«No, i carmi non mi dettino Melpomene, né quella minchiona di Talia, né Febo che gratta la sua chitarrina; ché, se penso alle budella della mia pancia, non si addicono alla mia piva le ciance di Parnaso. Ma soltanto le Muse pancifiche, le dotte sorelle, Gosa, Comina, Strazza, Mafelina, Togna, Pedrala, vengano a imboccare di gnocchi il loro poeta, e mi rechino un cinque o un otto catini di polenta».
Teofilo Folengo, Baldus
Straordinaria manifestazione dell’anticlassicismo cinquecentesco, di cui ci siamo già occupati parlando di Francesco Berni [1] e Pietro Aretino [2], è la poesia maccheronica. Poesia maccheronica che affonda le radici nel latinus grossus del Medioevo, ovvero un latino fortemente contaminato da elementi volgari. Ebbene, a partire dalla seconda metà del XV secolo, goliardi e docenti dell’Università di Padova si basano proprio su questo latinus grossus per creare il latino maccheronico, sfruttando i numerosissimi errori di grammatica derivanti dalla commistione con il volgare per dare vita ad un’irriverente e gustosa parodia del latino classico ed umanistico. Verso la fine del secolo vedono la luce alcune delle opere più riuscite della letteratura maccheronica, come la Macaronea di Tifi degli Odasi, ma è nel Cinquecento che questa vivacissima tendenza alternativa raggiunge il momento culminante, con il suo esponente più illustre, il frate benedettino Teofilo Folengo.

Romanino, Ritratto di Teofilo Folengo
Delle Maccheronee di Folengo apparvero quattro edizioni: la prima nel 1517 presso l’editore Paganini; la seconda, nota come Toscolana, nel 1521, sempre presso lo stesso editore; la terza, nota come Cipadense, nel 1539 o 1540; la quarta ed ultima, nota come Vigasio Cocaio dallo pseudonimo del curatore, nel 1552, otto anni dopo la morte dell’autore. Le quattro edizioni si arricchiscono progressivamente, fino a raggiungere l’ampiezza e ricchezza massime della Vigasio Cocaio, contenente la Zanitonella, il Baldus, la Moscheide e persino una raccolta di epigrammi e lettere. Al centro della vasta produzione folengoniana sta il mondo contadino, aspetto del tutto inedito nella letteratura rinascimentale, rappresentato con grande vivacità e acume nella Zanitonella, ma soprattutto nella prima parte del Baldus, capolavoro assoluto di Folengo e dell’intera poesia maccheronica.
Il poema, dopo un’originalissima ed esilarante invocazione alle Muse maccheroniche – cuoche e cameriere -, che leggeremo, si apre con il racconto dell’amore tra Guidone da Montalbano, discendente del celebre Rinaldo, e Baldovina, figlia del re di Francia. Una serie di disavventure conduce i due in Italia, dove trovano riparo nella campagna mantovana – Folengo nacque proprio a Mantova, conterraneo di Virgilio, dunque -, presso un contadino del posto. Qui, nonostante la rinuncia forzata agli agi lussuosi propri della loro origine nobiliare, Guidone e Baldovina scoprono, grazie alla semplicità della vita contadina, una gioia ed una libertà profonde, ben più profonde di quelle consentite nelle pur ricchissime, ma infide corti. Qui mettono al mondo Baldus, il protagonista del poema. Sin dalla fanciullezza Baldus dimostra l’esuberanza, l’impeto, spesso sopra le righe, propri dell’eroe. Ma dimostra anche di essere particolarmente incline alla prepotenza, prepotenza che dilagherà andando avanti nel corso degli anni e di cui sono vittime privilegiate il podestà del paese, Tognazzo, e il figlio del contadino che accolse con tanta benevolenza i suoi genitori, il meschino Zambello. Accompagnano Baldus nelle sue malefatte Fracasso e Cingar, particolarmente inclini allo scontro fisico, ed un personaggio assai singolare, di nome Falchetto, mezzo uomo e mezzo cane. Baldus viene arrestato, ma liberato presto. A questo punto si rende protagonista di una serie di mirabolanti avventure dove appaiono numerosi personaggi fantastici, mostri, draghi, streghe, fate, giungendo persino all’inferno – sulle orme di Ulisse, Enea e Dante! -, dove incontra il suo poeta, ma addirittura anche Omero e Virgilio, perché è abbattuta ogni distanza tra poeti epici e poeti maccheronici.
