Keith Haring sul monte Sinai

La street art non ama la religione, o meglio, di rado le tematiche dell’arte figurativa urbana per eccellenza invadono le mura ecclesiastiche, in maniera in realtà abbastanza sorprendente se si pensa che entrambe confluiscono in un macrocosmo di interessi che possono essere racchiusi sotto la cupola delle “problematiche sociali” che investono l’uomo. Ma come in ogni ambito della vita vi è, ovviamente, un’eccezione, che sia un pavone timido o un orso vegano.

Nel 1985 Keith Haring, uno dei maggiori esponenti dell’arte figurativa statunitense del Novecento, decise di salire metaforicamente sul monte Sinai. Per beneficio di racconto però va precisato che in questo caso non si trovava in Egitto, nel roccioso anfratto di rovi ardenti dove Mosè vide le tavole in pietra, bensì a Bordeaux – in Francia, nel cuore del “Vecchio Continente”. Per affrontare i suoi dubbi e conoscere quella religione, fatta per certi versi degli stessi simboli che in maniera liturgica coltivava anche l’artista, decise di affrontare un tema molto complicato come quello dei “Dieci comandamenti”. In questo scenario immaginato dietro i grossi occhiali neri portati in punta di naso, spuntano immagini e archetipi che appartengono a qualsiasi uomo, nell’universalità dei loro messaggi: lo stesso artista, nonostante la sua arte gli permettesse di vivere senza troppi affanni, non può sottrarsi alle grandi paure che attraversarono quegli anni, dalla piaga dell’Aids – malattia che ucciderà Haring stesso – alle minacce nucleari, obbligandolo a riflessioni umane anche su temi religiosi, come in questo caso.

In preda ad una visione estatica, probabilmente sulla pista da ballo del Paradise Garage di New York, ebbe quest’idea: realizzare le dieci tavole dei comandamenti in versione haringiana. Questa fu la genesi dei “The Ten Commandments”, le tavole alte 7,5 metri e larghe 5 che vennero realizzate ed esposte per la prima volta al Museo d’Arte contemporanea di Bordeaux.

Successivamente alla mostra, Haring affermò:

“Non riuscivo a ricordare tutti i “Dieci Comandamenti”, così ho dovuto prendere una bibbia non appena sono arrivato qui a Bordeaux. Li ho letti e ho preso alcuni appunti prima di iniziare a lavorare. Per me sono rapidamente divenute metafore. Per alcune delle idee sono un po’ astratto, così l’immagine che li rappresenta può essere diverse cose allo stesso tempo.”

E’ con questo atteggiamento che l’artista statunitense decise di avvicinarsi al messaggio trasversale dei Dieci Comandamenti, non lavorando per sottrazione, non estraendo un’icona da una roccia deforme, bensì mostrando le deformità che quei peccati provocano, mostra come si può essere spregevoli compiendo quegli atti, dando un esempio da seguire piuttosto che una legge alla quale obbedire.

Qualche tempo dopo, durante un’intervista, Haring svelò una chiave di lettura chiara e definitiva per le dieci tavole dipinte nel 1985:

“Il modo in cui ho lavorato ai Dieci Comandamenti è per antitesi. Ad esempio dicono “non rubare”, il dipinto mostra qualcuno che ruba: l’antitesi. Io raffiguro quello che non si deve fare invece di affermare “questo è quello che tu devi fare”.”

In una parola? Moderno.

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