Personaggio assai singolare Benvenuto Cellini (1500-1571). Illustre esponente del Rinascimento – fu scultore, orafo e scrittore, apprezzatissimo da Francesco I di Francia -, vittima tuttavia di un’innata propensione a cacciarsi nei guai: rissaiolo cronico, commise ben tre omicidi. La sua Vita, scritta a partire dal 1558, fu stampata solamente due secoli dopo, riscuotendo un successo straordinario. In particolar modo, l’autobiografia suscitò una prepotente ondata di entusiasmo tra i romantici, che ne ammirarono il titanico individualismo. Goethe la tradusse nella sua lingua; Stendhal e D’Annunzio la tennero in considerazione nella scrittura, rispettivamente, de La certosa di Parma e de Le faville del maglio.
Rispetto alle autobiografie del tempo – genere assai diffuso tra gli artisti dell’epoca -, la Vita di Cellini si caratterizza per un’inedita ansia esistenziale che attraversa il testo dall’inizio alla fine, rendendolo particolarmente moderno. Nell’opera dell’artista fiorentino non c’è quel tono conciliante e disteso proprio di chi rievoca con malinconica nostalgia il passato, ma la tensione dell’uomo che eleva la propria vicenda esistenziale a caso emblematico. Senza falsa e ipocrita modestia, Cellini mostra se stesso come un individuo fuori del comune, impegnato in una lotta senza esclusione di colpi con la fortuna. La Vita è scossa dalla continua oscillazione tra bene e male. L’autore descrive le proprie cadute nel fango, nella più becera e bestiale immoralità – gli assassinii, la sodomia, a causa della quale subì un processo -, manifestando però un autentico e intimo desiderio di redenzione, tramite vibranti e accese invocazioni a Dio. Si delinea così un percorso tortuoso e accidentato dalle tenebre alla luce, che si conclude con la salvezza del prometeico e faustiano autore.

Episodio emblematico della Vita è quello in cui Cellini narra della fusione del Perseo con la testa di Medusa, imponente statua bronzea collocata in Piazza della Signoria, precisamente nella Loggia dei Lanzi. Di fatto vi è un’identificazione totale dell’autore con il mitico eroe che sconfisse la temibile Medusa, decapitandola.
Proprio quando tutto è ormai pronto per la fusione del Perseo, Cellini è vittima di un violentissimo attacco febbrile, che lo costringe a restare a letto. Ma i suoi aiutanti, ai quali egli ha affidato la delicata operazione in sua assenza, non si dimostrano all’altezza del compito. Cellini allora si strappa dalle coperte, sfida la pioggia che tormenta la notte fiorentina e si precipita in bottega, dove riesce nell’impresa di resuscitare la statua.
«Essendomi finito di vestire, mi avviai con cattivo animo inverso bottega, dove io viddi tutte quelle gente, che con tanta baldanza avevo lasciate, tutti stavano attoniti e sbigottiti. Cominciai, e dissi: – Orsú intendetemi, e dappoi che voi non avete o saputo o voluto ubbidire al modo che io v’insegnai, ubbiditemi ora che io sono con voi alla presenza dell’opera mia; e non sia nessuno che mi si contraponga, perché questi cotai casi hanno bisogno di aiuto e non consiglio -. A queste mie parole e’ mi rispose un certo maestro Alessandro Lastricati e disse: – Vedete, Benvenuto, voi vi volete mettere a fare una impresa, la quale mai nollo promette l’arte, né si può fare in modo nissuno -. A queste parole io mi volsi con tanto furore e resoluto al male, che ei e tutti gli altri, tutti a una voce dissono: – Sú, comandate, che tutti vi aiuteremo tanto quanto voi ci potrete comandare, in quanto si potrà resistere con la vita -. E queste amorevol parole io mi penso che ei le dicessino pensando che io dovessi poco soprastare a cascar morto. Subito andai a vedere la fornace, e viddi tutto rappreso il metallo, la qual cosa si domanda l’essersi fatto un migliaccio. Io dissi a dua manovali, che andassino al dirimpetto, in casa ’l Capretta beccaio, per una catasta di legne di quercioli giovani, che erano secchi di piú di uno anno, le quali legne madonna Ginevra, moglie del detto Capretta, me l’aveva offerte; e venute che furno le prime bracciate, cominciai a impiere la braciaiuola. E perché la quercia di quella sorte fa ’l piú vigoroso fuoco che tutte l’altre sorte di legne, avvenga che e’ si adopera legne di ontano o di pino per fondere per l’artiglierie, perché è fuoco dolce; oh quando quel migliaccio cominciò a sentire quel terribil fuoco, ei si cominciò a schiarire, e lampeggiava. Dall’altra banda sollecitavo i canali, e altri avevo mandato sul tetto arriparare al fuoco, il quale per la maggior forza di quel fuoco si era maggiormente appiccato; e di verso l’orto avevo fatto rizzare certe tavole e altri tappeti e pannacci, che mi riparavano all’acqua (II, LXXVI).
