Alla base del pensiero politico di Niccolò Machiavelli vi è un irriducibile antropopessimismo. Egli definisce gli uomini «ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno», a tal punto che gli è più agevole dimenticare l’uccisione del padre che la perdita del patrimonio, come scrive nel Principe. Machiavelli, natura pratica, smaniosa d’azione, non si sofferma a filosofeggiare sulle ragioni dell’umana meschinità, dell’umana malvagità, ma la presenta come un dato di fatto, in modo apodittico ovvero evidente di per sé, che non ha bisogno di dimostrazione. E proprio da questo antropopessimismo derivano due dei punti fondamentali del pensiero politico machiavelliano: l’a-moralità del principe – perché agendo «in fra tanti che non sono buoni» egli non può certo fare «in tutte le parti la professione di buono», pena la sua completa rovina – e la statolatria – perché senza un potere statale forte che sappia tenere a bada questa torma di malvagi regnerebbe il caos -. Del resto, l’antropopessimismo è alla base di ogni autorità, non può essere altrimenti. È sulla totale mancanza di fiducia nei confronti del genere umano che si fonda l’autorità, rivendicando e giustificando la propria esistenza, come sottolinea Dostoevskij nelle pagine insuperabili del Grande Inquisitore [1] all’interno dei Fratelli Karamazov [2].
L’antropopessimismo percorre Il principe dalla prima all’ultima pagina, ma c’è un capitolo in particolare, il XVIII, in cui esso viene messo in relazione con la condotta del politico, emergendo con particolare evidenza. Leggiamo.
«Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede, per esperienzia ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli degli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà.
Dovete, adunque, sapere come sono dua generazioni di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo è delle bestie: ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Pertanto, a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dagli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile.
Sendo, dunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può, pertanto, uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non la osservarebbono a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancorono cagioni legittime di colorire la inosservanzia. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e mostrare quante paci, quante promesse sono state fatte irrite e vane per la infidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna, troverrà sempre chi si lascerà ingannare.
Io non voglio, degli esempli freschi, tacerne uno. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro, che a ingannare uomini: e sempre trovò subietto da poterlo fare. E non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare, e con maggiori giuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno: nondimeno sempre li succederono gli inganni ad votum, perché conosceva bene questa parte del mondo.
A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che, avendole e osservandole sempre sono dannose, e parendo di averle, sono utili, come parere pietoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere; ma stare in modo edificato con l’animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. E hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia uno animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti della fortuna e le variazioni delle cose li comandano, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato.
Debbe, adunque, avere uno principe gran cura che non gli esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione. E non è cosa più necessaria a parere di avere che questa ultima qualità. E gli uomini, in universali, iudicano più agli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che li defenda; e nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati; perché il vulgo ne va sempre preso con quello che pare, e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo, e li pochi non ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi. Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto o la reputazione o lo stato».
Certo, scrive Machiavelli, se tutti gli uomini fossero buoni il principe non dovrebbe mai contravvenire alla parola data, ma gli uomini sono «tristi», ovvero malvagi, e ciò gli consente di tornare sui propri passi. Il principe deve essere volpe, ma è necessario che nasconda questa sua astuzia, simulando e dissimulando. Del resto, non correrà troppi rischi, perché «sono tanto semplici gli uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna, troverrà sempre chi si lascerà ingannare».
Il principe, più che essere, deve apparire «pietoso, fedele, umano, intero religioso». Perché gli uomini, «in universali», giudicano più dall’apparenza che dalla realtà, perché tutti vedono, ma pochi sentono quel che veramente si è, e questi pochi non hanno certo l’ardire di scontrarsi con l’opinione della maggioranza, perché il loro giudizio critico di fatto non conta nulla quando si ritrova a fare i conti con il successo.
Al di là di ogni facile giudizio morale, Machiavelli mostra le cose per quelle che realmente sono; egli è fedele «alla verità effettuale della cosa», non «alla imaginazione di essa», e ciò è senza dubbio da apprezzare. Machiavelli straccia finalmente quel velo d’ipocrisia che da secoli ricopriva la politica. La politica è questo, inganno, simulazione, violenza, e Il principe si impone come un’opera universale, valida in ogni tempo e luogo. Basti pensare che Tolstoj vi ricorrerà ancora nel 1905, nel saggio Guerra e rivoluzione, accogliendo come definitive le parole di Machiavelli, dalle cui idee lo scrittore russo si allontana completamente, facendosi portavoce di un’anarchia cristiano-pacifista che rifiuta ogni forma di governo [3].
Dal Principe emerge un quadro desolante: la moltitudine di uomini «tristi» governata da un uomo multiforme al di sopra della morale, magari in vista di quel regime repubblicano esaltato nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Ecco quella «lega di birbanti» di cui parla Leopardi nel primo dei centoundici Pensieri [4], e che Michelstaedter, ne La persuasione e la rettorica, ribattezza «comunella dei malvagi» [5]. E allora lode a quei pochi malpensanti che sentono, che non «hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi», e di cui Leopardi, Michelstaedter e Tolstoj sono straordinari esponenti, fari in una notte senza fine, in cui l’alba è un’utopia.
NOTE
[1] Per la lettura e l’analisi del celebre poema di Ivan Karamazov rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, Il Grande Inquisitore.
[2] Per un approfondimento sull’ultimo romanzo di Dostoevskij rimando agli articoli I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Prima parte, I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Seconda parte.
