Tiziano, Ritratto di Ariosto, 1510 circa

Ludovico Ariosto, l’intellettuale cortigiano dissidente

So ben che dal parer dei più mi tolgo,
che ’l stare in corte stimano grandezza,
ch’io pel contrario a servitù rivolgo.

Ludovico Ariosto, «Satira III»

Nell’immaginario collettivo Ludovico Ariosto rappresenta il modello per antonomasia dell’intellettuale cortigiano del Rinascimento. La rapida e superficiale lettura di una qualunque biografia del poeta sembrerebbe confermare questa diffusa valutazione, valutazione che, tuttavia, ad una più attenta e approfondita analisi dell’esperienza esistenziale e letteraria di Ariosto, mostra la pochezza, l’approssimazione e la banalità del luogo comune. Perché, a ben vedere, l’autore dell’Orlando furioso non ha mai lesinato critiche, ricorrendo anche a toni particolarmente aspri e polemici, all’ambiente cortigiano, percepito e vissuto come una vera e propria «gabbia», e alla sua vita, intesa come costrizione, come compromesso ben lontano dalle attitudini del poeta. Ora, l’opera di Ariosto in cui si manifesta con maggior vigore questa sua tendenza alla critica alla corte, questo suo atteggiamento da intellettuale cortigiano dissidente contrario al pensiero comune – il «parer dei più» – sono le Satire, sette componimenti in forma di lettera scritte tra il 1517 e il 1525 e indirizzate a parenti e amici. Si tratta di un genere dalla tradizione illustre, che ha in Orazio il principale modello e consente all’autore di usufruire di una illimitata libertà argomentativa. Ariosto vi introduce l’innovazione della terzina dantesca. Come ha evidenziato Cesare Segre, tra gli aspetti che caratterizzano le Satire ariostesche spicca l’impostazione dialogica; l’autore dialoga certo con il destinatario, ma anche con se stesso e con interlocutori immaginari. L’impostazione dialogica si concretizza in un tono e in uno stile evidentemente colloquiali, con il frequente, o meglio, programmatico ricorso alla lingua parlata, dalla quale vengono mutuati soprattutto i cosiddetti modi di dire. Se all’aspetto formale si unisce l’aspetto tematico – in cui emergono il desiderio di una vita tranquilla e modesta, libera dalle invidie e dagli intrighi della corte, la critica alle indefesse e vane ambizioni umane e la consapevolezza dei limiti della letteratura – le Satire si impongono davvero come un’opera crepuscolare, nel senso novecentesco del termine [1].

Affinché quanto scritto finora non resti solamente un inutile e astratto sproloquio, propongo di seguito la Satira III, risalente al 1518 e indirizzata al cugino Annibale Malaguzzi, in cui Ariosto parla del suo nuovo servizio presso il duca Alfonso e rivendica la propria autonomia di intellettuale cortigiano dissidente.

Poi che, Annibale, intendere vuoi come
la fo col duca Alfonso, e s’io mi sento
più grave o men de le mutate some;

perché, s’anco di questo mi lamento,
tu mi dirai c’ho il guidalesco rotto,
o ch’io son di natura un rozzon lento:

senza molto pensar, dirò di botto
che un peso e l’altro ugualmente mi spiace,
e fòra meglio a nessuno esser sotto.

Dimmi or c’ho rotto il dosso e, se ’l ti piace,
dimmi ch’io sia una rózza, e dimmi peggio:
insomma esser non so se non verace.

Che s’al mio genitor, tosto che a Reggio
Daria mi partorì, facevo il giuoco
che fe’ Saturno al suo ne l’alto seggio,

sì che di me sol fosse questo poco
ne lo qual dieci tra frati e serocchie
è bisognato che tutti abbian luoco,

la pazzia non avrei de le ranocchie
fatta già mai, d’ir procacciando a cui
scoprirmi il capo e piegar le ginocchie.

Ma poi che figliolo unico non fui,
né mai fu troppo a’ miei Mercurio amico,
e viver son sforzato a spese altrui;

meglio è s’appresso il Duca mi nutrico,
che andare a questo e a quel de l’umil volgo
accattandomi il pan come mendico.

So ben che dal parer dei più mi tolgo,
che ’l stare in corte stimano grandezza,
ch’io pel contrario a servitù rivolgo.

Stiaci volentier dunque chi la apprezza;
fuor n’uscirò ben io, s’un dì il figliuolo
di Maia vorrà usarmi gentilezza.

Non si adatta una sella o un basto solo
ad ogni dosso; ad un non par che l’abbia,
all’altro stringe e preme e gli dà duolo.

