«Vero inferno è il mio petto,
vero infernale spirito son io
e vero infernal foco è ‘l foco mio».Francesco Berni
Nella poesia lirica italiana del Cinquecento domina il cosiddetto petrarchismo, che incarna il principio guida del Rinascimento, il classicismo, e si impone come tendenza ufficiale dopo l’istituzionalizzazione del modello petrarchesco da parte dell’intellettuale in assoluto più influente del secolo, Pietro Bembo, nelle celeberrime Prose della volgar lingua (1525). Ma, parallelamente al petrarchismo e in polemica reazione ad esso, si sviluppa una tendenza opposta, alternativa, che rovescia il principio guida rinascimentale, l’anticlassicismo, fondandosi innanzitutto sul comico – come tutta la letteratura italiana alternativa del secoli precedenti del resto: Cecco Angiolieri [1], Luigi Pulci [2], il Burchiello [3] -, e che ha uno dei suoi massimi esponenti nell’irriverente Francesco Berni, nato a Lamporecchio, nei pressi di Pistoia, nel 1496 o 1497, e morto a Firenze nel 1535, in circostanze oscure, forse a causa di un avvelenamento.

Francesco Berni
Ciò che colpisce dell’anticlassicismo di Berni è il suo carattere teorico, programmatico, come emerge con evidenza dal Dialogo contra i poeti (1526), vero e proprio trattato di poetica, in cui l’autore si scaglia contro il letterato ufficiale, rinnegando il supremo valore conoscitivo e sacro conferito alla poesia nell’Umanesimo e nel Rinascimento, rifiutando il principio di imitazione posto da Bembo alla base del rinnovato classicismo, e polemizzando aspramente contro la corruzione dei costumi contemporanei. Affiora subito uno degli aspetti centrali dell’attività letteraria di Berni, la grande attenzione alla sfera morale, al centro di molti suoi testi, che sfocia in una violenta critica alla propria epoca, vittima di una degenerazione morale appunto, evidente soprattutto negli uomini del clero e della corte, le due massime istituzioni del tempo.
Berni, rifacendosi ai poeti alternativi sopracitati, basa la propria poetica sull’antipetrarchismo – preferendo ai tanti, ridicoli imitatori di Petrarca [4] ad esempio un Michelangelo [5], che non si perde in un inutile e banale vaniloquio, ma adatta la forma al proprio sentire, dominato da un aspro e irrisolvibile conflitto -, attraverso il ricorso sistematico all’ironia, alla parodia, alla satira, e a un linguaggio violento, spesso scabroso e triviale, che conduce a effetti prepotentemente espressionisti. Soprattutto nel genere poetico del capitolo in terza rima, composto da endecasillabi a rima incatenata che si caratterizza per la spiccata inflessione narrativa, sulla scia della Commedia di Dante e dei Trionfi di Petrarca – colgo l’occasione per ricordare come la condanna del petrarchismo non coincida affatto con la condanna di Petrarca, anzi, è proprio la banalizzazione e ridicolizzazione dell’illustre modello a far scaturire, tra le altre cose, la reazione -.
Per quanto riguarda il ricorso al linguaggio volgare – e si pensi all’ideale classicistico di armonia ed equilibrio in voga al tempo -, ricordo alcuni versi del Capitolo a suo compare a messer Antonio da Bibbiena: «Se voi andate drieto a questa vita, / compar, voi mangierete poco pane/ e farete una trista riuscita. / Seguitar dì e notte le puttane, / giucar tre ore a’ billi et alla palla, / a dir il ver, son cose troppo strane» (vv. 1-6) [6]; «O vergogna de gli uomini fottuta, / dormir con una donna tutta notte, / che non ha membro adosso che non puta!» (vv. 40-42); «Così, vivendo voi quïeto e casto, / andrete ritto ritto in paradiso / e trovarete l’uscio andando al tasto. / Abbiate sopra tutto per avviso, / se voi avete voglia di star sano, / di non guardar le donne troppo in viso; / datevi inanzi a lavorar di mano» (70-76). Si veda inoltre la conclusione del Sonetto delle puttane: «un morbo, un puzzo, un cesso, / un toglier a pigion ogni palazzo / son le cagioni ch’io mi meni il cazzo» (vv. 15-17). E infine alcune terzine del Capitolo primo alla sua innamorata, in cui la volgarità risulta ancor più irriverente e corrosiva perché messa in relazione al secolare, sacro tema amoroso: «Quando io ti veggio in sen que’ dui fiasconi, / oh mi vien una sete tanto grande / che par ch’io abbia mangiato salciccioni; / poi, quand’io penso all’altre tue vivande, / mi si risveglia in modo l’appetito / che quasi mi si strappan le mutande» (vv. 16-21); «Con me dar ti potrai mille piaceri, / di Marcon ci staremo in santa pace, / dormirem tutti due senza pensieri, / perché ’l fottere a tutti sempre piace» (vv. 58-61).
