso? Entrambi. E la morte prematura della piccola e innocente Lisa è l’emblema di questa doppia sconfitta, molto simile ad una rovinosa disfatta.
NOTE
[1] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 160, corsivo mio.
[2] Per un approfondimento sull’ultimo e più grande romanzo di Dostoevskij rimando agli articoli I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Prima parte, I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Seconda parte.
[3] Per la lettura e l’analisi del poema di Ivan Karamazov rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, Il Grande Inquisitore.
[4] Per un approfondimento sul romanzo rimando agli articoli Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parte, Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Seconda parte.
[5] Vladimir Nabokov, Postfazione a Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano 2014, pp. 185-186.
[6] Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo Le notti bianche, il dramma del sognatore.
[7] Fëdor Dostoevskij, L’eterno marito, traduzione di Clara Coisson, Einaudi, Torino 2001, pp. 4-5. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[8] Per un approfondimento sullo scrittore ceco rimando agli articoli La metamorfosi. L’incredibile risveglio di Gregor Samsa, Franz Kafka, Il processo: colpevole senza colpa e per legge di natura.
[9] Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, «Il giocatore» ovvero della passione.
[10] Per un approfondimento sul primo dei quattro maggiori romanzi di Dostoevskij rimando all’articolo Delitto e castigo, dalla dialettica alla vita.
[11] Alberto Moravia, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, L’eterno marito, cit., pp. VI-VII.
[12] Per un approfondimento sul pensiero dello scrittore russo rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.
[13] Per un approfondimento sul protagonista dei Demòni rimando agli articoli Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parte, Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Seconda parte.
[14] Alberto Moravia, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, L’eterno marito, cit., p. VII.
[15] Per un approfondimento sull’ingegnere dei Demòni rimando all’articolo Aleksèj Niljč Kirillov, l’Uomo-Dio.
[16] Per un approfondimento sull’ultimo romanzo di Tolstoj rimando all’articolo Resurrezione, il più grande romanzo di Tolstoj.