La seconda parte delle Memorie di una casa morta si apre con l’esperienza di Aleksandr Petrovič-Dostoevskij in infermeria. Qui due crudeltà appaiono davvero immotivate, del tutto gratuite: perché impedire ai malati di andare in bagno anche la notte, costringendoli invece a servirsi di un bigoncio, portato al calar del sole all’interno della corsia (è facile immaginare il fetore insopportabile); perché non togliere ai malati, e soprattutto ai malati di tisi, prosciugati dal morbo, i ferri, che sono del tutto inutili e hanno il solo scopo di umiliare il forzato (sono, di fatto, semplicemente un simbolo):
«forse che si mettono a un uomo i ferri ai piedi solo perché non fugga o perché ciò gli impedisca di correre? Niente affatto. I ferri non sono altro che un ludibrio, una vergogna e un peso, fisico e morale. Così almeno si presuppone. Essi non potranno mai impedire ad alcuno di fuggire. Il più inesperto, il meno abile dei detenuti saprà ben presto, senza gran fatica, segarli o farne saltare la ribaditura con un sasso. I ferri ai piedi non preservano proprio da nulla; e s’è così, se essi sono inflitti al condannato ai lavori forzati unicamente per punizione, torno a domandare: possibile che si punisca un moribondo?» [1].
In infermeria il protagonista, per la prima volta da quando è entrato in reclusorio, fa i conti con la morte, e proprio con la morte di un detenuto, il giovane Michajlov, stroncato dalla tisi, si conclude il primo capitolo della seconda parte delle Memorie, seguita dal confronto, dinanzi al cadavere del forzato, tra il sottufficiale di picchetto e un detenuto, Čekunov; un confronto silenzioso eppure vibrante, soprattutto nella prospettiva del prigioniero, la cui battuta finale trafigge il narratore e il lettore particolarmente sensibile, immerso nella vicenda a tal punto da poter sfiorare il soldato e il detenuto, materializzatisi davanti ai suoi occhi: «Aveva anche lui una madre!». Il protagonista-narratore, colpito nel profondo da queste parole struggenti, si domanda perché Čekunov le abbia pronunciate e come gli siano venute in mente, ma non trova una risposta. Che esse rappresentino una dignitosa, ma potente protesta? Oppure un monito rivolto all’autorità, che tratti con rispetto la salma di un uomo, nonostante il delitto e il castigo pur sempre un uomo?
Il racconto del soggiorno in infermeria permette ad Aleksandr Petrovič-Dostoevskij di approfondire un tema fino a questo momento solamente sfiorato: il tema della punizione corporale, ovvero delle bastonate e delle vergate. Più volte nel corso delle Memorie si parla di una determinata manifestazione di «depressione di spirito» che colpisce alcuni detenuti alla vigilia dell’esecuzione della punizione corporale: per allontanare il momento del castigo l’imputato è capace di accoltellare un superiore o un compagno, non gli importa che lo puniranno ancora più severamente, ma solo che inizierà un nuovo processo e il castigo verrà posticipato di un paio di mesi. Perché nel momento in cui deve scontare la punizione corporale «il condannato viene […] assalito da una paura acuta, ma puramente fisica, involontaria e invincibile, che soffoca tutto l’essere morale dell’individuo» (272). Eppure nessun detenuto, ricevuto il castigo, e condotto subito dopo in infermeria, si lamenta del dolore, delle piaghe infuocate, neppure un gemito si diffonde in corsia, perché «il popolo sa sopportare il dolore». La punizione corporale può essere inflitta con i bastoni o con le verghe; queste ultime sono molto più dolorose e pericolose: «le verghe sono più tormentose dei bastoni. Irritano più fortemente, più fortemente agiscono sui nervi, li eccitano oltre misura, li scuotono oltre ogni possibilità di resistenza» (275). Insomma, quattrocento vergate hanno maggiori probabilità di uccidere un uomo che duemila bastonate. Queste pagine delle Memorie di una casa morta si configurano come una sorta di fenomenologia del castigo, in cui non mancano riflessioni di carattere generale, come quelle dedicate al piacere di fustigare:
«Ci sono delle persone simili a tigri assetate di sangue. Chi ha provato una volta questo potere, questa illimitata signoria sul corpo, il sangue e lo spirito di un altro come lui, fatto allo stesso modo, suo fratello secondo la legge di Cristo; chi ha provato il potere e la possibilità senza limiti di infliggere il supremo avvilimento a un altro essere che porta su di sé l’immagine di Dio, costui, senza volere, cessa in certo qual modo di esser padrone delle proprie sensazioni. La tirannia è un’abitudine; essa è capace di sviluppo, e si sviluppa fino a diventare malattia. Io sostengo che il migliore degli uomini può, in forza dell’abitudine, farsi ottuso e brutale fino al livello della bestia. Il sangue e il potere ubriacano: si sviluppano la durezza di cuore, la depravazione; all’intelligenza e al sentimento si fanno accessibili e infine riescono dolci le manifestazioni più anormali. L’uomo e il cittadino periscono nel tiranno per sempre, e il ritorno alla dignità umana, al pentimento, la rigenerazione diviene ormai quasi impossibile per lui. Inoltre l’esempio, la possibilità di siffatta licenza agisce anche su tutta la società contagiandola; un simile potere è tentatore. La società che guarda con indifferenza un tale fenomeno è già infetta essa stessa nelle sue fondamenta. Insomma il diritto alla punizione corporale concesso a un uomo su di un altro è una delle piaghe della società, è uno dei più forti mezzi per distruggere in essa ogni germe, ogni tentativo di civile libertà, ed è premessa sicura del suo immancabile e ineluttabile sfacelo» (275-276).