[3] Per un approfondimento sul saggio di Tolstoj rimando all’articolo Guerra e rivoluzione: l’anarchico Tolstoj contro la superstizione statalista.
[4] «Io ho lungamente ricusato di creder vere le cose che dirò qui sotto, perché, oltre che la natura mia era troppo rimota da esse, e che l’animo tende sempre a giudicare gli altri da se medesimo, la mia inclinazione non è stata mai d’odiare gli uomini, ma di amarli. In ultimo l’esperienza quasi violentemente me le ha persuase: e sono certo che quei lettori che si troveranno aver praticato cogli uomini molto e in diversi modi, confesseranno che quello ch’io sono per dire è vero tutti gli altri lo terranno per esagerato, finché l’esperienza, se mai avranno occasione di veramente fare esperienza della società umana, non lo ponga loro dinanzi agli occhi.
Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi. Quando due o più birbanti si trovano insieme la prima volta, facilmente e come per segni si conoscono tra loro per quello che sono; e subito si accordano; o se i loro interessi non patiscono questo, certamente provano inclinazione l’uno per l’altro, e si hanno gran rispetto. Se un birbante ha contrattazioni e negozi con altri birbanti, spessissimo accade che si porta con lealtà e che non gl’inganna, se con genti onorate, è impossibile che non manchi loro di fede, e dovunque gli torna comodo, non cerchi di rovinarle; ancorché sieno persone animose, e capaci di vendicarsi, perché ha speranza, come quasi sempre gli riesce, di vincere colle sue frodi la loro bravura. Io ho veduto più volte uomini paurosissimi, trovandosi fra un birbante più pauroso di loro, e una persona da bene piena di coraggio, abbracciare per paura le parti del birbante: anzi questa cosa accade sempre che le genti ordinarie si trovano in occasioni simili: perché le vie dell’uomo coraggioso e da bene sono conosciute e semplici, quelle del ribaldo sono occulte e infinitamente varie. Ora, come ognuno sa, le cose ignoto fanno più paura che le conosciute; e facilmente uno si guarda dalle vendette del generosi, dalle quali la stessa viltà e la paura ti salvano; ma nessuna paura e nessuna viltà è bastante a scamparti dalle persecuzioni segrete, dalle insidie, né dai colpi anche palesi che ti vengono dai nemici vili. Generalmente nella vita quotidiana il vero coraggio è temuto pochissimo; anche perché, essendo scompagnato da ogni impostura, è privo di quell’apparato che rende le cose spaventevoli; e spesso non gli e creduto; e i birbanti sono temuti anche come coraggiosi perché, per virtù d’impostura, molte volte sono tenuti tali.
Rari sono i birbanti poveri: perché, lasciando tutto l’altro, se un uomo da bene cade in povertà, nessuno lo soccorre, e molti se ne rallegrano, ma se un ribaldo diventa povero, tutta la città si solleva per aiutarlo. La ragione si può intendere di leggeri: ed è che naturalmente noi siamo tocchi dalle sventure di chi ci è compagno e consorte, perché pare che sieno altrettante minacce a noi stessi; e volentieri, potendo, vi apprestiamo rimedio, perché il trascurarle pare troppo chiaramente un acconsentire dentro noi medesimi che, nell’occasione, il simile sia fatto a noi. Ora i birbanti, che al mondo sono i più di numero, e i più copiosi di facoltà, tengono ciascheduno gli altri birbanti, anche non cogniti a se di veduta, per compagni e consorti loro, e nei bisogni si sentono tenuti a soccorrerli per quella specie di lega, come ho detto, che v’è tra essi. Ai quali anche pare uno scandalo che un uomo conosciuto per birbante sia veduto nella miseria, perché questa dal mondo, che sempre in parole è onoratore della virtù, facilmente in casi tali è chiamata gastigo, cosa che ritorna in obbrobrio, e che può ritornare in danno, di tutti loro. Però in tor via questo scandalo si adoperano tanto efficacemente, che pochi esempi si vedono di ribaldi, salvo se non sono persone del tutto oscure, che caduti in mala fortuna, non racconcino le cose loro in qualche modo comportabile
All’opposto i buoni e i magnanimi, come diversi dalla generalità, sono tenuti dalla medesima quasi creature d’altra specie, e conseguentemente non solo non avuti per consorti né per compagni, ma stimati non partecipi dei diritti sociali, e, come sempre si vede, perseguitati tanto più o meno gravemente, quanto la bassezza d’animo e la malvagità del tempo e del popolo nei quali si abbattono a vivere, sono più o meno insigni; perché come nei corpi degli animali la natura tende sempre a purgarsi di quegli umori e di quei principii che non si confanno con quelli onde propriamente si compongono essi corpi, così nelle aggregazioni di molti uomini la stessa natura porta che chiunque differisce grandemente dall’universale di quelli, massime se tale differenza è anche contrarietà, con ogni sforzo sia cercato distruggere o discacciare. Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina. In modo che più volte, mentre chi fa male ottiene ricchezze, onori e potenza, chi lo nomina è strascinato in sui patiboli, essendo gli uomini prontissimi a sofferire o dagli altri o dal cielo qualunque cosa, purché in parole ne sieno salvi» (Giacomo Leopardi, Pensieri, in Id., Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici ed Emanuele Trevi, Newton Compton editori, Roma 2016, pp. 627-628).
[5] Per un approfondimento sul pensatore, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.