Attraverso l’ininterrotto e sapientissimo ricorso al comico – tra i principali motori della letteratura alternativa, quello a cui si ricorre più spesso per colpire ed affondare la letteratura ufficiale – Folengo stravolge completamente i secolari valori cavallereschi e cortesi, come aveva fatto nel secolo precedente Pulci con il Morgante [3] e come fa più o meno in quegli stessi anni Ariosto con il Furioso [4], ma il suo stravolgimento, se possibile, si presenta ancor più incisivo e ridicolizzante: innanzitutto per l’utilizzo del latino maccheronico, e poi per la centralità del mondo contadino.
Insomma, Folengo raggiunge livelli tali di deformazione parodica, caricaturale da imporsi come uno dei massimi scrittori di quella letteratura carnevalesca teorizzata da Michail Bachtin nel saggio L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale. E non è certo un caso che il grande François Rabelais sia proprio uno dei primi grandi ammiratori del nostro Folengo.
Ispirandosi all’indole beffarda e sovversiva del carnevale, che sconvolge i valori della cultura ufficiale, la letteratura carnevalesca agisce attraverso la sistematica parodia dei generi letterari tradizionali, la fusione e confusione di linguaggi e stili, l’abbassamento del punto di vista, che dà spazio agli elementi più ignobili e abietti della realtà – e ricordo l’oscenità trionfante nei componimenti del Berni e dell’Aretino -, il totale capovolgimento delle convenzioni sociali solitamente accettate e reputate garanzia di un vivere civile – il più delle volte velo ipocrita dietro il quale celare vizi e debolezze propri di ogni uomo -. E come sottolinea Muzzioli, secondo Bachtin il culmine del comico si raggiunge proprio in questo preciso momento storico, «proprio sulla soglia della modernità; successivamente il riso subisce un declino, perché si complica e si mescola al suo proprio contrario. La vittoria della borghesia e lo stabilizzarsi del suo dominio, spezzando l’unità del popolo e il suo senso comunitario, produrranno inevitabilmente un “riso smorzato”» [5].
E in questo momento culminante del comico Teofilo Folengo gioca un ruolo fondamentale. Ma è tempo di leggere alcuni passi del Baldus, questa grandiosa parodia del poema epico e cavalleresco che si impone non solo come il capolavoro della poesia maccheronica, ma come uno dei capolavori dell’intera storia della letteratura italiana. Si tratta di un vivido esempio di come l’alternativa sappia raggiungere vette d’eccellenza precluse a molte, moltissime delle opere ufficiali, istituzionali alle quali fa il verso.
Le Muse maccheroniche
«Phantasia mihi plus quam phantastica venit
historiam Baldi grassis cantare Camoenis.
Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum
terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum.
Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
o macaronaeam Musae quae funditis artem.
An poterit passare maris mea gundola scoios,
quam recomandatam non vester aiuttus habebit?
Non mihi Melpomene, mihi non menchiona Thalia,
non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictent;
panzae namque meae quando ventralia penso,
non facit ad nostram Parnassi chiacchiara pivam.
Pancificae tantum Musae, doctaeque sorellae,
Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala,
imboccare suum veniant macarone poëtam,
dentque polentarum vel quinque vel octo cadinos.
Hae sunt divae illae grassae, nymphaeque colantes,
albergum quarum, regio, propriusque terenus
clauditur in quodam mundi cantone remosso,
quem spagnolorum nondum garavella catavit.
Grandis ibi ad scarpas lunae montagna levatur,
quam smisurato si quis paragonat Olympo
collinam potius quam montem dicat Olympum.
Non ibi caucaseae cornae, non schena Marocchi,
non solpharinos spudans mons Aetna brusores,
Bergama non petras cavat hinc montagna rodondas,
quas pirlare vides blavam masinante molino:
at nos de tenero, de duro, deque mezano
formaio factas illinc passavimus Alpes.