Sono righe fondamentali queste, ispirate da un profondo sentimento di giustizia, che va al di là, ben al di là del semplice umanitarismo. Chi scrive infatti non è un ridicolo intellettuale al calduccio della propria stanza, ma un uomo che ha vissuto la più dolorosa e crudele delle umiliazioni, la deportazione, la reclusione, i lavori forzati, che è stato costretto a trascorrere quattro anni della sua vita lontano dagli affetti e dalla vocazione letteraria, soprattutto dalla vocazione letteraria, e ha visto con i propri occhi il terrore di un detenuto prima di essere bastonato e il suo muto dolore, dignitosissimo, dopo aver ricevuto il castigo. Uscito dal reclusorio, di nuovo libero, Dostoevskij non dimentica, Dostoevskij non passa oltre come se nulla fosse stato, ma delle sofferenze, delle terribili sofferenze dei suoi compagni di prigionia si fa carico, dando voce ai loro lamenti, alle loro speranze, alle loro storie. Dostoevskij fa sì che tanto dolore non vada sprecato, e non solo con la scrittura delle Memorie di una casa morta, ma con la scrittura di ogni singolo libro successivo all’esperienza del carcere e dei lavori forzati.
In questa sorta di fenomenologia del castigo non può mancare un’analisi relativa ai carnefici carcerari, divisibili in due categorie, quelli volontari e quelli obbligati. In particolar modo, questi ultimi suscitano un «terrore superstizioso». Se, prima della punizione, il detenuto è preda della paura, una paura così forte e disperata da spingere persino qualche forzato a macchiarsi di un nuovo delitto pur di rimandare di un paio di mesi l’esecuzione della pena corporale (la «depressione di spirito» di cui abbiamo parlato in precedenza), il carnefice, al contrario, è eccitatissimo:
«il carnefice, prima che si inizi il castigo, si sente in uno stato d’animo eccitato, sente la propria forza, è consapevole di essere un dominatore; in quel momento egli è un attore; il pubblico lo ammira e ha orrore di lui, e naturalmente non senza delizia egli grida alla sua vittima, avanti al primo colpo: “Tienti bene, ti scotto!”: consuete e fatali parole in questo caso. È difficile immaginarsi fino a che punto sia possibile deformare la natura umana» (280).
Due uomini a confronto, l’uno legato, incatenato, prostrato ai piedi dell’altro, che si sforza di essere e di apparire all’altezza del proprio compito, atteggiandosi come un attore vanesio, poi un monito beffardo e infine una scarica di bastonate, di vergate: un’immagine terribile, frutto della volontà dell’autorità, ed è questo che fa più spavento. Alcuni tenenti poi si contraddistinguono per una sopraffina, quasi artistica crudeltà. È il caso del tenente Žerebjatnikov, sorta di «raffinatissimo gastronomo in materia punitiva. Egli amava, amava con passione, l’arte del punire e l’amava unicamente in quanto arte. Egli se ne deliziava e, come uno svanito patrizio, consumato dai piaceri, dei tempi dell’Impero romano, inventava varie raffinatezze, vari mezzi contro natura per rimescolare un poco e stuzzicare piacevolmente la sua anima sommersa dal grasso» (263). E così, inesauribile nella sua crudele inventiva di carnefice, Žerebjatnikov escogita centinaia di «scherzetti»: promette al detenuto di farlo bastonare leggermente, lo rassicura con dolci, affettuose, umane parole, esortando poi i soldati a picchiare il povero disgraziato con tutta la forza e scompisciandosi dalle risate per questa sua trovata:
«- Caccialo avanti! – grida con tutta la sua voce Žerebjatnikov. – Fagli bruciar la pelle! Dagliene, dagliene! Scottalo ben bene! Ancora, ancora! Più sode all’orfano, più sode al furfante! Mettilo giù, mettilo! – E i soldati menano botte con tutta la forza del braccio, gli occhi del poveretto mandano scintille, egli comincia a gridare, e Žerebjatnikov gli corre dietro lungo lo schieramento e sghignazza, sghignazza, si scompiscia dalle risa, si tiene i fianchi con le mani, non può nemmeno più raddrizzarsi, tanto che alla fine ti fa persin pietà, il poverino! E lui è felice, e lui ride, e solo di tratto in tratto il suo riso sonoro, robusto, rimbombante s’interrompe, e si sente di nuovo: – Dagliene, dagliene! Fagli bruciar la pelle, al furfante, scottalo bene, l’orfano!…» (265).
Un altro scherzetto: Žerebjatnikov convince il detenuto a correre, così la pena durerà meno, il povero disgraziato si dice d’accordo, rinfrancato dalla possibilità di abbreviare la punizione, ma crolla a terra quando non è ancora giunto alla quindicesima fila, «con un urlo, come falciato, come abbattuto da una palla. – No, signoria, è meglio secondo la legge, – dice sollevandosi lentamente da terra, pallido e sbigottito, e Žerebjatnikov, che già da prima ben conosceva tutto questo scherzo e come sarebbe finito, sghignazza, si sbellica dalle risa» (266). All’opposto il tenente Smekalov, di cui in reclusorio si ricordano con affetto e gratitudine anche le bastonate, perché «la nostra gente, come forse tutta la gente russa, era disposta a dimenticare lunghi tormenti per una sola parola affettuosa» (267).
In infermeria le ore più tristi sono quelle serali, al principio della notte, quando si viene rinchiusi in corsia e l’aria si fa presto, troppo presto mefitica, soffocante, irrespirabile insomma. In queste condizioni è difficile, se non addirittura impossibile prendere sonno, e allora si fantastica, o si ascoltano i racconti sussurrati da qualche detenuto ad un suo vicino compagno di sventura e d’insonnia. È proprio in una di queste occasioni che il protagonista ascolta il terribile racconto del marito di Akul’ka, finito in carcere per aver barbaramente trucidato la povera donna:
«Allora l’afferro per i capelli: le sue trecce erano così grosse, lunghe, me le avvolsi su una mano, poi la strinsi di dietro coi ginocchi da tutt’e due le parti, tirai fuori il coltello, le piegai la testa all’indietro e le menai un colpo di coltello alla gola. Come lei si mise a gridare, e il sangue spruzzò fuori, io gettai il coltello, la cinsi con le braccia per davanti, mi stesi a terra e l’abbracciai, e intanto grido sopra di lei e piango a dirotto; lei grida e io grido; lei trema tutta, si dibatte, e il sangue, il sangue mi spiccia addosso, e sul viso e sulle mani, a fiotti, a fiotti» (306).
