«[…] e poi in fatto non son altro che vermi, che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, insporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude ed ingegno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio ed errore».
Giordano Bruno, De gli eroici furori
Uomo-contro, ideale progenitore di pensatori come Leopardi [1] e Michelstaedter [2], nel corso della sua vita errante – fu in Svizzera, in Francia, in Inghilterra e in Germania, una mobilità straordinaria per l’epoca – Giordano Bruno ignorò il significato della parola compromesso, persino quando, oramai scomunicato da tutte le chiese d’Europa e processato dall’Inquisizione romana, in ballo c’era la sua condanna a morte, eseguita il 17 febbraio 1600 nella piazza di Campo de’ fiori a Roma, dove fu arso vivo con lingua in giova [3].
Ciò che caratterizza il pensiero di Bruno [4] e dunque la sua intera produzione filosofico-letteraria, è un feroce e indomito ardore polemico contro la tradizione e le istituzioni culturali. Sul piano strettamente filosofico, il pensatore Nolano, «Academico di nulla Academia» come egli stesso si definisce nel sottotitolo del Candelaio [5], rifiuta il secolare sistema aristotelico-tolemaico, accettando invece le teorie copernicane e avanzando l’ipotesi rivoluzionaria dell’infinità dell’universo, popolata da una molteplicità di mondi [6]. Ecco così che Bruno spazza via uno dei principi fondamentali, se non il principio fondamentale in assoluto, dell’Umanesimo, quello dell’Antropocentrismo. A questa prospettiva sconvolgente si aggiunga poi la fervida esaltazione della filosofia, il cui scopo supremo, la ricerca della verità, la rende superiore alla religione – in tal senso, egli fu un vero e proprio anticristiano; teorico degli «eroici furori», non mancò di scagliarsi contro Cristo, uomo eccessivamente pavido ai suoi occhi -.
Sul piano letterario Bruno rigetta i precetti della letteratura ufficiale, pedantesca, che fa della Poetica di Aristotele il suo credo, intendendo l’attività poetica come «eroico furore», basata su un’ispirazione diretta, priva di mediazioni, di matrice quasi divina.
L’originale e controcorrente idea bruniana del mondo finisce per influire inevitabilmente sulla sua idea di letteratura – in entrambi i casi il bersaglio polemico è Aristotele [7], e si ricordi l’avversione che, quattro secoli dopo, nutrirà nei confronti dello Stagirita un altro illustre filosofo-contro, già citato, Carlo Michelstaedter, che lo definisce senza mezzi termini «traditore» [8] -:
«La letteratura non può essere estranea a questa visione del mondo. Bruno sente la necessità di raccontare l’avventura della vita, senza rinunciare alla dinamicità e alla varietas che la contraddistinguono. Se la natura non può essere scritta in termini matematici e geometrici, anche la letteratura non può avvalersi del linguaggio dei grammatici e delle regole normative dei pedanti. La rivolta contro la cosmologia aristotelica non può prescindere dalla rivolta contro l’ordinato dominio linguistico rinascimentale, contro un uso della Poetica come rigido prontuario delle istituzioni letterarie. La feroce polemica di Bruno contro i pedanti mira a distruggere una cultura fatta di divieti, costrizioni, griglie, prescrizioni» [9].
Bruno ricorre al diffusissimo genere del dialogo – in italiano ne scrive sette, tre dedicati alla cosmologia e alla metafisica (La cena delle ceneri, De la causa, principio et uno, De l’infinito universo e mondi), quattro all’etica (Lo spaccio della bestia trionfante, La cabala del cavallo pegaseo, L’asino cillenico, De gli eroici furori) -, sovvertendone però l’equilibrata struttura retorica e la forma tramite l’utilizzo di un linguaggio impetuoso, talvolta violento, che non si basa sulle regole grammaticali e sintattiche ma sgorga con veemenza, quasi istintivo. Insomma, l’ardore proprio del carattere del pensatore Nolano si riversa senza mediazione alcuna sulla pagina, facendosi beffe di quella tradizione che egli non riconosce più, negandola con forza nell’affermazione di una visione del mondo, della vita e dell’uomo nuova e radicale, che rompe con il passato e proietta nel futuro. Quel futuro di cui l’Inquisizione romana ha bruciato il corpo, ma non la voce né il messaggio, vivissimi ancora oggi, a secoli e secoli di distanza. Perché grazie alla creazione l’uomo sopravvive alla propria morte fisica, come proclama Brunetto Latini nel suo ultimo, grande, definitivo insegnamento al discepolo Dante:
«Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio» (Inf., XV, vv. 115-120).
Dunque, a più riprese Bruno nelle sue opere si scaglia contro i «pedantacci» della propria epoca, i letterati, o presunti tali, seguaci della Poetica di Aristotele, incapaci di invocare la propria musa, «ma scimia de la musa altrui». Un vibrante attacco contro questi infestanti «pedantacci» lo troviamo nel dialogo De gli eroici furori, e in particolar modo nel seguente passo:
«CICADA. Son certi regolisti de poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovidio, Marziale, Exiodo, Lucrezio, ed altri molti in numero de versificatori, examinandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele.
