Demolire, senza alcuna pietà, con lucida, asciutta, implacabile determinazione, le rassicuranti, edulcoranti, fasulle sovrastrutture ideologiche erette dall’uomo nel corso dei secoli – da Platone, colpevole di aver insinuato per primo l’esistenza di una dimensione trascendentale, ultraterrena spianando così la via alla menzogna di Dio, ai liberali e agli spiritualisti cattolici scioccamente, disonestamente convinti della perfettibilità dell’essere umano – nel vano, goffo e ridicolo tentativo di mascherare il proprio stato miserevole: potremmo compendiare in questo modo il senso ultimo e più profondo dell’impegno filosofico-letterario di Giacomo Leopardi, insieme con Dante il più grande poeta, scrittore e pensatore italiano [1]. Leopardi si inserisce così in quella lunga e florida tradizione umanistica critica che, a grandi linee, da Petrarca [2] arriva a Michelstaedter [3]. Ma un aspetto in particolare distingue il recanatese da tutti i suoi predecessori e da tutti i suoi successori: la consapevolezza, una consapevolezza fisica, come vedremo, oltreché intellettuale, del nulla, che non ha eguali e non solo nel panorama filosofico-letterario italiano, ma mondiale. Al nulla Leopardi dedica alcune delle sue riflessioni più impressionanti, più terribili e spaventose per l’uomo che Binni definirebbe del comunque vivere, tra i bersagli prediletti del recanatese:
«Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un’ora più quieta conoscerò, la vanità e l’irragionevolezza e l’immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà, lasciandomi in un voto universale, e in un’indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi» [4].
Ed ecco che, poche pagine più avanti, il nulla, da mera percezione intellettuale, diviene percezione fisica, solidificandosi:
«Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla» [5].
A proposito di questa riflessione scrive Lucio Felici: «Che la realtà – del soggetto e dell’oggetto, in modo coincidente – sia il nulla e che il nulla sia fatto di materia, abbia un corpo, questo è il tremendo paradosso alla base della concezione leopardiana» [6]. L’esperienza filosofico-letteraria di Leopardi è totale, essa non riguarda solamente l’intelletto, ma anche il corpo, e quest’ultimo ha un’incidenza straordinaria, vissuto come ostacolo e laboratorio del dolore, prigione inespugnabile all’interno della quale anche il nulla assume sostanza e si fisicizza. Dal punto di vista strettamente speculativo, la scoperta e la consapevolezza del nulla porta Leopardi, ancor prima di Stirner [7], Mainländer [8] – il filosofo del suicidio influenzatissimo dal recanatese – e Nietzsche, a decretare la morte di Dio:
«In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacchè nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ecc. E tutte le cose sono possibili, cioè non v’è ragione assoluta perchè una cosa qualunque, non possa essere, o essere in questo o quel modo ec. E non v’è divario alcuno assoluto fra tutte le possibilità, nè differenza assoluta fra tutte le bontà e perfezioni possibili.
Vale a dire che un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, nè mai fu, o se esiste o esistè, non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi nè potendo avere il menomo [1342] dato per giudicare delle cose avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale. Noi, secondo il naturale errore di credere assoluto il vero, crediamo di conoscere questo principio, attribuendogli in sommo grado tutto ciò che noi giudichiamo perfezione, e la necessità non solamente di essere ma di essere in quel tal modo, che noi giudichiamo assolutamente perfettissimo. Ma queste perfezioni, son tali solamente nel sistema delle cose che noi conosciamo, vale a dire in un solo dei sistemi possibili; anzi solamente in alcune parti di esso, in altre no, come ho provato in tanti altri luoghi: e quindi non sono perfezioni assolutamente, ma relativamente: nè sono perfezioni in se stesse, e separatamente considerate, ma negli esseri a’ quali appartengono, e relativamente alla loro natura, fine ec. nè sono perfezioni maggiori o minori di qualunque altra ec. e quindi non costituiscono l’idea di un ente assolutamente perfetto, e superiore in perfezione a tutti gli enti possibili; ma possono anche essere imperfezioni, e talora lo sono, pure relativamente ecc. Anche la necessità di essere, o di essere in un tal modo, e di essere indipendentemente da ogni cagione, è perfezione relativa alle nostre opinioni ec. Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio. (18. luglio 1821.)» [9].