Una scena terribile, suggellata, come l’intero racconto, da un’altra scena altrettanto terribile, raccontata dal compagno del marito di Akul’ka, una sorta di morale violenta e bestiale:
«Ehm… Certamente, se non si picchia non si fa nulla di buono […]. Però anche tu, ragazzo, […] ti sei dimostrato molto sciocco. Anch’io una volta sorpresi mia moglie così con un amante. Allora la chiamai nella rimessa e piegai in due una briglia. – A chi, – dico, – fai giuramenti? A chi fai giuramenti? – E la picchiai, la picchiai, e continuai a picchiarla con la briglia per un’ora e mezzo, e infine lei mi grida: – Laverò i tuoi piedi, e poi berrò quell’acqua. – Si chiamava Ovdot’ja» (307).
Dostoevskij non ricorre mai all’umana brutalità, all’umana bestialità per un mero compiacimento letterario o per il gusto dell’orrido, mai. Ogni singola pagina di Dostoevskij si impone come un monito e riguarda tutti noi, nessuno escluso, perché, come scrive giustamente Affinati, «ci fa capire che il caos non è fuori di noi: appare piuttosto celato dentro la personalità di ognuno. Al termine dei suoi romanzi [ma anche durante, mi permetto di aggiungere] spunta spesso una vocina misteriosa che fa così: stai attento, questo potrebbe capitare anche a te. Nessuno può dire: io non c’entro. Quando un uomo commette un delitto, piccolo o grave, si accende una luce rossa intermittente che non riguarda soltanto lui» [2]. Siamo tutti coinvolti e tutti responsabili, come dichiara Tichon a Stavrogin nel capitolo maledetto dei Demòni: «Peccando, ogni uomo pecca contro tutti gli altri e ogni uomo è in qualche modo colpevole dei peccati altrui. Non esiste un peccato isolato» [3]. Dostoevskij va sempre al di là del mero fatto di cronaca nera, la sua lettura non lo esaurisce, ma lo universalizza, elevandolo a monito, vedendo riflesso in esso il destino dell’intero genere umano. Etichettare una tragedia, categorizzarla, affibbiargli una definizione equivale a depotenziarla, a renderla in un certo senso più rassicurante. Il male non si può etichettare, categorizzare, definire; il male è il male, la violenza è violenza, senza sciocche distinzioni di genere, e rispondono in ultimo a quella atavica vocazione alla brutalità, alla bestialità propria di ogni essere umano e che Dostoevskij porta in superficie nel tentativo di combatterla e di sconfiggerla, con l’ausilio di Cristo, il suo Credo [4]. Lo scrittore russo porta alla luce il male – e si pensi ai delitti di Raskol’nikov [5], di Rogožin [6], di Verchovenskij, di Smerdjakov [7], alle violenze di Svidrigajlov e di Stavrogin, ai suicidi di questi ultimi e di Kirillov [8] – non per sovraccaricare di pathos nero i propri romanzi oppure per compiacere quel disgustoso gusto dell’orrido che si sviluppa nella modernità e trionfa nel nostro stupido e incosciente tempo, ma per annientarlo, mettendo in guardia ogni uomo, e innanzitutto da se stesso. È un fortissimo, inossidabile senso morale il motore dell’attività letteraria, e pubblicistica, di Dostoevskij, soprattutto dopo l’esperienza di vita della katorga.
Non tutte le stagioni vengono percepite, vissute allo stesso modo dai detenuti. In particolar modo, la primavera fa su di essi un grande effetto, rinforzando quel sentimento di nostalgia della libertà mai sepolto, ma rinvigorito dalla bella stagione simbolo, per antonomasia, del ritorno alla vita, della ri-nascita e della resurrezione:
«Le belle giornate che sopravvengono agitano anche l’uomo in catene; fanno germogliare in lui non so che desideri, aspirazioni, angosce. Pare che la nostalgia della libertà la si senta ancora più forte sotto i vividi raggi del sole che in una brutta giornata d’inverno o d’autunno, e questo lo si nota in tutti i detenuti. Essi hanno bensì l’aria di esser lieti delle giornate serene, ma nello stesso tempo cresce in loro una specie d’impazienza, d’impulsività. Davvero, ho notato che in primavera gli alterchi nel nostro reclusorio sembravano farsi più frequenti. Più spesso si udivano strepiti, grida, baccano, più spesso nascevano beghe; in pari tempo ti accadeva di sorprendere tutt’a un tratto in qualche posto, sul lavoro, uno sguardo pensoso e ostinato teso verso lo sfondo azzurrino, verso un qualche punto laggiù, sull’altra sponda dell’Irtyš, dove incomincia, come un’immensa tovaglia, lunga millecinquecento verste, la libera steppa kirghiza; o sorprendervi qualcuno a sospirare profondamente, con tutto il petto, come se l’individuo anelasse a respirare quell’aria lontana e libera e a dare così sollievo all’anima oppressa, incatenata. “Ahimè!”, dice alla fine il detenuto e a un tratto, come scotendo da sé le fantasticherie e l’esitazione, impaziente e arcigno, dà di piglio alla zappa o ai mattoni che bisogna trasportare da un luogo a un altro. Dopo un minuto egli già dimentica la sua improvvisa sensazione e comincia a ridere o a ingiuriare, secondo il suo carattere; oppure di colpo, con insolita foga, del tutto sproporzionata al bisogno, si applica al suo compito, se gli è stato assegnato, e si mette a lavorare, a lavorare con tutte le forze, come se volesse soffocare in sé, col peso del lavoro, qualcosa che lo urge e l’opprime dal di dentro. Tutta questa è gente vigorosa, per la maggior parte nel fiore degli anni e delle forze… Pesanti sono i ferri ai piedi in questa stagione! Io non faccio della poesia in questo momento e sono sicuro che la mia osservazione è giusta. A parte il fatto che al caldo, in mezzo al sole vivo, quando, con tutta l’anima, con tutto l’essere tuo, odi e senti intorno a te la natura che rinasce con immenso vigore, ancora più gravi ti diventano la chiusa prigione, la scorta e l’altrui volontà; a parte ciò, in questa stagione primaverile comincia per tutta la Siberia e per tutta la Russia, con l’apparire della prima allodola, il vagabondaggio: le creature di Dio fuggono dai reclusori e si rifugiano nelle foreste. Dopo aver provato la tomba soffocante, i tribunali, i ferri ai piedi e i bastoni, esse vagabondano in piena balia di se stesse là dove vogliono, dove la vita è più attraente e più agevole; bevono e mangiano dove e quello che capita, quello che manda Iddio, e la notte si addormentano placidamente dove che sia, in un bosco o in un campo, senza grandi fastidi, senza l’angoscia del carcere, come gli uccelli della foresta, dicendo addio per la notte alle sole stelle del cielo, sotto l’occhio di Dio» (308-309).