Credite, quod giuro, neque solam dire bosiam
possem, per quantos abscondit terra tesoros:
illic ad bassum currunt cava flumina brodae,
quae lagum suppae generant, pelagumque guacetti.
Hic de materia tortarum mille videntur
ire redire rates, barchae, grippique ladini,
in quibus exercent lazzos et retia Musae,
retia salsizzis, vitulique cusita busecchis,
piscantes gnoccos, fritolas, gialdasque tomaclas.
Res tamen obscura est, quando lagus ille travaiat,
turbatisque undis coeli solaria bagnat.
Non tantum menas, lacus o de Garda, bagordum,
quando cridant venti circum casamenta Catulli.
Sunt ibi costerae freschi, tenerique botiri
in quibus ad nubes fumant caldaria centum,
plena casoncellis, macaronibus atque foiadis.
Ipsae habitant Nymphae super alti montis aguzzum,
formaiumque tridant gratarolibus usque foratis.
Sollicitant altrae teneros componere gnoccos,
qui per formaium rigolant infrotta tridatum,
seque revoltantes de zuffo montis abassum
deventant veluti grosso ventramine buttae.
O quantum largas opus est slargare ganassas,
quando velis tanto ventronem pascere gnocco!
Squarzantes aliae pastam, cinquanta lavezzos
pampardis videas, grassisque implere lasagnis.
Atque altrae, nimio dum brontolat igne padella,
stizzones dabanda tirant, sofiantque dedentrum,
namque fogo multo saltat brodus extra pignattam.
Tandem quaeque suam tendunt compire menestram,
unde videre datur fumantes mille caminos,
milleque barbottant caldaria picca cadenis.
Hic macaronescam pescavi primior artem,
hic me pancificum fecit Mafelina poëtam» (I, vv. 1-63).
Come prescritto dalla tradizione dei poemi epici e cavallereschi, Folengo antepone all’opera un proemio, nel quale, dopo l’indicazione argomentativa, segue la canonica invocazione alle Muse. Ma si tratta di Muse del tutto particolari, Muse maccheroniche, «grasse» [6], «pancifiche», a cui l’autore affibbia nomi popolari, plebei, invocate per «imboccare di gnocchi [all’epoca con il termine maccheroni si indicavano proprio gli gnocchi] il loro poeta» e recare «un cinque o otto catini di polenta». Dimora di queste «ninfe sbrodolate d’intingolo» non è certo il Parnaso, o l’Olimpo, ma un mitico luogo immaginario che assume i tratti del celebre paese di Cuccagna – centrale nelle feste del carnevale -, dove scorre cibo in abbondanza, e che rappresenta lo sfogo utopico di un popolo spesso straziato da pestilenze e carestie. È proprio qui, tra queste «alpi di formaggio», tra questi «fiumi di brodo», laghi di zuppa e mari di guazzetto, in cui albergano le cuoche e cameriere Muse, che l’autore ha pescato, «primo fra tutti, l’arte maccheronesca», qui Mafelina lo ha fatto «pancifico poeta».
Folengo opera una gustosissima parodia della poesia epica. La povera Talia è definita senza mezzi termini una «minchiona», il mitico Febo Apollo non suona la nobile cetra, ma «gratta la sua chitarrina». La «piva» ovvero la zampogna del poeta maccheronico, non ha certo bisogno delle «ciance di Parnaso», ma delle opulente «sorelle» Muse che lo sfamino. Se a tutto ciò si aggiunge il fondamentale, e di fatto prevalente, aspetto linguistico, con il sapiente utilizzo del latino maccheronico – «caca addosso» diviene «cagat adossum» -, ecco che si ha l’esatta dimensione della forza parodica, dissacrante, demistificatrice e contestatrice del Baldus di Folengo, uno degli esiti più brillanti e geniali dell’alternativa letteraria italiana.
Zambello in campagna e in città
«Ergo die quodam solus solettus in arvo
valde lavorabat, stentans zappare fasolos.