Mal può durar il rosignuolo in gabbia,
più vi sta il gardelino, e più il fanello;
la rondine in un dì vi mor di rabbia.

Chi brama onor di sprone o di capello,
serva re, duca, cardinale o papa;
io no, che poco curo questo e quello.

In casa mia mi sa meglio una rapa
ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco
e mondo, e spargo poi di acetto e sapa,

che all’altrui mensa tordo, starna o porco
selvaggio; e così sotto una vil coltre,
come di seta o d’oro, ben mi corco.

E più mi piace di posar le poltre
membra, che di vantarle che alli Sciti
sien state, agli Indi, alli Etiopi, et oltre.

Degli uomini son varii li appetiti:
a chi piace la chierca, a chi la spada,
a chi la patria, a chi li strani liti.

Chi vuole andare a torno, a torno vada:
vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada.

Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,
quel monte che divide e quel che serra
Italia, e un mare e l’altro che la bagna.

Questo mi basta; il resto de la terra,
senza mai pagar l’oste, andrò cercando
con Ptolomeo, sia il mondo in pace o in guerra;

e tutto il mar, senza far voti quando
lampeggi il ciel, sicuro in su le carte
verrò, più che sui legni, volteggiando.

Il servigio del Duca, da ogni parte
che ci sia buona, più mi piace in questa:
che dal nido natio raro si parte.

Per questo i studi miei poco molesta,
né mi toglie onde mai tutto partire
non posso, perché il cor sempre ci resta.

Parmi vederti qui ridere e dire
che non amor di patria né de studi,
ma di donna è cagion che non voglio ire.

Liberamente te ’l confesso: or chiudi
la bocca, che a difender la bugia
non volli prender mai spada né scudi.

Del mio star qui qual la cagion si sia,
io ci sto volentier; ora nessuno
abbia a cor più di me la cura mia.

S’io fossi andato a Roma, dirà alcuno,
a farmi uccellator de benefici,
preso alla rete n’avrei già più d’uno;

tanto più ch’ero degli antiqui amici
del papa, inanzi che virtude o sorte
lo sublimasse al sommo degli uffici;

e prima che gli aprissero le porte
i Fiorentini, quando il suo Giuliano
si riparò ne la feltresca corte,

ove col formator del cortigiano,
col Bembo e gli altri sacri al divo Appollo,
facea l’essilio suo men duro e strano;

e dopo ancor, quando levaro il collo
Medici ne la patria, e il Gonfalone,
fuggendo del Palazzo, ebbe il gran crollo;

e fin che a Roma se andò a far Leone,
io gli fui grato sempre, e in apparenza
mostrò amar più di me poche persone;

e più volte, e Legato et in Fiorenza,
mi disse che al bisogno mai non era
per far da me al fratel suo differenza.

Per questo parrà altrui cosa leggiera
che, stando io a Roma, già m’avesse posta
la cresta dentro verde e di fuor nera.

A chi parrà così farò risposta
con uno essempio: leggilo, che meno
leggerlo a te, che a me scriverlo, costa.

Una stagion fu già, che sì il terreno
arse, che ’l Sol di nuovo a Faetonte
de’ suoi corsier parea aver dato il freno;

secco ogni pozzo, secca era ogni fonte;
li rivi e i stagni e i fiumi più famosi
tutti passar si potean senza ponte.

In quel tempo, d’armenti e de lanosi
greggi io non so s’i’ dico ricco o grave,
era un pastor fra gli altri bisognosi,

che poi che l’acqua per tutte le cave
cercò indarno, si volse a quel Signore
che mai non suol fraudar chi in lui fede have;

et ebbe lume e inspirazion di core,
ch’indi lontano troveria, nel fondo
di certa valle, il desiato umore.

Con moglie e figli e con ciò ch’avea al mondo
là si condusse, e con gli ordegni suoi
l’acqua trovò, né molto andò profondo.

E non avendo con che attinger poi,
se non un vase picciolo et angusto,
disse: “Che mio sia il primo non ve annoi;

di mógliema il secondo; e ’l terzo è giusto
che sia de’ figli, e il quarto, e fin che cessi
l’ardente sete onde è ciascuno adusto:

li altri vo’ ad un ad un che sien concessi,
secondo le fatiche, alli famigli
che meco in opra a far il pozzo messi.

Poi su ciascuna bestia si consigli,
che di quelle che a perderle è più danno
inanzi all’altre la cura si pigli”.

Con questa legge un dopo l’altro vanno
a bere; e per non essere i sezzai,
tutti più grandi i lor meriti fanno.