Anche il protagonista e narratore delle Memorie, Aleksandr Petrovič, subisce l’influsso negativo della primavera, con il malumore prodotto dalla bella stagione acuito dalla sua condizione di escluso, di straniero all’interno del reclusorio:
«La primavera esercitava il suo influsso anche su di me. Mi ricordo che a volte guardavo avidamente dalle fessure tra i pali e rimanevo in piedi a lungo, con la testa appoggiata al nostro steccato, osservando, ostinato e insaziabile, come verdeggiasse l’erba sul bastione della nostra fortezza e come sempre più carico si facesse l’azzurro del cielo lontano. La mia inquietudine e la mia angoscia crescevano di giorno in giorno e il reclusorio mi diventava sempre più odioso. L’odio che io, come nobile, ebbi costantemente a sperimentare nel corso dei primi anni da parte dei detenuti diveniva per me intollerabile e mi avvelenava tutta l’esistenza. In quei primi anni andavo spesso, senza malattia alcuna, a mettermi in letto all’infermeria unicamente per non stare nel carcere, pur di liberarmi da quel caparbio odio generale, che nulla placava. “Voi avete il becco di ferro, voi ci avete beccati a morte!”, ci dicevano i detenuti, e quanto io invidiavo di solito la semplice gente del popolo che arrivava al reclusorio! Quelli si facevano subito amici con tutti. E perciò la primavera, il fantasma della libertà, la letizia universale della natura avevano in me, in certo qual modo, anche una triste e irritante risonanza» (313).
Torna dunque, ancora una volta, l’ennesima, uno dei temi principali delle Memorie, l’impossibilità, per il nobile, di integrarsi nel carcere. L’odio popolare nei confronti della classe dominante è ferreo e implacabile, atavico di fatto dopo secoli di sfruttamento, di beccate mortali. I detenuti di origine popolare si arrestano alla semplice provenienza sociale, non si inoltrano nell’uomo; nella loro valutazione dell’individuo si fermano alla superficie. Nobile=nemico, è questa la semplice equazione sulla quale basano il loro giudizio, la valutazione di un uomo, emarginandolo oppure rivolgendosi a lui con profondo e irriducibile disprezzo. La stragrande maggioranza dei detenuti nobili reagiscono rinserrandosi in se stessi, non Dostoevskij, che verso il popolo si prostra, accogliendolo in sé e facendone, come già ribadito più volte nel corso di questa ri-lettura dell’opera, una straordinaria forza cristiana.
Tra i lavori forzati più apprezzati, diciamo così, dal protagonista, e dunque anche da Dostoevskij, vi è il trasporto dei mattoni. Un lavoro duro, faticoso, ma che rafforza e forgia il corpo del detenuto affatto avvezzo ad una simile attività, perché la «forza fisica era necessaria in galera non meno di quella morale per sopportare tutti i disagi materiali di quella vita maledetta» (316). Inoltre il trasporto dei mattoni si svolge sulla riva del fiume Irtyš, il luogo dal maggiore valore simbolico all’interno delle Memorie di una casa morta:
«Io parlo così spesso di questa riva unicamente per il fatto che da essa soltanto era visibile il creato, il puro, sereno orizzonte, con le libere steppe disabitate, che mi facevano sempre una strana impressione per la loro deserta immensità. Su quella riva soltanto si poteva volgere il dorso alla fortezza e non più vederla. Tutti gli altri luoghi dei nostri lavori erano nel forte o in sua prossimità. Fin dai primi giorni io avevo odiato quella fortezza e specialmente taluni dei suoi edifici. La casa del nostro maggiore di piazza mi pareva non so che luogo maledetto e ripugnante, e io la guardavo con odio ogni qual volta le passavo dinanzi. Sulla riva del fiume invece ci si poteva abbandonare all’oblio, e tu guardavi quella immensa distesa deserta come un recluso dalla finestra della sua prigione guarda la sua libertà. Lì per me tutto era simpatico e caro: e il fulgido sole ardente nell’azzurro senza fondo del Cielo, e la canzone lontana che giungeva dalla riva kirghiza. Se vi figgevi a lungo lo sguardo, finivi col discernere la misera, affumicata tenda di un qualche nomade povero; discernevi presso la tenda un po’ di fumo e la kirghiza che là si affaccendava intorno ai suoi due montoni. Tutto ciò era povero e selvaggio, ma libero. Nell’aria azzurra trasparente scorgevi un qualche uccello e ne seguivi a lungo, ostinatamente, il volo: ecco che ha sbattuto le ali sopra l’acqua, eccolo scomparso nell’azzurro, eccolo mostrarsi di nuovo come un balenante puntino. Finanche il povero, stentato fiorellino che trovai al principio di primavera in uno spacco della riva sassosa, anche quello attrasse in certo qual modo morbosamente la mia attenzione» (317).