Di poi che io ebbi dato il rimedio attutti questi gran furori, con voce grandissima dicevo ora a questo e ora a quello: – Porta qua, leva là – di modo che, veduto che ’l detto migliaccio si cominciava a liquefare, tutta quella brigata con tanta voglia mi ubbidiva che ogniuno faceva per tre. Allora io feci pigliare un mezzo pane di stagno, il quale pesava in circa a 6o libbre, e lo gittai in sul migliaccio dentro alla fornace, il quale, cone gli altri aiuti e di legne e di stuzzicare or co’ ferri e or cone stanghe, in poco spazio di tempo e’ divenne liquido. Or veduto di avere risuscitato un morto, contro al credere di tutti quegli ignoranti, e’ mi tornò tanto vigore che io non mi avvedevo se io avevo piú febbre o piú paura di morte. Innun tratto ei si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo, che parve propio che una saetta si fussi creata quivi alla presenza nostra; per la quale insolita spaventosa paura ogniuno s’era sbigottito, e io piú degli altri. Passato che fu quel grande romore e splendore, noi ci cominciammo a rivedere in viso l’un l’altro; e veduto che ’l coperchio della fornace si era scoppiato e si era sollevato di modo che ’l bronzo si versava, subito feci aprire le bocche della mia forma e nel medesimo tempo feci dare alle due spine. E veduto che ’l metallo non correva con quella prestezza ch’ei soleva fare, conosciuto che la causa forse era per essersi consumata la lega per virtú di quel terribil fuoco, io feci pigliare tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa a dugento, e a uno a uno io gli mettevo dinanzi ai mia canali, e parte ne feci gittare drento nella fornace; di modo che, veduto ogniuno che ’l mio bronzo s’era benissimo fatto liquido, e che la mia forma si empieva, tutti animosamente e lieti mi aiutavano e ubbidivano; e io or qua e or là comandavo, aiutavo e dicevo: – O Dio, che con le tue immense virtú risuscitasti da e’ morti, e glorioso te ne salisti al cielo! – di modo che innun tratto e’ s’empié la mia forma; per la qual cosa io m’inginochiai e con tutto ’l cuore ne ringraziai Iddio; dipoi mi volsi a un piatto d’insalata che era quivi in sur un banchettaccio, e con grande appetito mangiai e bevvi insieme con tutta quella brigata; dipoi me n’andai nel letto sano ellieto, perché gli era due ore innanzi il giorno; e come se mai io non avessi aùto un male al mondo, cosí dolcemente mi riposavo (LXXVII)».
Si tratta di un passo davvero eccezionale, che racchiude l’essenza più profonda del Rinascimento: la celebrazione dell’uomo, che sconfigge la malattia – la febbre è un chiaro riferimento alle potenze demoniache, che aleggiano inquietanti in molti luoghi della Vita – e la natura, riuscendo a realizzare l’opera d’arte. Opera d’arte che incarna l’ideale di perfezione e di bellezza proprio del XVI secolo, e si pensi alle figure umane dipinte e scolpite da Michelangelo.
Il titanico individualismo di Cellini sconfigge di slancio le forze avverse, con l’artista che s’impone quasi come un Dio. Perché più che creare il Perseo egli lo resuscita, trionfando sull’ignoranza e, soprattutto, sulla morte, la forza disgregatrice per eccellenza: «Or veduto di avere risuscitato un morto, contro al credere di tutti quegli ignoranti, e’ mi tornò tanto vigore che io non mi avvedevo se io avevo piú febbre o piú paura di morte». Cellini raggiunge di fatto l’immortalità: il più grande privilegio concesso all’artista.
