Madre e figlio, la pittura di Sokurov

Nell’ambiente etereo e mutabile di una Russia senza nome si sviluppa la storia minima di una madre morente e di suo figlio, a lei legatissimo. La loro casa è persa in una natura sovrannaturale, un universo romantico e naturale, dove l’uomo è ricercatore del  proprio spirito e Wanderer, in uno sconfinato orizzonte, largo perlomeno un continente. Il lungometraggio si nutre di questa natura irreale, potente ma altrettanto accogliente per i due, il figlio turbato dalla certezza della morte della madre, e la disperazione della madre certa di abbandonare il figlio alla solitudine. I tempi sono dilatati e il ritmo lentissimo, gli immensi piani-sequenza sono il nodo perfetto per giudicare il lavoro di Sokurov, che vive di una poetica pittorica palese, ottenuta con l’utilizzo di lenti anamorfiche e filtri. Il tutto teso  è a rappresentare un paesaggio del tutto emozionale, direttamente mutuato dalla pittura romanticista di Caspar David Friedrich, pittore capofila degli “avventurieri dello spirito”. Proprio quella tipologia di viaggio sono chiamati a compiere madre e figlio attraverso quella natura soverchiante, dal cielo sempre nero e pesante che diventa il passaggio necessario per liberare nel mondo il seme già sviluppato del trapasso.
Madre e figlio è la pellicola che nel 1997 farà conoscere al pubblico internazionale le opere del regista russo. In quei minuti di proiezione sono concentrate le intenzioni di un’intera carriera, da subito ci introduce nell’atmosfera che pervade tutto il film con l’immagine del figlio che accudisce la madre morente nel letto. La storia ha ovviamente un carattere universale, non verranno mai rivelati i nomi dei protagonisti, e nessun altro personaggio entrerà mai in scena. Nonostante la grande sofferenza la madre insiste per uscire nella natura, ed è li che inizia il viaggio nel mondo,  dove comanda il fischio del vento e il mutare circolare della vita, il passaggio del tempo e la caducità della carne sono sottolineate da un ambiente studiato ad arte, una fotografia piegata direttamente alla volontà della narrazione. Per tutto il tragitto il figlio porterà in braccio la madre, trasformando il racconto in poesia, e mostrando proprio come la circolarità della vita faccia parte dei destini di tutti gli esseri umani, il figlio è chiamato ad accudire la madre alla stessa maniera in cui la madre lo accudì da bambino. Il viaggio che intraprendono nella natura diviene una processione nei ricordi e nelle paure dei due, con la certezza della morte che rende i dialoghi scarni e diretti, finché l’uomo rimasto solo ripercorrerà il breve viaggio nella natura correndo, come volesse sentire il peso della propria vitalità intatta. Alla fine una farfalla appoggiata sulla mano della madre morta ci darà il peso della futilità della vita, della sua ineffabilità, un riferimento forse piuttosto scontato che però viene redento all’interno della poetica del lungometraggio e diventa la pura rappresentazione della fine. Il riferimento pittorico, come accennato in precedenza, è la discriminante espressiva del film, rendendo la pellicola un vero quadro animato. I toni non si spostano dal verde e dall’ocra, le inquadrature sono immobili e costruite ad arte, in particolare il bellissimo momento del passaggio del treno in lontananza, figlio di una composizione scenica eccezionale. Proprio questo studio intenso della resa pittorica dell’immagine permette di superare l’utilizzo della parola e l’apporto della sceneggiatura.
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