Sull’importanza straordinaria dell’elemento paesaggistico all’interno delle Memorie di una casa morta Bazzarelli ha scritto parole fondamentali: «Il carcere è quanto di più innaturale ci possa essere, e quindi l’antitesi carcere-paesaggio assume una rilevanza enorme. Il paesaggio sembra conferire alla narrazione della sofferenza, della crudeltà, della rassegnazione, come un rifugio, qualche cosa di puro, di umano, di libero e gioioso» [9]; «La riva del grande fiume siberiano è il simbolo-limite che separa il mondo dei forzati dal mondo esterno. […] E il valore simbolico dell'”altra riva” va ben oltre […] il dato emotivo, fisico, fantastico che si trova nelle Memorie. Ciascuna persona umana, tutti, tutti hanno nel profondo dell’anima l’altra riva del fiume Irtyš» [10]. E puntualmente Bazzarelli ricorda come questa simbolica e poetica riva torni in una delle scene memorabili, indimenticabili del primo dei quattro maggiori romanzi dostoevskiani, Delitto e castigo, la scena della definitiva resurrezione di Lazzaro-Raskol’nikov, in cui il protagonista scopre finalmente l’amore per quella divina creatura che è Sonja:
«La giornata s’annunziava serena e tiepida. Alle sei del mattino egli s’avviò verso la riva del fiume, dove in una baracca era stato impiantato un forno per la lavorazione dell’alabastro. Furono mandati lì solamente tre operai. Uno di essi, accompagnato dal guardaciurma, andò in fortezza a cercare uno strumento; l’altro cominciò a preparar la legna per scaldare il forno. Raskòlnikov uscì dalla baracca, e, sedutosi su alcune travi accatastate, si mise a contemplare il fiume largo e deserto. Da quell’altra sponda si vedeva un gran tratto del paesaggio, e di lontano, dalla riva opposta, venivano alcune note di una canzone. Là, nell’immensa steppa inondata di sole, spiccavano come piccoli punti neri le tende dei nomadi. Là c’era la libertà, là vivevano altri uomini, molto diversi da quelli ch’egli vedeva ora di solito, là il tempo sembrava essersi fermato fin dall’epoca di Abramo e delle sue gregge. Raskòlnikov, seduto sulle travi, teneva gli occhi fissi su quella lontana visione. Non pensava a nulla, ma nell’animo suo vibrava un’angoscia indefinita, tormentosa.
A un tratto sentì la presenza di Sònja. Ella gli s’era avvicinata, silenziosamente, e s’era seduta affianco a lui. L’aria mattutina non s’era ancora intiepidita. Sònja aveva indosso la sua misera mantiglia e lo scialletto verde. Sul suo viso si vedevano ancora le tracce della malattia: s’era fatto più magro, più pallido, più affilato. Sorrise a Raskòlnikov con amabile letizia, ma come al solito gli tese la mano timidamente.
Sempre gli tendeva timidamente la mano, qualche volta non gliela tendeva addirittura, quasi temesse di vederla respingere. Sembrava che egli la prendesse con ripugnanza. A volte, quando Sònja andava a vederlo, non le diceva in tutto il tempo della visita neppure una parola. Spesso la fanciulla s’accomiatava con le labbra tremanti, con una profonda tristezza nell’animo. Ma ora le loro mani non si disgiungevano; egli le gettò un fugace, silenzioso sguardo e chinò il capo. Erano soli, nessuno li vedeva. Il guardiano in quel momento s’era voltato dall’altra parte.
A un tratto parve a Raskòlnikov che una mano invisibile l’avesse afferrato e gettato ai piedi di lei. Piangendo le abbracciò le ginocchia. Dapprima ella s’impaurì, le si scolorò il viso. Balzò in piedi e lo guardò tremando. Ma comprese subito il significato di quelle lacrime. Nei suoi occhi brillò una felicità infinita; ormai non dubitava più dell’amore di lui; sentiva che quell’amore era immenso e che era giunto quel tale momento…
Volevano parlare, ma non poterono. Nei loro occhi luccicavano le lacrime. Erano tutt’e due pallidi e magri, ma in quei visi smunti e scolorati già splendeva l’aurora d’un avvenire rinnovellato, di una completa risurrezione per una nuova vita. Li aveva risuscitati l’amore, innumerevoli fonti vivificatrici erano nel cuore di Rodiòn per il cuore di Sònja.
Si prefissero di aspettare e di aver pazienza. Avevano ancora sette anni di attesa; quanti intollerabili dolori, quanta felicità sconfinata promettevano quegli anni! Ma egli era risuscitato, e lo sapeva, lo sentiva in tutto il suo essere, e Sònja, Sònja viveva della vita di lui!» [11]
Ecco dunque che nel vasto e variegato universo dostoevskiano la riva del fiume siberiano, che separa il carcere dal mondo libero, misero, d’accordo, inospitale – e non solo in riferimento alla steppa kirghiza -, ma libero, si impone come supremo simbolo di rinascita e di speranza, un sentimento, il secondo, e una possibilità, la prima, che Dostoevskij riserva ad ogni uomo, anche se si tratti di un pluriomicida come Raskol’nikov. Tale è il suo sentimento di giustizia!

Il fiume Irtyš nell’oblast’ di Omsk
La bella stagione ha effetti negativi non solo sul piano spirituale, ma anche sul piano meramente materiale. Nelle camerate l’afa è insopportabile e si dorme poco, anche a causa delle pulci, che si moltiplicano:
«Dopo le nove tutti i nostri venivano contati, fatti entrare nelle camerate e rinchiusi per la notte. Le notti erano brevi; li si svegliava prima delle cinque del mattino e nessuno si addormentava mai prima delle undici di sera. Sempre, fino a quell’ora, continuavano l’andirivieni, i discorsi e qualche volta, come già d’inverno, c’erano anche i majdàn. Durante la notte, il caldo e l’afa si fanno insopportabili. Sebbene la frescura notturna spiri da una finestra il cui telaio è sollevato, i detenuti si rivoltano sui loro tavolacci tutta la notte, come in delirio. Le pulci pullulano a miriadi. Esse vivono da noi anche durante l’inverno, e in più che bastevole quantità, ma, a cominciare dalla primavera, si moltiplicano in proporzioni tali che io, pur avendone già sentito parlare, ma non avendone fatto diretta esperienza, non ci volevo credere. E quanto più si va verso l’estate, tanto più diventano rabbiose. Alle pulci, è vero, ci si può abituare, io stesso ne ho fatto la prova; ma è pur sempre una cosa penosa. Ti sfiniscono al punto che ti pare alla fine di avere la febbre e senti tu stesso che non dormi, ma deliri soltanto. Finalmente, quando proprio verso il mattino si calmano, una buona volta, anche le pulci, come tramortite, e quando, col fresco mattutino, ti sembra di potere in realtà dolcemente prender sonno, echeggia tutt’a un tratto il rullo spietato del tamburo al portone del reclusorio e comincia la veglia. Tu ascolti, maledicendo, mentre ti avvolgi nella pelliccia corta, quei suoni forti e distinti, come se tu lo contassi, e intanto, attraverso il sonno, ti si insinua in capo l’intollerabile pensiero che così sarà anche domani, e posdomani, e per parecchi anni di seguito, fino al giorno della libertà. Ma quando mai, tu pensi, verrà questa libertà, e dov’è essa? E intanto bisogna svegliarsi; incomincia il solito andare e venire, il trambusto… gli uomini si vestono; si affrettano per andare al lavoro» (323-324).