Insomma, in questa diffusa riflessione di mezza estate, Leopardi smantella molta, se non addirittura tutta, la filosofia successiva a Platone, giungendo persino a proclamare la distruzione di Dio. Ma da dove viene questa consapevolezza, questa percezione del nulla? Da dove scaturisce? Direttamente dalla ragione, sua «madre e cagione»:
«Il principal difetto della ragione non è, come si dice, di essere impotente. In verità ella può moltissimo, e basta per accertarsene il paragonare l’animo e l’intelletto di un gran filosofo con quello di un selvaggio o di un fanciullo, o di questo medesimo filosofo avanti il suo primo uso della ragione: e così il paragonare il mondo civile presente sì materiale che morale, col mondo selvaggio presente, e più col primitivo. Che cosa non può la ragione umana nella speculazione? Non penetra ella fino all’essenza delle cose che esistono, ed anche di se medesima? non ascende fino al trono di Dio, e non [2942] giunge ad analizzare fino ad un certo segno la natura del sommo essere? […] La ragione dunque per se, e come ragione, non è impotente nè debole, anzi per facoltà di un ente finito, è potentissima; ma ella è dannosa, ella rende impotente colui che l’usa, e tanto più quanto maggiore uso ei ne fa, e a proporzione che cresce il suo potere, scema quello di chi l’esercita e la possiede, e più ella si perfeziona, più l’essere ragionante diviene imperfetto: ella rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dire la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono quanto ella cresce; e quanto è maggiore la sua esistenza in intensità e in estensione, tanto l’esser delle cose si scema e restringe ed accosta verso il nulla. Non diciamo che la ragione vede poco. In effetto la sua vista si stende quasi in infinito, ed è acutissima sopra ciascuno oggetto, ma essa vista ha questa proprietà che lo spazio e gli oggetti le appariscono tanto più piccoli quanto ella più si stende [2943] e quanto meglio e più finamente vede. Così ch’ella vede sempre poco, e in ultimo nulla, non perch’ella sia grossa e corta, ma perché gli oggetti e lo spazio tanto più le mancano quanto ella più n’abbraccia, e più minutamente gli scorge. Così che il poco e il nulla è negli oggetti e non nella ragione. (benchè gli oggetti sieno, e sieno grandi a qualcunqu’altra cosa, eccetto solamente ch’alla ragione). Perciocch’ella per se può vedere assaissimo, ma in atto ella tanto meno vede quanto più vede. Vede però tutto il visibile, e in tanto in quanto esso è e può mai esser visibile a qualsivoglia vista. (11. luglio 1823.)» [10].
La ragione è dunque dannosa, annulla il grande, il bello, l’esistenza stessa e partorisce il nulla. A tal proposito ricordo la discussa interpretazione di Emanuele Severino, che colloca Leopardi al termine della storia del pensiero occidentale, il suo esito ultimo ed estremo, nel ribaltamento del principio socratico secondo il quale il sapere è l’unico bene e il non sapere l’unico male:
«A proposito di un passo di Diogene Laerzio, in cui si richiama il fondamentale principio di Socrate, Leopardi afferma: “Oggidì possiamo dire tutto l’opposto”. “Possiamo”: nel senso che “dobbiamo”, che “è necessario”, che è tutto l’opposto a dover essere portato alla luce dalla filosofia. Che cosa si dice in quel passo? Che per Socrate “vi è un solo bene [agathon], l’espistéme, e vi è un solo male [kakon], il non sapere [amathian]”, cioè la privazione di quel “sapere” [mathos] in cui l’epistéme consiste. Ogni bene, infatti, è tale solo se è vero, se appare non nell’opinione, nella fede, nel mito, ma nella luce dell’epistéme della verità. Esiste un rimedio contro l’angoscia, il dolore, la morte, solo se esso è un vero, saldo rimedio; il Dio salva l’uomo solo se il Dio e la salvezza da lui data sono portati alla luce dall’epistéme della verità. Quest’ultima è dunque la radice di ogni bene, e, in questo senso, è l’unico bene. Il male è il dolore, la morte e l’angoscia che ne deriva; il bene è la felicità e la salvezza dal male, prodotte dalla conoscenza della verità, il cui contenuto è, da ultimo, l’Ordinamento divino del mondo. Ma Leopardi porta alla luce della verità che è “tutto l’opposto”, cioè mostra che l’epistéme è l’unico male e che il non sapere [amathia] è l’unico bene.
