Stefano Ussi, Niccolò Machiavelli nello studio, 1894

Niccolò Machiavelli tra i «pidocchi»

Così rinvolto in tra questi pidocchi traggo il cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.

Dopo quattordici anni di onorato servizio e decine di missioni diplomatiche in Italia e all’estero, al rientro in Firenze dei Medici Niccolò Machiavelli viene allontanato dalla città. Si ritira allora nella sua proprietà dell’Albergaccio, presso San Casciano. Come trascorra le sue giornate, costretto all’inattività politica, lo racconta egli stesso in una lettera del 10 dicembre 1513 all’amico Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino a Roma. Una lettera bellissima e al tempo stesso importantissima, perché in essa Machiavelli annuncia la composizione di un certo «opuscolo», uno dei libri più celebri dell’intera storia della letteratura, d’ogni tempo e luogo: Il principe.

Magnifico ambasciatore. Tarde non furon mai grazie divine. Dico questo, perché mi pareva haver perduta no, ma smarrita la grazia vostra, sendo stato voi assai tempo senza scrivermi; ed ero dubbio donde potessi nascere la cagione. E di tutte quelle mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando io dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi suto scritto che io non fussi buon massaio delle vostre lettere; e io sapevo che, da Filippo e Pagolo in fuora, altri per mio conto non le haveva viste. Hònne rihaùto per l’ultima vostra de’ 23 del passato, dove io resto contentissimo vedere quanto ordinatamente e quietamente voi esercitate cotesto ufizio publico; e io vi conforto a seguire così, perché chi lascia i sua comodi per li comodi d’altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non li è saputo grado. E poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga, e aspettar tempo che la lasci fare qualche cosa agl’huomini; e all’hora starà bene a voi durare più fatica, vegliar più le cose, e a me partirmi di villa e dire: eccomi. Non posso pertanto, volendo rendere pari grazie, dirvi in questa mia lettera altro che qual sia la vita mia; e se voi giudicate che sia a barattarla con la vostra, io sarò contento mutarla.
Io mi sto in villa; e poi che seguirono quelli miei ultimi casi, non sono stato, ad accozzarli tutti, venti dí a Firenze. Ho insino a qui uccellato a’ tordi di mia mano. Levavomi innanzi dí, impaniavo, andavone oltre con un fascio di gabbie addosso, che parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con i libri di Amphitrione; pigliavo el meno dua, el più sei tordi. E cosí stetti tutto settembre. Di poi questo badalucco, ancoraché dispettoso e strano, è mancato con mio dispiacere: e quale la vita mia vi dirò. Io mi lievo la mattina con el sole, e vòmmene in un mio bosco che io fo tagliare, dove sto dua ore a rivedere l’opere del giorno passato, e a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mani o fra loro o co’ vicini. E circa questo bosco io vi harei a dire mille belle cose che mi sono intervenute, e con Frosino da Panzano e con altri che voleano di queste legne. E Frosino in spezie mandò per certe cataste senza dirmi nulla; e al pagamento, mi voleva rattenere dieci lire, che dice aveva havere da me quattro anni sono, che mi vinse a cricca in casa Antonio Guicciardini. Io cominciai a fare el diavolo, volevo accusare el vetturale, che vi era ito per esse, per ladro. Tandem Giovanni Machiavelli vi entrò di mezzo, e ci pose d’accordo. Batista Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene e certi altri cittadini, quando quella tramontana soffiava, ognuno me ne prese una catasta. Io promessi a tutti; e manda’ne una a Tommaso, la quale tornò a Firenze per metà, perché a rizzarla vi era lui, la moglie, la fante, i figlioli, che pareva el Gaburra quando el giovedí con quelli suoi garzoni bastona un bue. Dimodoché, veduto in chi era guadagno, ho detto agli altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso, e in specie Batista, che connumera questa tra le altre sciagure di Prato.
Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni, e quelli loro amori ricordomi de’ mia: gòdomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in sulla strada, nell’hosteria; parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de’ paesi loro; intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie d’huomini. Viene in questo mentre l’hora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dí giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Cosí, rinvolto in tra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.
Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso – io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus; dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. E se vi piacque mai alcuno mio ghiribizzo, questo non vi doverrebbe dispiacere; e a un principe, e massime a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto: però io lo indirizzo alla Magnificentia di Giuliano. Filippo Casavecchia l’ha visto; vi potrà ragguagliare in parte e della cosa in sé e de’ ragionamenti ho hauto seco, ancora che tutta volta io l’ingrasso e ripulisco.
Voi vorresti, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita, e venissi a godere con voi la vostra. Io lo farò in ogni modo; ma quello che mi tenta hora è certe mie faccende, che fra sei settimane l’harò fatte. Quello che mi fa star dubbio è, che sono costí quelli Soderini, e quali sarei forzato, venendo costí, visitarli e parlar loro. Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, e scavalcassi nel Bargiello; perché, ancora che questo stato habbia grandissimi fondamenti e gran securità, tamen egli è nuovo, e per questo sospettoso; né manca di saccenti, che per parere, come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto, e lascierebbono el pensiero a me. Pregovi mi solviate questa paura, e poi verrò in fra el tempo detto a trovarvi a ogni modo.
Io ho ragionato con Filippo il porchetto di questo mio opuscolo, se gli era ben darlo o non lo dare; e, sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo mandassi. Il non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e’ non fussi, non che altro, letto; e che questo Ardinghelli si facessi onore di questa ultima mia fatica. El darlo mi faceva la necessità che mi caccia, perché io mi logoro, e lungo tempo non posso stare cosí che io non diventi per povertà contennendo. Appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso; perché, se poi io non me gli guadagnassi, io mi dorrei di me; e per questa cosa, quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni, che io sono stato a studio all’arte dello stato, non gli ho né dormiti né giuocati; e doverrebbe ciascheduno haver caro servirsi di uno che alle spese di altri fussi pieno di esperienza. E della fede mia non si doverrebbe dubitare, perché, havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe poter mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia. Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa materia vi paia. E a voi mi raccomando. Sis felix (Niccolò Machiavelli, Opere, a cura di Mario Bonfantini, Ricciardi Editore, Milano-Napoli 2006).