Insomma, una ulteriore punizione corporale, e tra le peggiori, perché priva i detenuti persino della consolazione del sonno.
Un anno, un intero anno è necessario al protagonista delle Memorie per familiarizzare con la condizione di recluso, di forzato. L’anno più difficile della sua vita, come lo definisce egli stesso, e di cui ricorda ogni singola ora (su questi primi dodici mesi di reclusione e di lavori forzati si fonda, di fatto, l’opera), dominato dall’angoscia, dall’odio e dall’invidia verso i compagni di sventura:
«Li invidiavo, perché essi erano purtuttavia fra i loro simili, fra camerati, e si comprendevano a vicenda, sebbene, in fondo, a tutti loro, come a me, fosse venuto a noia e riuscisse disgustoso quel cameratismo sotto le fruste e i bastoni, quella comunità coattiva, e ognuno dentro di sé distogliesse lo sguardo da tutti gli altri per guardare altrove. Torno a ripeterlo, questa invidia che io provavo nei momenti di rabbia aveva il suo legittimo fondamento. Hanno infatti sicuramente torto quelli che dicono che per un nobile, un uomo istruito eccetera, la vita nelle nostre galere e nei nostri reclusori è altrettanto penosa quanto per qualunque contadino. Io so, io ho udito parlare di questa supposizione negli ultimi tempi, io ne ho letto. Il fondamento di questa idea è giusto, è umano. Tutti sono persone, tutti sono uomini. Ma è questa un’idea troppo astratta. Si sono perdute di vista moltissime condizioni pratiche che non si possono capire se non nella realtà stessa. Io non dico questo perché il nobile e l’uomo istruito abbiano un sentire più raffinato, più acuto, perché siano più evoluti. È difficile attribuire all’anima e al suo sviluppo un determinato livello. Perfino l’istruzione in questo caso non è un criterio. Io per il primo sono pronto ad attestare che, anche in mezzo alla maggiore ignoranza e al maggiore avvilimento, ho trovato fra questi sofferenti i tratti del più fine sviluppo psichico. […]
Non dico nulla anche del cambiamento di abitudini, di tenor di vita, di cibo eccetera, che per un uomo dei ceti sociali superiori è naturalmente più gravoso che per il contadino, il quale non di rado in libertà pativa la fame e nel reclusorio, per lo meno, mangiava a sazietà. Anche su questo non discuterò. […]
No, più importante di tutto questo è il fatto che ognuno dei nuovi venuti al reclusorio, dopo due ore dall’arrivo, diventa tale e quale come tutti gli altri, si sente a casa sua e padrone, nella comunità del carcere, con diritti pari a quelli di ogni altro. Tutti lo possono capire ed egli stesso capisce tutti, è noto a tutti, e tutti lo considerano come uno dei loro. Non così accade all’uomo ben nato, al nobile. Per giusto, buono, intelligente che egli sia, durante interi anni, in massa, l’odieranno e lo disprezzeranno; non lo si capirà e, soprattutto, non si avrà fiducia in lui. Egli non è per loro né amico né compagno, e anche se otterrà alla fine, con gli anni, che non lo si offenda, tuttavia non sarà dei loro e avrà perenne, tormentosa consapevolezza del proprio isolamento e della propria solitudine. Questo isolamento avviene talora senza alcun malanimo da parte dei detenuti, ma così, inconsciamente. Non è dei loro, e basta. Non c’è nulla di più orribile del non vivere nel proprio ambiente» (350-352).
Il recluso istruito, di nobili origini, oltre alla privazione della libertà e ai lavori forzati, è dunque colpito dalla pena, dal castigo dell’isolamento, della solitudine, invincibili in un ambiente profondamente popolare che esclude automaticamente, rigetta da sé l’individuo che non gli appartiene e che è costretto a sopravvivere, a espiare la propria colpa come un corpo estraneo, dolorosamente fuori di posto, per quanto «giusto, buono, intelligente». Di questo isolamento, nella sua esperienza di prigioniero, di deportato, di forzato, Dostoevskij stesso, come mostra la lettera al fratello Michail riportata nell’introduzione [12], ne soffrì moltissimo, più dei ferri, della sporcizia, del gelo, eppure, verso quel popolo che lo rifiuta, lo isola, lo insulta, si tende con tutto se stesso, di peso, si prostra al suo cospetto. A quegli uomini che ridono di lui, che lo scherniscono, lo odiano, lo disprezzano, Dostoevskij non volta le spalle, ma fa di essi l’arma di Cristo, attraverso la quale poter migliorare la Russia e l’intero Occidente malato di ateismo e di nichilismo. Delle parole contadino e Russia ortodossa fa i suoi fondamenti «essenziali e primari», sui quali basare la rinascita di un paese e di un mondo sul quale incombe minaccioso lo spettro dell’anticristo: il socialismo [13].
Dopo il primo anno di reclusione dominato da sentimenti nocivi, infausti, come l’angoscia e l’invidia, il protagonista delle Memorie trova nell’appassionato desiderio di resurrezione e nell’esame accurato e implacabile della sua vita precedente la voglia di rimettersi in gioco, di ricominciare a lottare, la forza di tirare avanti nella speranza di un avvenire migliore, insomma, caratterizzato dalla libertà e da uno slancio vitale nuovo, inedito, impreziosito dall’esperienza-limite della katorga, della reclusione all’interno di un ambiente ostile e straniero:
«Ricordo che soltanto un appassionato desiderio di resurrezione, di rinnovamento, di nuova vita mi diedero la forza di aspettare e di sperare. E io riuscii finalmente a farmi forza: aspettavo, contavo ogni giorno e, nonostante che ne rimanessero ancora mille, contavo con delizia ciascuno di essi, lo accompagnavo, lo sotterravo e, con lo spuntare di un nuovo giorno, ero lieto che ne restassero non più mille, ma novecentonovantanove. Ricordo che in tutto quel tempo, nonostante le centinaia di compagni, io fui sempre in una tremenda solitudine e finii con l’amare tale solitudine. Moralmente solo, passavo in rassegna tutta la mia vita trascorsa, analizzavo ogni cosa fino ai più minuti particolari, meditavo sul mio passato, mi giudicavo da me con implacabile severità, e in qualche ora benedicevo finanche il destino per avermi mandato quella solitudine, senza di cui non sarebbero stati possibili né quel processo fatto a me stesso, né quella rigorosa rassegna della vita precedente. E quali speranze fecero allora battere il mio cuore! Io pensai, io stabilii, io mi giurai che nella mia vita avvenire non ci sarebbero più stati né gli errori, né i traviamenti che c’erano stati prima. Io mi tracciai il programma di tutto il mio futuro e mi proposi di seguirlo, fermamente. In me era rinata una cieca fede che avrei adempiuto tutto ciò che potevo adempierlo… Io attendevo, io invocavo al più presto la libertà: volevo mettermi alla prova daccapo, in una nuova lotta. Talora mi afferrava una febbrile impazienza… Ma mi è doloroso ricordarmi ora del mio stato d’animo a quel tempo. Naturalmente tutto questo riguarda me solo… Ma ho scritto questo appunto perché mi pare che ognuno lo capirà, perché a ognuno dovrebbe accadere la stessa cosa, se egli capitasse in prigione per un certo tempo nel fiore degli anni e delle forze» (391-392).
