«Non molto possono insegnare al popolo i nostri sapienti. Dirò anzi positivamente che, al contrario, essi stessi devono ancora imparare da lui».
Fëdor Dostoevskij, «Memorie di una casa morta».
Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1849 Dostoevskij, insieme con gli altri componenti del circolo fourierista Petraševskij, viene arrestato e rinchiuso nel carcere-fortezza di Pietro e Paolo, a Pietroburgo. All’inizio di novembre l’apposita commissione d’inchiesta priva lo scrittore del grado di ufficiale, di ogni sostanza, dell’appartenenza alla nobiltà e lo condanna a morte per fucilazione. Il 22 dicembre Dostoevskij e gli altri condannati vengono condotti sulla piazza Semënovskaja: tutto è pronto per l’esecuzione, i primi tre condannati a morte legati al palo, dinanzi ai fucili carichi e spiegati. Ma è una farsa, una sopraffina manifestazione di autoritaria crudeltà: ai condannati viene infatti comunicata la commutazione della pena, dalla morte per fucilazione alla deportazione e ai lavori forzati in Siberia. Un momento incredibile, che ispirerà a Dostoevskij le memorabili riflessioni sulla pena di morte presenti nell’Idiota [1], e rievocato dallo scrittore in una celebre lettera al fratello Michail, una delle lettere d’autore più belle di sempre [2].
«Oggi, 22 dicembre, siamo stati condotti sulla piazza Sëmenov. Lì è stata letta a tutti noi la sentenza di condanna a morte, poi ci hanno fatto accostare alla croce, hanno spezzato le spade al di sopra delle nostre teste e ci hanno fatto indossare l’abbigliamento dei condannati a morte (delle camicie bianche). Dopodiché tre di noi sono stati legati al palo per l’esecuzione della sentenza. Io ero il sesto della fila e siccome chiamavano a tre per volta io facevo parte del secondo terzetto e non mi restava da vivere più di un minuto. Mi sono ricordato di te, fratello, e di tutti i tuoi; nell’ultimo istante tu, soltanto tu, occupavi la mia mente, e soltanto allora ho capito quanto ti amo, fratello mio carissimo! Ho fatto anche a tempo ad abbracciare Plešceev e Durov, che mi stavano accanto, e a dir loro addio. Finalmente è stato dato il segnale della ritirata, quelli che erano legati al palo sono stati ricondotti indietro e ci è stato letto il proclama con cui Sua Maestà Imperiale ci donava la vita. Quindi è stata data lettura delle condanne autentiche.
[…] Fratello, io non mi sono abbattuto, non mi sono perso d’animo. La vita è vita dappertutto; la vita è dentro noi stessi, e in ciò che ci circonda all’esterno. Intorno a me ci saranno sempre degli uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, in qualsiasi sventura, non abbattersi e non perdersi d’animo, ecco in cosa sta la vita, e in che cosa consiste il suo compito. Io mi sono reso conto di questo, e questa idea mi è entrata nella carne e nel sangue.
[…] Possibile che io non prenda mai più la penna in mano? Io penso che tra quattro anni questo sarà possibile. Ti manderò tutto ciò che scriverò, se pure scriverò qualcosa. Dio mio, quante immagini vissute e da me ricreate sono destinate a perire e a spegnersi nella mia testa, oppure mi si scioglieranno nel sangue come un veleno! Sì, se non mi sarà possibile scrivere io perirò. Sarebbe meglio venir condannato a quindici anni di carcere, ma con la possibilità di tenere la penna in mano.
[…] Quando mi volto indietro a guardare il passato e penso a tutto il tempo inutilmente sprecato, a tutto quello che ho perduto in traviamenti, in errori, nell’ozio, nell’incapacità di vivere, a quanto poco ho saputo apprezzarlo, a quante volte ho peccato contro il cuore e contro lo spirito, il cuore mi sanguina. La vita è un dono, la vita è felicità, ogni istante potrebbe essere un secolo di felicità. Si jeunesse savait! E adesso, cambiando vita, io rinasco in una nuova forma. Fratello, ti giuro che non perderò la speranza e conserverò puro lo spirito e il cuore! Rinascerò per una vita migliore. Ecco in che consiste tutta la mia speranza e il mio conforto» [3].
Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre, la notte di Natale, Dostoevskij e gli altri condannati partono, in slitte scoperte, alla volta della Siberia. Dopo due settimane di viaggio, un viaggio durissimo, compiuto in condizioni meteorologiche estreme, con la temperatura che raggiunge persino i quaranta gradi sotto lo zero, i detenuti arrivano a Tobol’sk, dove restano fino al 20 gennaio. Tre giorni dopo Dostoevskij ed il compagno di prigionia Durov giungono infine ad Omsk, loro luogo di reclusione. Iniziano così i quattro anni di detenzione e di lavori forzati che lo scrittore rievoca nelle Memorie di una casa morta (le prime delle due grandiose memorie dostoevskiane, le seconde sono quelle del sottosuolo, che influenzeranno molta della letteratura, non solo russa, del secolo successivo [4]), e, a caldo, quasi con foga, in un’altra celebre lettera al fratello Michail, una lettera-fiume, datata 30 gennaio-22 febbraio 1854. Leggiamone alcuni passi.
«Alla fine siamo partiti e tre giorni dopo siamo arrivati a Omsk. Fin da Tobol’sk era stato informato sul conto dei comandanti alle cui dirette dipendenze ci saremmo trovati. Il comandante in capo era una persona molto perbene, ma il maggiore della piazza, Krivcov, era una canaglia come ce ne sono poche, un barbaro meschino, un attaccabrighe, un ubriacone, insomma tutto ciò che ci si può immaginare di più disgustoso. Fin dal nostro primo incontro egli insultò me e Durov chiamandoci imbecilli per la nostra faccenda e promise di infliggerci una punizione corporale alla nostra prima mancanza. Già da due anni deteneva la carica di maggiore della piazza e si era macchiato delle più terribili ingiustizie. Due anni dopo andò sotto processo. È stato Iddio a liberarmene. Arrivava sempre ubriaco (non l’ho mai visto sobrio), se la prendeva con un qualsiasi forzato sobrio e lo picchiava con il pretesto che era ubriaco fradicio. Certe volte, durante un’ispezione notturna, se la prendeva con qualche forzato per il fatto che quello non dormiva sul fianco destro, o perché gridava o delirava nel sonno, o per qualsiasi altro motivo che gli passasse per quella sua testa di ubriaco. E pensa che con un tale uomo noi dovevamo vivere riportandone il minor danno possibile, ed era lui a inviare ogni mese a Pietroburgo i rapporti e gli attestati sul nostro conto! Con i forzati ero già entrato in contatto a Tobol’sk, e qui a Omsk mi son dovuto acconciare a vivere insieme a loro per quattro anni. È gente rozza, esasperata e inasprita. In loro l’odio per i nobili oltrepassa qualsiasi limite, e quindi noialtri nobili ci hanno accolti con ostilità e con gioia malvagia per la nostra disgrazia. Ci avrebbero mangiati vivi, se li avessero lasciati fare. Del resto giudica tu stesso se potevamo contare su una difesa efficace dovendo vivere, mangiare, bere e dormire per vari anni in loro compagnia, senza che ci fosse neppure il tempo di ricorrere contro i loro innumerevoli soprusi d’ogni genere. “Voialtri nobili, becchi di ferro, ci avete sempre straziato. Prima tu eri un signore e tormentavi il popolo, ma ora sei peggio dell’ultimo degli uomini, sei diventato come noialtri”, ecco il tema che ci ha risuonato nelle orecchie per quattro anni di fila. Centocinquanta nemici non erano mai stanchi di perseguitarci; era questo il loro massimo piacere, il loro divertimento, la loro occupazione preferita, e se c’era per noi qualche modo di salvarci da quel tormento, questo era unicamente l’indifferenza, la superiorità morale – che essi non potevano fare a meno di sentire e che rispettavano – e il rifiuto di sottostare alla loro volontà. Essi erano sempre coscienti del fatto che noi gli eravamo superiori. Non avevano nessuna idea del nostro crimine, e siccome noi non ne parlavamo, non ci capivamo reciprocamente, e pertanto ci è toccato sopportare tutto il desiderio di vendetta e di persecuzione contro il ceto nobiliare che li anima, sentimento di cui vivono e respirano. La nostra vita era molto dura. Il carcere militare è più duro di quello civile. Tutti questi quattro anni li ho trascorsi rinchiuso tra