L’intera produzione machiavelliana è attraversata da una ferrea vena pessimistica, e proprio nel segno di essa si apre la lettera. Emblematica la frase: «chi lascia i sua comodi per li comodi d’altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non gli è saputo grado», ovvero: chi lascia i propri comodi per fare quelli degli altri, perde i suoi, e dagli altri non guadagna nulla né riceve gratitudine. Inoltre compare subito uno dei temi principali, centrali nell’attività filosofico-letteraria di Machiavelli, la fortuna, nei confronti della quale l’autore, almeno all’inizio dell’epistola, ha un atteggiamento remissivo: «E poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga, e aspettare tempo che ella lasci far qualche cosa agl’huomini e all’hora starà bene a voi durare più fatica, vegliar più le cose, e a me partirmi di villa e dire eccomi».

Machiavelli poi, l’illustre cittadino e politico escluso dalla vita attiva, passa a raccontare la sua giornata tipo. Si tratta di una descrizione fondata sull’ironia e l’autoironia, con l’autore che prova un particolare piacere, amaro e maligno – il «riso maligno» di leopardiana memoria -, a rappresentarsi in modo caricaturale, intendo ad «ingaglioffarsi» in osteria giocando «a cricca, a trich-trach» e accapigliarsi per «un quattrino». Ma ecco che arriva, puntuale, la staffilata: «Così rinvolto in tra questi pidocchi traggo il cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi». Dall’ironia e l’autoironia si passa repentinamente al disprezzo: Machiavelli si serve dei «pidocchi» – termine così forte e insolente da tradire non solo il dispregio dell’intellettuale e del politico escluso, ma del misantropo – solamente per tenere in esercizio il cervello e per lasciar prorompere la perfidia, la cattiveria della sua sorte, felice che essa lo calpesti a tal punto, per osservare se non giunga a imbarazzarsi di tormentarlo. Una frase di una forza straordinaria, dove torna quell’atteggiamento combattivo, quasi di sfida, contro la fortuna che caratterizza Il principe.

L’unico momento della giornata veramente degno di essere vissuto e raccontato è quando Machiavelli, alla sera, si dedica alla lettura dei Classici – «entro nelle antique corti degli antichi huomini» -, nutrendosi «di quel cibo, che solum è mio, e ch’io nacqui per lui» (in queste parole l’autore compendia il senso più profondo dell’esistenza di noi umanisti, che non abbiamo davvero, ve lo assicuro, altro cibo, né, di fatto, altro diversivo, contrariamente ai «pidocchi»). Si tratta di ore benedette, sacre, in cui Machiavelli raggiunge una dimensione ideale, quasi mistica, in cui persino la morte non fa più paura: «e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro». Machiavelli si trasfonde nei Classici, e dal dialogo con essi nasce Il principe. Perché la lettura e lo studio non sono attività astratte, fuori della realtà, fine a se stesse, no. Sono esperienze, esperienze vere e proprie, necessarie per la comprensione dell’uomo, della vita, del mondo.

La lettera, il cui tono pian piano si abbassa, perde d’intensità dopo la vibrante esaltazione dei Classici e della loro necessaria lettura, si conclude così come si è aperta, nel segno del pessimismo machiavelliano: «E della fede mia non si dovrebbe dubitare, perché havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia». Perché solo chi è infedele e disonesto può arricchirsi.

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