Questo una gazza, che già amata assai
fu dal padrone et in delizie avuta,
vedendo et ascoltando, gridò: “Guai!

Io non gli son parente, né venuta
a fare il pozzo, né di più guadagno
gli son per esser mai ch’io gli sia suta;

veggio che dietro alli altri mi rimagno:
morò di sete, quando non procacci
di trovar per mio scampo altro rigagno”.

Cugin, con questo essempio vuo’ che spacci
quei che credon che ’l Papa porre inanti
mi debba a Neri, a Vanni, a Lotti e a Bacci.

Li nepoti e i parenti, che son tanti,
prima hanno a ber; poi quei che lo aiutaro
a vestirsi il più bel de tutti i manti.

Bevuto ch’abbian questi, gli fia caro
che beano quei che contra il Soderino
per tornarlo in Firenze si levaro.

L’un dice: “Io fui con Pietro in Casentino,
e d’esser preso e morto a risco venni”.
“Io gli prestai danar”, grida Brandino.

Dice un altro: “A mie spese il frate tenni
uno anno, e lo rimessi in veste e in arme,
di cavallo e d’argento gli sovenni”.

Se, fin che tutti beano, aspetto a trarme
la voluntà di bere, o me di sete,
o secco il pozzo d’acqua veder parme.

Meglio è star ne la solita quïete,
che provar se gli è ver che qualunque erge
Fortuna in alto, il tuffa prima in Lete.

Ma sia ver, se ben li altri vi sommerge,
che costui sol non accostasse al rivo
che del passato ogni memoria absterge.

Testimonio sono io di quel ch’io scrivo:
ch’io non l’ho ritrovato, quando il piede
gli baciai prima, di memoria privo.

Piegossi a me da la beata sede;
la mano e poi le gote ambe mi prese,
e il santo bacio in amendue mi diede.

Di mezzo quella bolla anco cortese
mi fu, de la quale ora il mio Bibiena
espedito m’ha il resto alle mie spese.

Indi col seno e con la falda piena
di speme, ma di pioggia molle e brutto,
la notte andai sin al Montone a cena.

Or sia vero che ’l Papa attenga tutto
ciò che già offerse, e voglia di quel seme
che già tanti anni i’ sparsi, or darmi il frutto;

sie ver che tante mitre e dïademe
mi doni, quante Iona di Cappella
alla messa papal non vede insieme;

sia ver che d’oro m’empia la scarsella,
e le maniche e il grembio, e, se non basta,
m’empia la gola, il ventre e le budella;

serà per questo piena quella vasta
ingordigia d’aver? rimarrà sazia
per ciò la sitibonda mia cerasta?

Dal Marocco al Catai, dal Nilo in Dazia,
non che a Roma, anderò, se di potervi
saziare i desiderii impetro grazia;

ma quando cardinale, o de li servi
io sia il gran Servo, e non ritrovino anco
termine i desiderii miei protervi,

in ch’util mi risulta essermi stanco
in salir tanti gradi? meglio fòra
starmi in riposo o affaticarmi manco.

Nel tempo ch’era nuovo il mondo ancora
e che inesperta era la gente prima
e non eran l’astuzie che sono ora,

a piè d’un alto monte, la cui cima
parea toccassi il cielo, un popul, quale
non so mostrar, vivea ne la val ima;

che più volte osservando la inequale
luna, or con corna or senza, or piena or scema,
girar il cielo al corso naturale;

e credendo poter da la suprema
parte del monte giungervi, e vederla
come si accresca e come in sé si prema;

chi con canestro e chi con sacco per la
montagna cominciar correr in su,
ingordi tutti a gara di volerla.

Vedendo poi non esser giunti più
vicini a lei, cadeano a terra lassi,
bramando in van d’esser rimasi giù.

Quei ch’alti li vedean dai poggi bassi,
credendo che toccassero la luna,
dietro venian con frettolosi passi.

Questo monte è la ruota di Fortuna,
ne la cui cima il volgo ignaro pensa
ch’ogni quïete sia, né ve n’è alcuna.

Se ne l’onor si trova o ne la immensa
ricchezza il contentarsi, i’ loderei
non aver, se non qui, la voglia intensa;

ma se vediamo i papi e i re, che dèi
stimiamo in terra, star sempre in travaglio,
che sia contento in lor dir non potrei.

Se di ricchezze al Turco, e s’io me agguaglio
di dignitate al Papa, et ancor brami
salir più in alto, mal me ne prevaglio.

Convenevole è ben ch’i’ ordisca e trami
di non patire alla vita disagio,
che più di quanto ho al mondo è ragion ch’io ami.