Il carcere non dovrebbe annientare un uomo, ma riportarlo alla vita, ed è quanto accade, ancor più che ad Aleksandr Petrovič, al suo creatore, Dostoevskij. Per lui quella della katorga è un’esperienza drammatica, dolorosa, terribile, ma, al tempo stesso, decisiva, formativa, necessaria. Dostoevskij si rende conto di tutti gli errori commessi e rinasce, rinasce come uno degli scrittori più grandi di sempre.
Negli ultimi tempi della reclusione, quando la pena è ormai agli sgoccioli e il giorno della liberazione, della resurrezione si avvicina, le maglie della repressione si allentano. Al protagonista viene finalmente concesso di ricevere libri e riviste, di riallacciare dunque il rapporto con il mondo, bruscamente interrotto anni prima:
«Erano già parecchi anni che non avevo letto nemmeno un libro, e mi è difficile dar conto di quella strana e insieme eccitante impressione che produsse in me il libro letto in reclusorio. Mi ricordo che cominciai a leggerlo di sera, quando chiusero la camerata, e lo lessi per tutta la notte fino all’alba. Era un fascicolo di rivista. Come se fosse giunto a volo fino a me un messaggio dell’altro mondo, la vita precedente mi sorse tutta dinanzi chiara e luminosa, e da ciò che avevo letto mi sforzavo di indovinare questo: sono io rimasto molto addietro a questa vita? quante vicende han vissuto quei di laggiù in mia assenza? che cosa li agita ora? quali questioni li occupano ora? Io mi attaccavo alle parole, leggevo tra le righe, cercavo di trovarci un senso misterioso, degli accenni al passato; andavo in cerca delle tracce di ciò che una volta, ai miei tempi, aveva commosso gli uomini, ed era per me tanto triste sentire ora, all’atto pratico, fino a che punto io fossi un estraneo nella nuova vita, fino a che punto fossi divenuto un brandello tagliato via. Bisognava abituarsi alle novità, far conoscenza con la nuova generazione» (408).
Da queste righe, dedicate al momento in cui il protagonista, finalmente, riallaccia i rapporti con il mondo perduto e con la vita, emerge come la liberazione sia per il detenuto davvero una sorta di seconda nascita, e non solo metaforicamente, ma praticamente. Egli deve fare i conti con una nuova realtà, abitata da una nuova generazione, procedendo di trauma in trauma, diciamo così. Riallacciare i rapporti con il mondo, ancora in carcere, ma ormai nell’imminenza della fine della reclusione, è l’ultimo passo prima della liberazione, della «risurrezione dai morti»:
«Alla vigilia dell’ultimissimo giorno, al crepuscolo, io feci per l’ultima volta, lungo la palizzata, il giro di tutto il nostro reclusorio. Quante migliaia di volte avevo fatto il giro di quella palizzata in tutti quegli anni! Lì, dietro le baracche, avevo vagato nel primo anno dei miei lavori forzati solo, derelitto, accasciato. Mi ricordo come contassi allora quante migliaia di giorni mi restavano da passare. Signore Iddio, da quanto tempo è accaduto ciò! Ecco, qui, in quest’angolo, visse in prigionia la nostra aquila; ecco, qui m’incontrava spesso Petrov. Anche ora egli non si staccava da me. Accorreva e, come indovinando i miei pensieri, camminava accanto a me in silenzio e come se si meravigliasse di qualche cosa tra sé. Io dicevo mentalmente addio a queste costruzioni di travi annerite delle nostre baracche. Che impressione ostile mi avevano fatto allora, nei primi tempi! Anch’esse dovevano ora essere invecchiate in confronto di allora; ma io non potevo accorgermene. E quanta giovinezza era stata sepolta inutilmente tra queste pareti, quante grandi forze erano qui perite invano! Bisogna pure dir tutto: questa gente era pur gente straordinaria. Essa è pure, forse, la gente più capace, più forte di tutta la gente nostra. Ma sono perite invano delle forze possenti, sono perite in modo anormale, illegale, irrevocabile. E chi ne ha colpa?
Proprio così, chi ne ha colpa?
Il mattino seguente, per tempo, ancora prima dell’uscita per andare al lavoro, quando appena cominciava ad albeggiare, io feci il giro di tutte le camerate, per salutare tutti i detenuti. Molte mani callose, forti si tesero gentilmente verso di me. Taluni le stringevano proprio da compagni, ma questi erano pochi. Gli altri capivano ormai benissimo che ora sarei diventato un uomo tutto diverso da loro. Sapevano che in città avevo una conoscenza, che ora me ne sarei andato di qui verso i signori e mi sarei messo a sedere accanto a quei signori come un uguale. Capivano ciò e mi salutavano, sia pure gentilmente, sia pure affabilmente, ma in ben altro modo che come un compagno, bensì come un signore. Taluni mi voltavano le spalle e, ruvidi, non rispondevano al mio saluto. Qualcuno mi guardò perfino con una specie di odio.