TANSILLO. Sappi certo, fratel mio, che questi son vere bestie; perché non considerano quelle regole principalmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in particolare, e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e non per instituir altri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori, equali, simili e maggiori de diversi geni.
CICADA. Sí che, come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a coloro che son piú atti ad imitare che ad inventare; e son state raccolte da colui che non era poeta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in serviggio di qualch’uno che volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero, non di propria musa, ma scimia de la musa altrui.
TANSILLO. Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti.
CICADA. Or come dunque saranno conosciuti gli veramente poeti?
TANSILLO. Dal cantar de versi; con questo che cantando o vegnano a delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme.
CICADA. A chi dunque servono le regole d’Aristotele?
TANSILLO. A chi non potesse, come Omero, Exiodo, Orfeo ed altri, poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver propria musa, vuolesse far l’amore con quella d’Omero.
CICADA. Dunque, han torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno principii de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria o favola con l’altra, o perché finiscono gli canti epilogando di quel ch’è detto, e proponendo per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per censure e regole in virtú di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere ch’essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono gli veri poeti, ed arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son altro che vermi, che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, insporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude ed ingegno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio ed errore» [10].
Nel dialogo De la causa, principio et uno Bruno realizza un caustico e irriverente ritratto di uno di questi «pedantacci», Poliinnio. Leggiamo.
«Per il terzo avete Gervasio, uomo che non è de la professione; ma per passatempo vuole esser presente alle nostre conferenze; ed è una persona che non odora né puzza e che prende per comedia gli fatti di Polihimnio e da passo in passo gli dona campo di fargli esercitar la pazzia. Questo sacrilego pedante avete per il quarto: uno de’ rigidi censori di filosofi, onde si afferma Momo, uno affettissimo circa il suo gregge di scolastici, onde si noma nell’amor socratico; uno, perpetuo nemico del femineo sesso, onde, per non esser fisico, si stima Orfeo, Museo, Titiro e Anfione. Questo è un di quelli, che, quando ti arran fatto una bella construzione, prodotta una elegante epistolina, scroccata una bella frase da la popina ciceroniana, qua è risuscitato Demostene, qua vegeta Tullio, qua vive Salustio; qua è un Argo, che vede ogni lettera, ogni sillaba, ogni dizione; qua Radamanto umbras vocat ille silentum; qua Minoe, re di Creta, urnam movet. Chiamano all’essamina le orazioni; fanno discussione de le frase, con dire: – queste sanno di poeta, queste di comico, questa di oratore; questo è grave, questo è lieve, quello è sublime, quell’altro è humile dicendi genus; questa orazione è aspera; sarrebe leve, se fusse formata cossí; questo è uno infante scrittore, poco studioso de la antiquità, non redolet Arpinatem, desipit Latium. Questa voce non è tosca, non è usurpata da Boccaccio, Petrarca e altri probati autori. Non si scrive homo, ma omo; non honore, ma onore; non Polihimnio, ma Polihimnio. – Con questo triomfa, si contenta di sé, gli piaceno piú ch’ogn’altra cosa i fatti suoi: è un Giove, che, da l’alta specula, remira, e considera la vita degli altri uomini suggetta a tanti errori, calamitadi, miserie, fatiche inutili. Solo lui è felice, lui solo vive vita celeste, quando contempla la sua divinità nel specchio d’un Spicilegio, un Dizionario, un Calepino, un Lessico, un Cornucopia, un Nizzolio. Con questa sufficienza dotato, mentre ciascuno è uno, lui solo è tutto. Se avvien che rida si chiama Democrito, s’avvien che si dolga si chiama Eraclito, se disputa si chiama Crisippo, se discorre si noma Aristotele, se fa chimere si appella Platone, se mugge un sermoncello se intitula Demostene, se construisce Virgilio lui è il Marone. Qua correge Achille, approva Enea, riprende Ettore, esclama contro Pirro, si condole di Priamo, arguisce Turno, iscusa Didone, comenda Acate; e in fine, mentre verbum verbo reddit e infilza salvatiche sinonimie, nihil divinum a se alienum putat. E cossí borioso smontando da la sua catedra, come colui ch’ha disposti i cieli, regolati i senati, domati eserciti, riformati i mondi, è certo che, se non fusse l’ingiuria del tempo, farebbe con gli effetti quello che fa con l’opinione. – O tempora, o mores! Quanti son rari quei che intendeno la natura de’ participi, degli adverbii, delle coniunctioni! Quanto tempo è scorso, che non s’è trovata la raggione e vera causa, per cui l’adiectivo deve concordare col sustantivo, il relativo con l’antecedente deve coire, e con che regola ora si pone avanti, ora addietro de l’orazione; e con che misure e quali ordini vi s’intermesceno quelle interiezione dolentis, gaudentis, heu, oh, ahi, ah, hem, ohe, hui, ed altri condimenti, senza i quali tutto il discorso è insipidissimo?» [11].