le mura del carcere, e ne uscivo solo per andare al lavoro. Ci toccavano dei lavori pesanti, naturalmente non sempre, e mi capitava spesso di spossarmi completamente, esposto com’ero alle intemperie, all’umidità, ad un gelo intollerabile d’inverno, o trascinandomi nel fango. Una volta ho dovuto trascorrere quattro ore impegnato in un lavoro urgente, quando perfino il mercurio del termometro si era congelato e c’erano forse quaranta gradi sotto zero. Mi si congelò un piede. Vivevamo tutti in un mucchio, ficcati tutti quanti insieme in una sola caserma. Immaginati una vecchia, cadente costruzione di legno, che ormai non poteva più servire da abitazione e che da un pezzo era stato deciso di abbattere. D’estate l’aria era soffocante tanto da essere irrespirabile, e d’inverno il freddo era intollerabile. Tutto il pavimento era marcio, coperto da uno strato di due dita di sudiciume su cui era facile scivolare. Le piccole finestre si coprivano di uno strato di ghiaccio spesso due dita, tanto che neppure di giorno si poteva leggere. Il soffitto era pieno di buchi e lasciava gocciolare l’acqua. Stavamo stipati lì dentro come aringhe in una botte. Si accendeva la stufa con sei ceppi ogni giorno, ma non riuscivamo a scaldarci (nella stanza il ghiaccio si scioglieva a stento), e in compenso si faceva un fumo intollerabile, e così trascorreva tutto l’inverno. I forzati lavavano la biancheria dentro la stessa caserma, e così tutto quel piccolo ambiente si riempiva d’acqua. Non c’era nemmeno lo spazio per rigirarsi. Non era permesso uscire per un bisogno corporale da quando calavano le tenebre fino all’alba, perché le caserme venivano chiuse e nell’ingresso veniva sistemato un bugliolo che emanava un fetore insopportabile. Tutti i forzati puzzavano come porci e dicevano che non era possibile non fare delle porcherie perché “siamo uomini vivi”. Dormivamo su delle nude assi, ed era permesso tenere un solo cuscino. Ci coprivamo con delle corte pelliccette che ci lasciavano scoperti i piedi nudi. Si tremava dal freddo tutta la notte. Pulci, pidocchi e scarafaggi in quantità incredibile. D’inverno indossavamo delle corte pellicce, spesso di pessima qualità, che non scaldavano quasi per niente, e ai piedi portavamo degli stivali bassi con cui dovevamo camminare sul ghiaccio. Ci davano da mangiare del pane e minestra di cavoli in cui avrebbe dovuto esserci un quarto di libbra di carne di manzo a testa; ma la carne ce l’aggiungevano tritata, e io non l’ho mai vista. Nei giorni di festa ci davano della polenta di grano saraceno, ma senza quasi nessun condimento. Di quaresima ci davano del cavolo con acqua, e quasi nient’altro. Io mi sono completamente rovinato lo stomaco e sono stato ammalato varie volte. Giudica tu stesso se sarebbe stato possibile sopravvivere senza denaro; se non avessi avuto del denaro sarei indubbiamente morto, e del resto nessuno, nessun forzato avrebbe potuto sopportare una tale vita. Ma ognuno fa qualche lavoro, vende quel che produce e così guadagna qualche copeca. Io ho potuto avere del tè e mangiare qualche volta qualche pezzo di carne di manzo, e questo mi ha salvato. Inoltre non era possibile non fumare un po’ di tabacco, altrimenti si rischiava di soffocare in quell’aria mefitica. Tutto ciò si faceva di nascosto. Spesso mi sono ammalato e sono stato all’ospedale. A causa dello sconvolgimento dei nervi ho cominciato a soffrire di epilessia; comunque gli attacchi sono rari. Per giunta ho dei reumatismi alle gambe. A parte questo, mi sento abbastanza bene in salute. Aggiungi a tutti questi inconvenienti la quasi completa impossibilità di avere dei libri, e quei pochi che si riusciva ad avere bisognava leggerli di nascosto; aggiungi le continue liti, le discussioni, gl’insulti, le grida, la baraonda, il baccano, il trovarsi sotto continua sorveglianza, il non essere mai solo, e tutto questo per quattro anni senza un attimo di sosta, e allora vedrai che mi si può comprendere se ti dico che è stata davvero dura. Per giunta, la minaccia continua di essere sottoposto a delle punizioni, i ceppi costantemente ai piedi e una totale oppressione dello spirito, ed eccoti il quadro della mia vita. Non starò a dirti quel ch’è successo in questi quattro anni della mia anima, delle mie convinzioni, della mia intelligenza e del mio cuore. Sarebbe troppo lungo raccontartelo. Ma il continuo concentrarmi su me stesso – unico rifugio dove potevo sfuggire a quell’amara realtà – ha portato i suoi frutti. Adesso nutro molte aspirazioni e molte speranze alle quali prima non pensavo nemmeno. […]