Al centro della poesia di Berni vi è anche la polemica anticlericale, esemplificata dall’ultimo verso del Sonetto in descrizion d’una badia: «Ahi, preti scelerati e traditori!» (v. 35); e che raggiunge la massima organicità, diciamo così, nel Sonetto contra li preti, che riporto integralmente:
Godete, preti, poi che ’l vostro Cristo
v’ama cotanto, ch’ei, se più s’offende,
più da turchi e concilii vi difende
e più felice fa quel ch’è più tristo.Ben verrà tempo ch’ogni vostro acquisto,
che così bruttamente oggi si spende,
vi leverà; ché Dio ferirvi intende
col fùlgor che non sia sentito o visto.Credete voi, però, Sardanapali,
potervi far or femine or mariti,
e la chiesa or spelonca et or taverna?E far mille altri, ch’io non vo’ dir, mali,
e saziar tanti e sí strani appetiti,
e non far ira alla bontà superna?
In questo componimento si manifesta chiaramente quella tensione morale che caratterizza l’attività letteraria di Berni, che si scaglia contro il clero, mostrando causticamente le ipocrisie dei suoi esponenti «scelerati e traditori», non certo per un gratuito impeto blasfemo che si riduce a mera posa letteraria, ma per l’anelito ad una fede che riscopra l’autenticità del messaggio evangelico, traviato da una Chiesa fatta «spelonca» e «taverna», che si fonda sì su Cristo e le sue parole, ma strumentalizzandole al fine di salvaguardare ed incrementare interessi bassi e peccaminosi. Insomma, nella sua aspra polemica anticlericale, Berni prosegue quella illustre tradizione iniziata da Jacopone da Todi e da Dante, tradizione secolare, ma mai inattuale.
L’invettiva berniana non si ferma ai soli uomini di Chiesa, ma riguarda anche i suoi colleghi, come nel caso di un altro grandissimo scrittore italiano alternativo del XVI secolo, forse il più noto e discusso, Pietro Aretino, contro il quale Berni si scaglia senza mezzi termini: «Tu ne dirai e farai tante e tante, / lingua fracida, marcia, senza sale, / che al fin si troverà pur un pugnale / meglior di quel d’Achille e più calzante» (Contra Pietro Aretino, vv. 1-4). Non solo, Berni inveisce anche contro i signori, come nel Sonetto al Signor d’Arimini, ovvero Sigismondo Malatesta: «Empio signor, che della robba altrui / lieto ti vai godendo e del sudore, / venir ti possa un cancaro nel cuore, / che ti porti di peso a i regni bui» (vv. 1-4).
In Berni trovo inoltre interessante l’anelito alla libertà, «puttana libertà» come la definisce l’autore nel componimento Si duole della suggezione in che stava in Verona, tema caro a molti letterati costretti contro la propria volontà alle dipendenza di un signore, e si ricordi in tal senso l’insofferenza espressa da Ariosto nelle Satire [7]. In Berni l’aspirazione alla «puttana libertà» si concretizza ovviamente in una beffarda originalità, come nel Capitolo primo della peste, in cui proprio in termini di libertà l’autore leva il suo inno al terribile male: «Fa ogniun finalmente ciò ch’e’ vuole: / dell’alma libertà quell’è stagione, / ch’esser sì cara a tutto ’l mondo suole» (vv. 133-135). A proposito di questo capitolo, si tratta di un modo particolarmente irriverente di criticare la società del tempo, che l’epidemia saprebbe sovvertire come narra Boccaccio nell’Introduzione alla prima giornata del Decameron [8]. Solo una catastrofe di simili proporzioni potrebbe sconvolgere una società vittima di una degradazione morale senza rimedio. Insomma, un inno al Caos quello di Berni, che si carica di una tensione morale fortissima, che ritroveremo ad esempio in Giacomo Leopardi, e penso soprattutto alle varie estinzioni del genere umano presenti nelle Operette [9], nei dialoghi di Ercole e di Atlante e di un folletto e di uno gnomo. Esiti estremi che rivelano la profondità, l’intensità della critica sociale propria dello scrittore che del mondo vede le brutture e ad esse resiste, irriducibilmente.