Rullò il tamburo e tutti si avviarono al lavoro, ma io rimasi in casa. Sušilov quella mattina si era alzato quasi prima di tutti gli altri e si affaccendava del suo meglio per fare in tempo a prepararmi il tè. Povero Sušilov! Egli si mise a piangere, quando gli regalai la mia roba smessa di detenuto, le camicie, i reggicatene e un po’ di denaro. – Non questo, non questo m’importa! – egli diceva frenando a stento il tremito delle labbra, – se sapeste che cosa è per me perdervi, Aleksandr Petrovič! Con chi rimarrò io qui, senza di voi? – Per un’ultima volta mi accomiatai anche da Akim Akimyč.
– Ecco, presto sarà la vostra volta! – gli dissi.
– Io dovrò restar qui ancora a lungo, molto a lungo, – egli mormorava stringendo la mia mano. Io mi gettai al suo collo e ci baciammo.
Una diecina di minuti dopo l’uscita dei forzati, uscimmo anche noi dal reclusorio, per non tornarci mai più, io e il mio compagno, col quale ero giunto. Bisognava andare direttamente alla fucina, per farci sferrare. Ma non ci accompagnava più il soldato col fucile: ci andammo con un sottufficiale. Ci tolsero i ferri i nostri stessi detenuti, nell’officina del genio. Io aspettai un poco, mentre sferravano il mio compagno, poi mi accostai io stesso all’incudine. I fabbri mi fecero voltare col dorso verso di loro, sollevarono di dietro il mio piede, lo posarono sull’inducine. Essi si affannavano, volevano fare con abilità, nel miglior modo.
– La ribaditura, per prima cosa gira la ribaditura! – comandava il più anziano, – tienla ferma, ecco così, bene… Ora batti col martello…
I ferri caddero. Io li sollevai. Volevo tenerli un momento in mano, dar loro un ultimo sguardo. Ero come meravigliato che un istante prima fossero sulle mie gambe.
– Be’, andate con Dio! Con Dio! – dicevano i detenuti con voci a scatti, rudi, ma che parevano contente di non so che cosa.
Sì, con Dio! La libertà, una nuova vita, la risurrezione dai morti…
Che gran bel momento!» (410-412)
Dostoevskij è uno di quegli scrittori in cui l’esperienza esistenziale ha un’incidenza fondamentale nella formazione del pensiero e nella creazione dell’opera letteraria (nell’ambito del panorama filosofico-letterario italiano penso a Dante, Tasso, Leopardi, Primo Levi, tanto per citare i casi più eclatanti). Per questo motivo, anche e forse soprattutto per questo motivo, le Memorie di una casa morta, «uno dei libri più umani che siano stati scritti» [14], come lo definì Nietzsche in una lettera a Peter Gast del 7 marzo 1887, rielaborazione artistica dei quattro anni di katorga trascorsi in Siberia, sorta di doloroso laboratorio psicologico interiore ed esteriore decisivo nella formazione dell’enorme scrittore russo, occupano una posizione di assoluta rilevanza all’interno della produzione dostoevskiana. È certo, senza l’esperienza di vita del bagno penale, qui rievocata, Dostoevskij non sarebbe diventato ciò che è diventato e che resterà fino all’estinzione del genere umano: uno degli scrittori più grandi di sempre; il più grande, secondo il mio insignificante parere.
NOTE
[1] Fëdor Dostoevskij, Memorie di una casa morta, traduzione di Alfredo Polledro, Rizzoli, Milano 2013, pp. 248-249.
[2] Eraldo Affinati, Il peso dell’altro ne I fratelli Karamazov, in Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 12.
[3] Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Giovanni Buttafava, Rizzoli, Milano 2006, p. 772. Per un approfondimento sul romanzo rimando agli articoli Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parte, Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Seconda parte.
[4] «Questo Credo è molto semplice, e suona così: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c’è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità» (Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 51).
[5] Per un approfondimento sul primo dei quattro maggiori romanzi di Dostoevskij rimando all’articolo Delitto e castigo, dalla dialettica alla vita.
[6] Per un approfondimento sul secondo dei quattro maggiori romanzi di Dostoevskij rimando all’articolo L’idiota, il fallimento della bellezza.
[7] Per un approfondimento sull’illegittimo Karamazov rimando all’articolo Smerdjàkov, il contemplatore. Per un approfondimento sull’ultimo romanzo di Dostoevskij rimando agli articoli I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Prima parte, Seconda parte.
[8] Per un approfondimento sul personaggio dei Demòni rimando all’articolo Aleksèj Niljč Kirillov, l’Uomo-Dio.
[9] Eridano Bazzarelli, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, Memorie di una casa morta, cit., p. XVIII.
[10] Ivi, p. XX.
[11] Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, traduzione italiana di Vittoria Carafa de Gavardo, in Fëdor Dostoevskij, Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, pp. 459-460.
[12] Per la lettura dell’epistola rimando all’articolo Dostoevskij e l’esperienza di vita della katorga: lettura delle «Memorie di una casa morta». Introduzione.
[13] «Lei ha perfettamente ragione di concludere che io scorgo la causa del male nella miscredenza e penso che chi nega il principio nazionale nega anche la fede. E da noi è proprio così, giacché tutto il nostro carattere nazionale è fondato sul cristianesimo. Le parole contadino e Russia ortodossa costituiscono i nostri fondamenti essenziali e primari. Da noi un russo che rinnega il principio nazionale (e ce ne sono molti) è immancabilmente ateo o indifferente. E viceversa: qualsiasi miscredente o indifferente non è assolutamente in grado di comprendere né il popolo russo né il principio nazionale russo. Il problema più importante oggi è questo: come fare per costringere la nostra intelligencija a convenire su questo? Si provi a dire una parola su questo: o la divoreranno o la considereranno un traditore. Ma traditore nei confronti di chi? Nei loro confronti, e cioè nei confronti di qualcosa che sta tra le nuvole e per il quale è perfino difficile trovare un nome, giacché essi stessi non sono in grado di trovare un nome con cui chiamarsi. O forse traditore nei confronti del popolo? No, questo no, allora preferisco restare con il popolo, giacché soltanto da esso ci si può aspettare qualcosa, e non certo dall’intelligencija russa, che nega il popolo e non è neppure intelligente» (Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, cit., pp. 163-164).
[14] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 139.