Del resto, gli uomini sono uomini dovunque. Perfino in questi quattro anni di deportazione, in mezzo ai briganti, alla fine sono riuscito a trovare degli uomini veri. Tu forse non ci crederai, ma c’erano dei caratteri profondi, forti, stupendi, e che gioia mi dava scoprire l’oro sotto la rude scorza. E non soltanto uno o due, ma parecchi. Alcuni non si potevano non rispettare, altri erano indubbiamente ammirevoli. Insegnavano la lingua russa e a leggere e scrivere a un giovane circasso (mandato alla deportazione per rapina). Che gratitudine mi dimostrava! Un altro forzato si è messo a piangere al momento di separarsi da me. Gli davo ogni tanto del denaro, ma quanto vuoi che fosse? In compenso la sua riconoscenza era addirittura infinita. In questi anni il mio carattere è peggiorato: con loro mi dimostravo capriccioso e impaziente. Ma loro tenevano conto del mio stato d’animo e tolleravano tutto senza mormorare. A propos. Se sapessi quanti tipi popolari e quanti caratteri ho portato con me uscendo dalla prigione! Ho vissuto fianco a fianco con loro, e perciò penso di conoscerli a fondo. Quante storie di vagabondi e di briganti, e in genere di tutto quel mondo miserabile e sofferente! Mi basteranno per volumi interi. Che popolo meraviglioso! In generale non posso dire che questi anni siano stati per me tempo perso. Se non ho conosciuto la Russia, perlomeno ho conosciuto bene il popolo russo, anzi così bene come pochi forse lo conoscono. Questo è un mio piccolo peccato di orgoglio, ma spero che sia perdonabile» [5].
Proprio in apertura dell’estratto della lettera sopra riportato, Dostoevskij realizza compiutamente il ritratto del terribile maggiore «Ottocchi», incubo dei detenuti nelle Memorie di una casa morta, e, soprattutto, presenta alcuni dei temi principali dell’opera: l’impossibilità, la dolorosa impossibilità per il detenuto nobile (ogni proprietario terriero era ritenuto tale, qualunque fosse l’entità delle sue sostanze) di integrarsi in un ambiente intimamente popolare quale il reclusorio («Risultò che tra lui, apostolo dell’umanità, combattente per la felicità del popolo, e questo popolo non ci fossero punti di contatto» [6]; «Era con loro, e voleva esserlo, ma, come “nobile”, non era accettato da loro ed era la sua tragedia» [7]); l’incontro, anche in un simile luogo di dolore e di depravazione morale, di uomini rispettabili e persino «ammirevoli» («l’oro sotto la rude scorza»); infine, e soprattutto, la scoperta del popolo russo, un’autentica epifania, che convince Dostoevskij dell’inadeguatezza dell’ideologia socialista, quella stessa ideologia di cui pure aveva subito il fascino e a causa della quale era finito a scontare una pena di quattro anni nell’inospitale Siberia. Al socialismo subentra Cristo, quel Cristo che, al termine della pena, e proprio grazie ad essa, si impone come il Credo dello scrittore russo (scrive Dostoevskij alla Fonvizina, la moglie del decabrista dalla quale, a Tobol’sk, aveva ricevuto in dono la copia del Vangelo che conserverà gelosamente fino alla morte, in una lettera d’inizio 1854: «Questo Credo è molto semplice, e suona così: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c’è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità» [8]), supremo ideale umano e filosofico al quale ogni uomo dovrebbe tendere [9]. «Dostoevskij, che proveniva da un’esperienza di dubbio, durante la katorga, a contatto con la fede semplice dei forzati, molti dei quali avevano pure commesso gravi crimini, sentì crescere in sé la volontà di credere, e specialmente, di credere e di amare Cristo» [10], scrive giustamente Bazzarelli.