Alla base di quest’ultima, che è una conclusione decisiva, sta la scoperta angosciante che non può esistere alcun Principio eterno, incorruttibile, divino, e che quindi tutte le cose sono nulla, perché sono circondate dal nulla infinito che le precede, le segue e le attraversa. Se esistesse un essere Eterno e divino, incorruttibile custode di tutte le cose che nascono e muoiono […], il loro provvisorio sporgere dal nulla sarebbe una semplice e illusoria apparenza; laddove l’uscire dal nulla e il ritornarvi sta al centro della verità che per l’intero Occidente è l’assolutamente innegabile. Proprio perché l’esistenza del divenire è innegabile, la verità è che l’Eterno, l’Infinito è impossibile. Il nulla è il Principio di tutte le cose. Meglio allora per l’uomo non saperla, la verità, che saperla; meglio l’amathia che l’epistéme. […]
Sia come filosofia, sia come poesia il pensiero di Leopardi è, di diritto, il pensiero che più si addice all’Occidente e, ormai all’intero Pianeta. Se ciò che viene portato alla luce dall’epistéme della verità è il vortice che getta le cose nel nulla dopo averle per un poco sottratte all’abisso del nulla, allora il pensiero di Leopardi è la conclusione inevitabile della storia dell’Occidente e del mortale» [11].
Il non sapere è meglio del sapere, sostiene Leopardi, ma non si limita a questo. Il recanatese arriva a dichiarare che il non essere è tout court meglio dell’essere, l’assioma sul quale Mainländer fonderà tra qualche anno la sua filosofia del suicidio, come recita uno dei detti memorabili di Filippo Ottonieri [12] nell’omonima operetta [13] – «Dimandato a che nascano gli uomini rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non esser nato» [14] -, ma soprattutto il seguente pensiero dello Zibaldone:
«Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male, l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al male. Non v’è altro che bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti nè di numero nè di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla» [15].
Non c’è via di scampo, l’infelicità è il destino dell’essere, di ogni essere, come Leopardi sostiene e mostra nel celebre pensiero del giardino, che, nello Zibaldone, segue immediatamente quello sopracitato:
«Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. [4176] Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. (Bologna. 19. Aprile. 1826.). Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro infermità non sono mortali, altre perché ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri [4177] sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere. (Bologna. 22. Apr. 1826.)» [16].
In tanta desolazione, all’interno di un contesto così intimamente, così irriducibilmente nichilistico, dominato dall’infelicità, dal male e dal nulla, Giacomo Leopardi non si limita a fare professione di pessimismo – l’accusa che Michelstaedter muove a Schopenhauer [17] -, subisce solo temporaneamente il fascino del suicidio – dal Bruto minore e dall’Ultimo canto di Saffo al Dialogo di Plotino e di Porfirio -, non cede a goffe e ridicole utopie, ma reagisce con eroismo: innanzitutto, attraverso l’attività filosofico-letteraria, attraverso la poesia, sia in versi che in prosa, sia nei Canti che nelle Operette morali, intende smantellare tutte le secolari menzogne che edulcorano e mascherano la misera condizione umana, infine, nella Ginestra, arriva a proclamare un ultimo messaggio di resistenza in cui gli uomini, finalmente consapevoli del proprio stato miserevole, si uniscano nella lotta contro la natura, «empia madre», e per il quale potremmo adottare le parole utilizzate da Serenus Zeitblom per descrivere la conclusione della Lamentatio Doctoris Fausti di Adrian Leverkühn, nel Doctor Faustus di Thomas Mann, naturalmente: «la speranza al di là della disperazione, la trascendenza della disperazione» [18].