Ma se l’uomo è sì ricco che sta ad agio
di quel che la natura contentarse
dovria, se fren pone al desir malvagio;

che non digiuni quando vorria trarse
l’ingorda fame, et abbia fuoco e tetto
se dal freddo o dal sol vuol ripararse;

né gli convenga andare a piè, se astretto
è di mutar paese; et abbia in casa
chi la mensa apparecchi e acconci il letto,

che mi può dare o mezza o tutta rasa
la testa più di questo? ci è misura
di quanto puon capir tutte le vasa.

Convenevole è ancor che s’abbia cura
de l’onor suo; ma tal che non divenga
ambizïone e passi ogni misura.

Il vero onore è ch’uom da ben te tenga
ciascuno, e che tu sia; che, non essendo,
forza è che la bugia tosto si spenga.

Che cavalliero o conte o reverendo
il populo te chiami, io non te onoro,
se meglio in te che ’l titol non comprendo.

Che gloria ti è vestir di seta e d’oro,
e, quando in piazza appari o ne la chiesa,
ti si lievi il capuccio il popul soro;

poi dica dietro: “Ecco che diede presa
per danari a’ Francesi Porta Giove
che il suo signor gli avea data in difesa”?

Quante collane, quante cappe nuove
per dignità si comprano, che sono
publici vituperii in Roma e altrove!

Vestir di romagnuolo et esser bono,
al vestir d’oro et aver nota o macchia
di baro o traditor sempre prepono.

Diverso al mio parere il Bomba gracchia,
e dice: “Abb’io pur roba, e sia l’acquisto
o venuto pel dado o per la macchia:

sempre ricchezze riverire ho visto
più che virtù; poco il mal dir mi nòce:
se riniega anco e si biastemia Cristo”.

Pian piano, Bomba; non alzar la voce:
biastemian Cristo li uomini ribaldi,
peggior di quei che lo chiavaro in croce;

ma li onesti e li buoni dicon mal di
te, e dicon ver; che carte false e dadi
ti dànno i beni c’hai, mobili e saldi.

E tu dài lor da dirlo, perché radi
più di te in questa terra straccian tele
d’oro e broccati e veluti e zendadi.

Quel che devresti ascondere, rivele:
a’ furti tuoi, che star dovrian di piatto,
per mostrar meglio, allumi le candele:

e dài materia ch’ogni savio e matto
intender vuol come ville e palazzi
dentro e di fuori in sì pochi anni hai fatto,

e come così vesti e così sguazzi;
e rispondere è forza, e a te è avviso
esser grande uomo, e dentro ne gavazzi.

Pur che non se lo veggia dire in viso,
non stima il Borna che sia biasmo, s’ode
mormorar dietro che abbia il frate ucciso.

Se bene è stato in bando un pezzo, or gode
l’ereditate in pace, e chi gli agogna
mal, freme indarno e indarno se ne rode.

Quello altro va se stesso a porre in gogna
facendosi veder con quella aguzza
mitra acquistata con tanta vergogna.

Non avendo più pel d’una cuccuzza,
ha meritato con brutti servigi
la dignitate e ’l titolo che puzza

a’ spirti umani, alli celesti e a’ stigi [2].

La Satira III è un autentico grido di libertà, una prepotente rivendicazione di autonomia e di indipendenza. Il componimento si caratterizza sin dall’inizio per questo motivo di dissenso, e Ariosto sottolinea come servire un signore, qualunque signore, sia un peso, e come e quanto questo peso gli dispiaccia: «senza molto pensar, dirò di botto / che un peso e l’altro ugualmente mi spiace, / e fòra meglio a nessuno esser sotto». Il servizio è un giogo al quale Ariosto è stato costretto dalla complicata situazione familiare: «Ma poi che figliolo unico non fui, / né mai fu troppo a’ miei Mercurio amico, / e viver son sforzato a spese altrui». Una condizione umiliante, che Ariosto non si vergogna di confessare, perché «esser non so se non verace». Il poeta si oppone ai valori dell’epoca che individuano nella cortigiania l’onore massimo per un uomo; per lui non è altro che una condizione servile che limita fortemente l’attività letteraria con le sue fastidiose incombenze pratiche, diplomatiche, e dalla quale si libererebbe con gioia se solo potesse: «So ben che dal parer dei più mi tolgo / che ‘l stare in corte stimano grandezza, / ch’io pel contrario a servitù rivolgo». Si tratta di una terzina dalla fortissima carica eversiva, protestataria, che sola basta a svelare l’inesattezza, l’infondatezza del giudizio diffuso di un Ariosto quale emblematico esemplare dell’intellettuale cortigiano del Rinascimento. Al contrario, Ariosto è un intellettuale cortigiano dissidente legato alla corte solo ed esclusivamente per interesse, per convenienza, per opportunità; la cortigiania non è che un compromesso vissuto con disagio e insofferenza.