Iamque visentinis spuntabat Phoebus ab Alpis,
Zambellum iam iam mangiandi voia grezabat,
qui per ventronem vacuas rosegare budellas,
ireque per cistam grances et gambara sentit.
Sed quia nessunus pendet carnerus in ulmo,
quo saltem tozzi sint muffi, aut crusta casetti,
sed quia vinessae nullus barilottus aquatae,
qua queat almancum boccam bagnare sugatam,
trat zappam longe ceu desperatus et alto
pectore suspirum sborrat per utrumque canalem.
Inde caput grattans dextra, culumque sinistra,
non satiare potens ventrem, vult pascere griffas.
Brontolat in dentes, calcataque verba susurrat,
atque strepit veluti buliens pignata ravarum.
Blasphemat, maledicit, ait convitia Baldo,
namque umberlicus schenae taccatur arentum.
Impatiens tandem magna sic voce gridavit:
— O cordis lancum, o vermocagnus, et oyde,
oyde meus venter, mea panza, meusque budellus!
sic taceam semper? marza sic famme crepabo?
strangossabo miser? nec quemquam cerco socorsum?
quae cascare potest mihi nunc desgratia maior,
si codesella meas vado parlare cotalas?
Esto, fracassabit schenam mihi boia ribaldus.
Non ne fracassabit, nec non tutavia fracassat,
dummodo vel solam praesumo dire parolam?
inveniam tandem, qui me distoiat afattum
de tot fastidiis, cagasanguibus atque malannis.
Quem tandem invenies? nemo, mihi crede, trovatur,
carpere qui gattam praesumat contra tyrannos.
Invenies forcam, quae sit conclusio doiae.
Heu me quisque procul cazzat, me quisque refudat,
namque repezzatum porto frustumque gabanum,
nullaque tegnosam mihi coprit schufia testam,
nullaque braga tegit nudas diretro facendas,
et nullum tandem calzat mea gamba schifonem,
sed ruptis scarpis digiti reperere fenestras,
nec solum marzum servat mihi borsa quatrinum,
quo possim comprare mufum de pane tochettum,
quo mihi barberus voiat tosare pedocchios,
qui me nocte die privum savone travaiant.
Nausea sum factus populo, derisio genti,
mattis garratola et nostrae zavatta Cipadae.
Non mancant homines, qui dant conseia, saputi,
sed mancant qui me picolo dignantur aiuto.
Omnes sunt medici, sua sed medicina negatur,
omnes compagni, sed non compagna scudella.
Sum riccus, quisquis pro me vult ponere vitam,
sum pauper, nemo pro me vult spendere bezzum. –
Talia parlabat, quando procul ire Tognazzum
vidit oportunum, sua cui pensiria dicat.
Hic est ille senex, patriae pater, ille Tognazzus,
ille cipadenses natus punire giotones.
Saepe fuit consul, dictator saepe Cipadae,
praticonus enim manezabat iura senati.
Quisquis conseium cercabat habere Catonis,
protinus andabat savio parlare Tognazzo.
Portabat brettam, quae dicta est bretta taeri,
de cuius piga scriptarum copia pendet.
Consulis est proprium tales portare bolettas,
unde datur sciri doctae prudentia testae.
Hanc foggiam brettae vidisse talhora recordor
in carnevali festis, et tempore matto,
cum mascarantur buffones barbaque chieppi.
Extra hunc brettonem profert Tognazzus orecchias,
quas male sufficeret plenas nettare badilus.
Semper habet longo nasum morcone colantem,
de quo spirat odor, tanquam cagatoria morbans» (IV, vv. 180-249).***
«Sed stupet esse casas tantas insemma dunatas,
tot quoque contradas, tot portas, totque fenestras,
totque canes, homines, tot mulos, totque cavallos;
dumque susum guardat, nunc urtat, nunc ve trabuccat,
urtat in inscontros hominum, per saxa trabuccat,
saepeque currentem trigat mirare cavallum,
currentesque canes post illum rodere caudam.
Parlat Tognazzus: — Quid sic, Zambelle, stupescis?