Insomma, i quattro anni passati ai lavori forzati, fianco a fianco con detenuti d’ogni genere, impegnato in mansioni sfiancanti, in condizioni igienico-sanitarie e ambientali estreme, rappresentano un’esperienza di vita fondamentale, decisiva per Dostoevskij, che scopre il popolo russo, l’inadeguatezza dell’ideologia socialista e Cristo, al quale si abbandona con tutto se stesso, completamente. Ed è all’interno della fortezza di Omsk, tra il fumo e la sporcizia, i ferri ai piedi a rendere disagevole ogni singolo passo, che nasce uno degli scrittori più grandi di sempre, autore di monumenti letterari assoluti e ineguagliabili come Delitto e castigo [11], L’idiota [12], I demoni [13], I fratelli Karamazov [14]. All’interno del reclusorio Dostoevskij impara ad esplorare, a scandagliare a fondo l’uomo, quel «mistero» che, non ancora diciottenne, dichiarava al fratello Michail di voler risolvere, e proprio per diventare, a sua volta, un uomo [15].
Dai dati forniti sinora è facile capire quanto le Memorie di una casa morta, rievocazione letteraria dei quattro anni di reclusione e lavori forzati passati tra il 1850 e il 1854 in Siberia, siano importanti all’interno del corpus artistico dostoevskiano, una tappa di fondamentale importanza, che apre la via alle grandiose opere successive. Le Memorie di una casa morta, insieme con Se questo è un uomo di Primo Levi [16], il maggiore capolavoro della letteratura carceraria e concentrazionaria.
NOTE
[1] Per la lettura di queste fondamentali riflessioni rimando all’articolo Il principe Myškin e la pena di morte.
[2] Di queste illustri epistole ho proposto una selezione nell’articolo I Fondamentali: lettere d’autore.
[3] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 27-32.
[4] Per un approfondimento sul romanzo rimando agli articoli Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parte, Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Seconda parte.
[5] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, cit., pp. 38-45.
[6] Valerij Kirpotin, F.M. Dostoevskij, Il cammino creativo (1821-1859), citato in Fëdor Dostoevskij, Memorie di una casa morta, Rizzoli, Milano 2013, p. XXVII.
[7] Pierre Pascal, Dostoevskij. L’uomo e l’opera, citato in Fëdor Dostoevskij, Memorie di una casa morta, cit., p. XXIX.
[8] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, cit., p. 51.
[9] Per un approfondimento sul pensiero dello scrittore russo rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.
[10] Eridano Bazzarelli, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, Memorie di una casa morta, cit., p. XVII.
[11] Per un approfondimento sul primo dei quattro maggiori romanzi di Dostoevskij rimando all’articolo Delitto e castigo, dalla dialettica alla vita.
[12] Per un approfondimento sul secondo dei quattro maggiori romanzi di Dostoevskij rimando all’articolo L’idiota, il fallimento della bellezza.
[13] Per un approfondimento sul terzo dei quattro maggiori romanzi di Dostoevskij rimando agli articoli Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parte, Seconda parte; Aleksèj Niljč Kirillov, l’Uomo-Dio.
[14] Per un approfondimento sull’ultimo e, in assoluto, più grande romanzo di Dostoevskij rimando agli articoli I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Prima parte, Seconda parte.
[15] «L’uomo è un mistero. Un mistero che bisogna risolvere, e se trascorrerai tutta la vita cercando di risolverlo, non dire che hai perso tempo; io studio questo mistero perché voglio essere un uomo» (Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, cit., p. 26).
[16] Per un approfondimento sul capolavoro di Primo Levi rimando all’articolo Primo Levi, Se questo è un uomo.