La Satira si caratterizza per il linguaggio spicciolo, colloquiale, che la rende particolarmente diretta, efficace ed aggressiva, ma non mancano immagini di rara bellezza poetica, come quella della rondine ingabbiata, che muore dopo un solo giorno, «di rabbia». Si tratta dell’immagine che forse nel modo più efficace, e al tempo stesso poetico, rappresenta tutta l’insofferenza e tutto il disappunto del poeta.

Ariosto desidera ben altra vita, una vita meno ricca, meno sfarzosa, magari meno comoda, ma più autentica e serena, nella quale poter esprimere se stesso senza limiti socio-politici. Questa aspirazione ad una vita tranquilla e sincera si concretizza nell’immagine spicciola, ma proprio per questo efficacissima, della rapa: «In casa mia mi sa meglio una rapa / ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco, / e mondo, e spargo poi di aceto e sapa / che all’altrui mensa tordo, storna o porco». Tra i vantaggi, o presunti tali, offerti dalla vita cortigiana vi è la possibilità di viaggiare, ma Ariosto non se ne cura. Egli preferisce la sua «contrada», e viaggia stando fermo, servendosi delle carte e della sua fantasia, creatrice di uno dei massimi capolavori della letteratura italiana e non solo, l’Orlando furioso. E il tono di Ariosto si inasprisce: «Del mio star qui qual la cagion si sia, / io ci sto volentier; ora nessuno / abbia a cor più di me la cura mia», terzina nella quale riecheggia il polemico e alterato Boccaccio dell’Introduzione alla IV giornata del Decameron [3].

Caratteristico nelle Satire è il ricorso all’apologo, che contribuisce sensibilmente alla grande incisività del componimento. In questo caso specifico, di apologhi ne compaiono due, quello della gazza (di nuovo la dantesca metafora ornitologica) e quello della luna. L’apologo della gazza mostra con chiarezza la disincantata e realistica visione della vita cortigiana propria di Ariosto, e la sua dolorosa consapevolezza del ruolo marginale riservato alla letteratura, scivolata in secondo piano rispetto alle necessità politiche, dominate dall’utile, dall’interesse. L’apologo della luna svela invece l’atteggiamento di condanna del poeta verso le indefesse e vane ambizioni umane. Vengono in mente i vibranti moniti di Petrarca [4] e la lapidaria sentenza di Pascal: «Tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera» [5].

Altro che modello per antonomasia dell’intellettuale cortigiano del Rinascimento… Ludovico Ariosto si impone come un vero e proprio intellettuale cortigiano dissidente, che degrada la tanto decantata, esaltata vita di corte a mera servitù, alla quale sottostà solo perché costretto, per calcolo e opportunità. La sua è una voce fuori dal coro, contraria al «parer dei più», una voce coraggiosa e al tempo stesso insofferente, che rivendica la propria autonomia e la propria indipendenza, la propria dignità altissima di poeta; il più grande poeta del Rinascimento, questo sì.

NOTE

[1] Mi riferisco naturalmente al Crepuscolarismo, la tendenza poetica italiana d’inizio Novecento che ha in Corazzini, Gozzano, Moretti, Vallini alcuni dei suoi maggiori interpreti.

[2] Ludovico Ariosto, Satire, a cura di Guido Davico Bonino, Rizzoli, Milano 1990.

[3] «Caccinmi via questi cotali qualora io ne domando loro, non che la Dio mercé, ancora non mi bisogna; e, quando pur sopravvenisse il bisogno, io so, secondo l’Apostolo, abbondare e necessità sofferire, e perciò a niun caglia più di me che a me», replica piccato Boccaccio ai suoi detrattori nell’Introduzione alla IV giornata del Decameron. Per un approfondimento rimando all’articolo Giovanni Boccaccio, uno scrittore al servizio delle donne. Decameron.

[4] Vanitas vanitatum et omnia vanitas: il celebre incipit del Qoelet si impone come uno dei principali temi della poesia petrarchesca. Per un approfondimento rimando agli articoli Il Canzoniere di Francesco Petrarca: storia di un amore umano, Trionfalmente Francesco Petrarca.

[5] Per un approfondimento sul pensatore francese rimando agli articoli Blaise Pascal – Il senso della vita come problema fondamentale, Il divertissement come fuga dai problemi esistenziali, Esprit de géométrie ed esprit de finesse.

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