Più volte nel corso del presente articolo ho parlato dell’antipetrarchismo e dell’anticlassicismo che animano la poesia berniana. Ebbene, il componimento in cui queste due tendenze si mostrano più chiaramente, è il celebre sonetto Chiome d’argento fine, irte ed attorte. Leggiamo.
Chiome d’argento fino, irte e attorte
senz’arte intorno ad un bel viso d’oro;
fronte crespa, u’ mirando io mi scoloro,
dove spunta i suoi strali Amor e Morte;occhi di perle vaghi, luci torte
da ogni obietto diseguale a loro;
ciglie di neve e quelle, ond’io m’accoro,
dita e man dolcemente grosse e corte;labra di latte, bocca ampia celeste;
denti d’ebeno rari e pellegrini;
inaudita ineffabile armonia;costumi alteri e gravi: a voi, divini
servi d’Amor, palese fo che queste
son le bellezze della donna mia.
Si tratta di una studiatissima parodia di quello che può essere considerato il vero e proprio manifesto del petrarchismo, il sonetto Crin d’oro crespo e d’ombra tersa e pura di Pietro Bembo, il grande teorico della tendenza poetica ufficiale del XVI secolo. Berni opera un sistematico – e tutto sommato sobrio, in confronto agli esiti più violenti e volgari della sua poesia – rovesciamento dell’illustre modello. Riprendendo lo stile enumerativo proprio del sonetto bembiano, Berni elogia anch’egli le caratteristiche della sua donna, ma una donna orrenda, che rappresenta l’esatto capovolgimento dell’ideale di bellezza classico: una donna vecchia, dai capelli arruffati, dal volto giallastro, malato, dalla fronte rugosa, dagli occhi storti, sdentata e persino superba. Insomma, Berni ridicolizza il modello ufficiale, ricorrendo al comico, e in particolar modo ad uno dei suoi strumenti privilegiati, la parodia, «dove l’abbassamento consiste nella trasposizione di un testo precedente in modo tale da ridurne le pretese e il tenore. La parodia si presta perciò benissimo alla polemica letteraria e serve a mettere a posto la fama usurpata e i grandi modelli più riveriti nella caricatura della loro retorica. Dalle vette dello spirito al livello volgare e materiale è il crollo verticale della parodia che si giova altresì dell’iperbole della caricatura» [10]. E in questo sonetto, il suo componimento probabilmente più noto, Berni realizza proprio una caricatura dell’ideale femminile classicistico e rinascimentale.
Francesco Berni non accetta passivamente l’epoca che gli è toccata in sorte. Ad essa si ribella e di essa mostra le brutture e le contraddizioni, le ipocrisie e le depravazioni, in un impeto aspramente polemico che non lesina di ricorrere alla più bassa e sgradevole volgarità, ma che in fondo rivela una profonda e dolorosa aspirazione ad un mondo migliore, ad una restaurazione morale che finisce per forza di cose con lo sfociare nell’utopia.
NOTE
[1] Per un approfondimento sul poeta rimando all’articolo Genesi dell’alternativa letteraria italiana: Iacopone da Todi e Cecco Angiolieri.
[2] Per un approfondimento sul poeta rimando all’articolo Quel genio irriverente di Luigi Pulci.
[3] Per un approfondimento sul poeta rimando all’articolo Il nonsense del Burchiello: Nominativi fritti e mappamondi.
[4] Per un approfondimento sul poeta rimando agli articoli Francesco Petrarca, il «doppio uomo». Prima parte, Seconda parte, Francesco Petrarca, Secretum: in guerra contro se stessi, Il Canzoniere di Francesco Petrarca: storia di un amore umano, Trionfalmente Francesco Petrarca.
[5] Per un approfondimento sull’attività poetica di Michelangelo rimando all’articolo Il genio lirico di Michelangelo.
[6] I versi sono tratti da Francesco Berni, Rime, a cura di Danilo Romei, Mursia, Milano 1985.
[7] Per un approfondimento sulle Satire rimando all’articolo Ludovico Ariosto, l’intellettuale cortigiano dissidente.
[8] Per un approfondimento sul Decameron rimando all’articolo Giovanni Boccaccio, uno scrittore al servizio delle donne. Decameron.
[9] Per un approfondimento sul capolavoro di Leopardi rimando all’articolo Sulle Operette morali.
[10] Francesco Muzzioli, Piccolo dizionario dell’alternativa letteraria, ABEditore, Milano 2014, p. 60.