NOTE
[1] Un criterio di giudizio, quello della grandezza, che mutuo da Giovanni Boine, colui che per primo, all’inizio del Novecento, rifiuta il diffusissimo, e oramai inadatto, punto di vista critico esclusivamente estetico, basato sul concetto di bello, in favore di un punto di vista critico che potremmo definire etico, basato, appunto, sul concetto di grande, rappresentato sostanzialmente dalla forza culturale e insieme esistenziale dell’opera, nella quale l’arte interagisca e dialoghi, di continuo, con la morale e con la filosofia (Marcello Carlino, Francesco Muzzioli, La letteratura italiana del primo Novecento, NIS, Roma 1986). Ho sempre posto al centro della mia attività pseudo-critica il criterio boiniano – inevitabilmente direi, dostoevskicentrico come sono -, applicandolo a tutte le opere filosofico-letterarie nelle quali mi sono imbattuto.
[2] Per un approfondimento sul grande poeta rimando agli articoli Francesco Petrarca, il «doppio uomo». Prima parte, Seconda parte, Francesco Petrarca, Secretum: in guerra contro se stessi, Il Canzoniere di Francesco Petrarca: storia di un amore umano, Trionfalmente Francesco Petrarca.
[3] Carlo Michelstaedter ovvero il principale erede italiano della lezione leopardiana nel Novecento. Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.
[4] Giacomo Leopardi, Zibaldone, edizione integrale diretta da Lucio Felici, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 87.
[5] Ivi, p. 90.
[6] Lucio Felici, Un canto dal nulla, in Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici ed Emanuele Trevi, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 42.
[7] Per un approfondimento sul pensatore tedesco e la sua unica opera rimando all’articolo Max Stirner, L’unico e la sua proprietà.
[8] Per un approfondimento sul filosofo tedesco rimando all’articolo Philipp Mainländer, il suicidio come redenzione dall’esistenza.
[9] Giacomo Leopardi, Zibaldone, cit., p. 354.
[10] Ivi, pp. 627-628.
[11] Emanuele Severino, Prefazione a Giacomo Leopardi, Il sentimento del nulla, Rizzoli, Milano 2009, pp. 7-10.
[12] Filippo Ottonieri, una di quelle che potremmo definire maschere minori della letteratura italiana, insieme con l’Aristarco Scannabue di Baretti, il Didimo Chierico di Foscolo e il Totò Merùmeni di Gozzano. Per un approfondimento su queste due ultime figure rimando agli articoli Didimo Chierico, l’altra – ironica – maschera di Ugo Foscolo, Totò Merùmeni ovvero l’anti-dannunziano.
[13] Per un approfondimento sul capolavoro leopardiano rimando all’articolo Sulle Operette morali.
[14] Giacomo Leopardi, Operette morali, in Id., Tutte le poesie e tutte le prose, cit., p. 559.
[15] Giacomo Leopardi, Zibaldone, cit., p. 898.
[16] Ivi, pp. 898-899.
[17] La riflessione dedicata al male sopracitata si conclude così: «Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ec. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?» (Ivi, p. 898).
[18] Thomas Mann, Doctor Faustus, traduzione di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1996, p. 557. Per un approfondimento sull’opera rimando all’articolo L’«arco vertiginoso» di Adrian Leverkühn nel Doctor Faustus di Thomas Mann.