Vidistin similes usquam, tantasque cotalas? —
Ille, velut media campagna staret ad ipsum
officium zappae, respondet voce gaiarda:
— Potta meae matris, quam granda est ista facenda!
Doh, Tognazze, precor, me lassa videre pochettum.
Tam bellas tezas, tam bellos ipse casottos
non vidi, postquam me matris panza cagavit.
O quantum foenum, stopiamque fenilibus istis
gens logare potest pro grassas pascere vaccas!
Quare plus tostum non me, Tognazze, menasti? —
Talia dum sbraiat, matronas ecce politas,
non proprio bellas splendore sed arte beletti,
suspicit in summis stantes guardare fenestris.
Hae cito, sentita Zambelli voce cridantis,
se se scoprierant, velut est usanza donarum,
more galanarum testas buttare deforam,
et quoquo strepitu se se affazzare fenestris.
Has mirare trigat Zambellus, postea ditum
porrigit in susum, pariter quoque smergolat: — Oh oh,
angonaia, vides illas, Tognazze, fomennas? —
Cui tacite Tognazzus: — Habes num cancar adossum?
quid, maruffe, cridas? — Sic dicens prestiter illi
donat punzonem costis, subterque fiancum.
Urlat at ille magis, ditum magis alzat et i, oh
repplicat, — Has bellas cernis, Tognazze, reinas?
cur tam sberlucent? stellis incago daverum.
Si nostras guardo fomnas, tot guardo padellas. —
Tunc cito desperans hinc vecchius desviat illum
in contradam aliam, sic bassa voce loquendo:
— Claude hanc boccazzam, nisi vis bastone tocari.
Nunquid, matte, putas mediis in boschibus esse? —
Dixerat atque illum super alta palatia menat.
Ante Potestatem tandem Zambellus arivat,
quo visto a longe coepit ridere brigata,
nam straviatus erat, nam tota mente balordus,
coctus sole, niger, squarzatus veste, bisunctus,
mostrabatque super foenum dormisse milannos,
cui veluti spergol rizzis caviata capillis,
festuchisque riget strami, buschisque paiari.
Pectinus hanc nunquam raspat, sed striggia bovorum:
semper habens tegnam, longasque in crinibus ungias,
namque molestatur schiavonibus ille pedocchis.
Portat zacchettum grossi, frustique bisetti,
quem dubitas utrum sit drittus, utrumve roversus,
fertque canevazzi curtam, strettamque camisam,
quam sine savono bis tantum smoiat in anno.
Huc igitur veniens coram praetore, tamagnam
smaravigliabat circum guardare brigatam.
— O codesella — inquit, — quo me, mi barba, tirasti?
Non isto plus stare volo, Tognazze, fenilo.
Hinc me torna casam, quia me scagaita molestat. —
— Quid sbraias? — Tognazzus ait; — quin cernis adesse
messerum? vadas, horsu, marzocche, plusoltra.
Vallá, quid indusias? cui dico? vallá, diavol.
Tocca manum domino, fac chinum, piga ginocchium,
dic ve: Bonasera vobis, messere Potestas. —
Vult ita Zambellus, verum mal praticus aulae
cortesanus erat, cum porcis semper usatus.
Accidit ut staret suprema in fronte palazzi
scragna Potestatis, veteres dixere cadregam,
in qua non sedeas, nisi montes octo scalinos.
Huc it Zambellus, guardat, guardansque, ficatas
dum tenet in faciem praetoris semper ochiadas,
non alzare pedes memorat, sed fortiter urtat
inque gradu primo scapuzzat et ecce roversus
cascat, et in schena talem piat ille cadutam,
ut pede dischiodet tavolam, culoque fracasset.
O puta, si centum schiopparunt pectora risu,
si populus strepitans incoepit battere palmas.
Se levat in coleram, truncum ve Tognazzus aferrat,
quo cum Zambelli spallas spianare volebat,
atque super dorsos Galenum ponere boschi.