Da questi passi emerge con particolare evidenza la feroce opposizione di Bruno nei confronti della letteratura, e, più in generale, della cultura, tradizionale e ufficiale. Il pensatore Nolano si scaglia con impeto contro le sue regole limitanti, soffocanti, e contro coloro che queste stesse regole elevano a dogmi indiscutibili. Regole quali l’imitazione petrarchesca, o la sistematica distinzione dei generi letterari teorizzata da Aristotele, soggette già alla reazione di rifiuto di anticlassicisti come Francesco Berni [12], Pietro Aretino [13], Teofilo Folengo [14] e Ruzante [15]. Ma, rispetto a questi autori, che costituiscono, insieme con Bruno, la spina dorsale della letteratura italiana alternativa del XVI secolo, il pensatore Nolano spinge ancora più a fondo la sua critica, limitandosi non solo a rovesciare forme e contenuti della letteratura ufficiale, ma negandoli con forza, facendo di fatto tabula rasa. Del resto, rispetto agli anticlassicisti sopracitati, egli è innanzitutto un filosofo, e questo gli permette di imporsi come una sorta di teorico dell’alternativa letteraria, di cui la battuta conclusiva di Cicada del passo De gli eroici furori sopra riportato, racchiude il senso più profondo. Battuta inoltre emblematica dello stile travolgente di Bruno, con la definizione di «vermi» affibbiata ai pedanti, «nati solamente per rodere, insporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche». Ma Bruno non si limita all’invettiva, ricorre anche al comico, realizzando, nel passo tratto dal dialogo De la causa, principio et uno una dissacrante parodia del pedante, che si crede un grande sapiente: «mentre ciascuno è uno, lui solo è tutto», fossilizzandosi ridicolmente su elementi sciocchi e insignificanti come participi, avverbi e congiunzioni. Da questo secondo passo emerge anche un’altra caratteristica della pagina bruniana, il plurilinguismo. Mescolate all’italiano compaiono frasi latine – e la lingua morta è la lingua per eccellenza dei pedanti, per definizione -, che vengono via via degradate fino a suoni vuoti e del tutto privi di significato: «dolentis, gaudentis, heu, oh, ahi, ah, hem, ohe, hui».
Giordano Bruno ha fondato la propria attività filosofico-letteraria, dunque la propria esistenza, sull’opposizione al pensiero, alla letteratura e alla cultura ufficiali, pagando con la vita, sì, ma spianando vie inimmaginabili all’epoca. Di personalità artistico-culturali dotate di un tale ardore oppositivo, critico, negativo – all’inizio dell’articolo non a caso ho citato Leopardi e Michelstaedter – ogni epoca avrebbe bisogno, ma temo proprio che la nostra di epoca non possa produrne, tale è la perfezione raggiunta dal dominio della «rettorica», che soffoca o riduce nei ranghi ben ordinati e tranquillizzanti della norma l’alternativa. Del resto, a livello letterario, c’è ben poco da parlare di alternativa oggi, e di letteratura in genere. Perché la letteratura italiana, come vado ripetendo da tempo, è morta; tutto ciò che viene pubblicato oggi dagli editori del “Belpaese” è altro, qualcosa di infinitamente più basso.
NOTE
[1] Per un approfondimento sul poeta recanatese rimando agli articoli Sulle Operette morali, Giacomo Leopardi, il nulla.
[2] Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.
[3] Per un approfondimento sulla tormentata vicenda esistenziale del pensatore Nolano rimando all’articolo Giordano Bruno – I viaggi, i processi, la morte.
[4] Per un approfondimento sulla filosofia bruniana rimando all’articolo I principi fondamentali del pensiero di Giordano Bruno.
[5] Per un approfondimento sul Candelaio rimando all’articolo Bruno commediografo e poeta.
[6] Per un approfondimento sul contributo del filosofo Nolano alla rivoluzione astronomica rimando all’articolo La rivoluzione astronomica – Parte IV – Giordano Bruno.
[7] Per un approfondimento sul rapporto tra il Nolano e lo Stagirita rimando all’articolo Bruno contra Aristotele.
[8] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 116.
[9] Nuccio Ordine, La cabala dell’asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno, Liguori, Napoli 1987.
[10] Giordano Bruno, De gli eroici furori, in Id., Dialoghi italiani, a cura di Giovanni Aquilecchia, Sansoni, Firenze 1985.
[11] Giordano Bruno, De la causa, principio et uno, a cura di Giovanni Aquilecchia, Einaudi, Torino 1973.
[12] Per un approfondimento sull’autore rimando all’articolo La letteratura italiana alternativa del Cinquecento. Francesco Berni.
[13] Per un approfondimento sull’autore rimando all’articolo La letteratura italiana alternativa del Cinquecento. Pietro Aretino.
[14] Per un approfondimento sul poeta maccheronico rimando all’articolo La letteratura italiana alternativa del Cinquecento. Teofilo Folengo.
[15] Per un approfondimento sull’autore rimando all’articolo La letteratura italiana alternativa del Cinquecento. Angelo Beolco, detto il Ruzante.