Tunc ait: — An sic sic docui te, siccine formam,
materiamque dedi parlandi, brutte cavester?
tam cito scordasti quidquid stamatina docebam?
nonne maëstravi te grossum, quomodo bellos
inchinos facias domino, teneasque netatum
hunc nasum, dicasque illi: Bona vita patrone? —
Sic ait, atque volens iterum maëstrare gazanum,
scilicet inchinum curvo formare ginocchio,
en ventosa sibi scoccat deretro coreza.
Zambellus voluit tanto discedere bombo,
namque colubrinam pensaverat esse crocatam.
At quia post crepitum veri nasantur odores:
qui nec aquam vitam, qui nec salnitria, qui nec
materias alias pro sbombardare trovatas
ederat; ast aium, scalognas, porra, cipollas;
omnibus extemplo patuit magagna Tognazzi.
Tuque medesme puta, si tunc risarola comenzat,
si centum nasos tenuit brigata stopatos.
Ille facit scusam stringam rupisse galono,
omnibus at culpam facies grizzata palesat.
Zambellum tamen ille tirat, chiamatque dapocum,
chiamat osellazzum, sponsonat, stigat, agrezat,
ut coprire suum queat hoc sub cortice scornum.
At male Zambellus simili vezzatus in arte,
dum praeceptoris seguitat documenta Tognazzi,
inchinum fecit tam bellum, tamque legerum,
quod cum zenocchio fregit calcante quadrellum.
Inde manum porgit, quam brancans ipse Potestas
dixit: — Benveniat, magnae laus prima Cipadae. —
Mox dextra sentare manu sibi fecit arentum.
Ergo suos contare illic se accingit afannos
hic novus orator, quo non Ciceronior alter,
cui tanta in studiis concessa est copia linguae,
quanta patet cum bos sibimet culamina leccat» (VI, vv. 104-217).
La campagna è l’habitat naturale di Zambello. Lo vediamo lavorare la terra e lanciarsi in un vibrante monologo in cui maledice la propria condizione, sottolineando da sé, in un impeto di autopunizione, autocommiserazione, ma anche di accusa contro l’autorità che può vagamente ricordare i lamenti di Giobbe: «Faccio nausea alla gente, sono lo scherno di tutti, ludibrio anche dei matti, una ciabatta sfondata per la nostra Cipada». E nei confronti di questo poveraccio, il lettore è portato a provare una certa pietà. Pietà che svanisce e lascia spazio al riso – inevitabilmente – allorquando a Zambello viene data la possibilità di manifestare la propria protesta al cospetto dell’autorità. Ma in città il contadino si dimostra «un balordo integrale», dinanzi al podestà mantovano ne combina di tutti i colori, si ridicolizza, ed ecco che dal tono vibrante della denuncia e della protesta, si passa al tradizionale e spensierato tono della satira del villano, attraverso la quale si ribadisce la chilometrica ed incolmabile distanza tra la campagna e la città. Se nel suo habitat naturale Zambello conserva una sua drammatica dignità, che potrebbe persino far pensare ad una feroce critica sociale da parte dell’autore, lo spostamento del personaggio in città, dove è un pesce fuor d’acqua, ne rivela la natura bestiale – e come una bestia viene di fatto descritto -, come sottolinea il conclusivo paragone con il bue: «A lui tanta abbondanza di lingua fu data per merito di studio proprio quanta ne palesa il bue quando si lecca il culame», frase che risulta ancor più esilarante e irriverente nel latino maccheronico.
NOTE
[1] Per un approfondimento sul Berni rimando all’articolo La letteratura italiana alternativa del Cinquecento. Francesco Berni.
[2] Per un approfondimento sull’Aretino rimando all’articolo La letteratura italiana alternativa del Cinquecento. Pietro Aretino.
[3] Per un approfondimento sull’autore del Morgante rimando all’articolo Quel genio irriverente di Luigi Pulci.
[4] Per un approfondimento sul capolavoro di Ariosto rimando all’articolo Momenti dell’«Orlando furioso».
[5] Francesco Muzzioli, Piccolo dizionario dell’alternativa letteraria, ABEditore, Milano 2014, p. 55.
[6] Traduzione di C. Cordié, in T. Folengo, Opere, a cura di C. Cordié, Ricciardi, Milano-Napoli 1977.